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Barbie, guida non troppo rosa al film più rosa di tutti

28 Luglio 2023 10 min lettura

Barbie, guida non troppo rosa al film più rosa di tutti

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Non ricordo la mia prima Barbie, non ricordo l'ultima. Nella memoria conservo, invece, diverse Barbie nel mentre. Fine anni '80, inizio '90, la Barbie Luce di Stelle, la Barbie Profumo, la Barbie Fiori di Pesco, la Barbie Benetton, quella con la musicassetta, quella con i capelli lunghissimi da colorare in fucsia, quella parlante che chiedeva: «Andiamo a fare shopping?». Mie, di mia sorella, delle mie cugine, nuovissime o di seconda mano, avute per davvero, prese in prestito per un paio d'ore o solo desiderate: chissà. Le cose di cui sono certa sono altre: tre o quattro, ora saldissime e chiare, di cui non sapevo (più) niente prima di andare al cinema per il film di Greta Gerwig con Margot Robbie e Ryan Gosling.

Sala cinematografica a fine luglio: uno dei pochi posti pubblici, a Napoli ma suppongo anche altrove, dove con una decina di euro a testa si possono passare un paio di ore a una temperatura accettabile, in penombra e con relativa quiete. Miracolo dell'aria condizionata e dell'hype pubblicitario in egual misura, anche in un pomeriggio infrasettimanale c'è la fila alla biglietteria del multisala che ha visto tempi migliori, prepandemici. L'età media – che poi si rivelerà un target di riflesso, come un fascio di luce che centrando uno specchio illumina anche tutto il resto – è sui dieci anni: ci sono, cioè e in egual misura, bambine dai 4 ai 6 anni e ragazzine tra i 13 e i 16. Per la stragrande maggioranza sono vestite di rosa. Alcune di loro hanno mamme che accompagnano, ignare di essere, probabilmente, le vere destinatarie dell'operazione più che dell'opera. E poi ci sono io che non sono riuscita a partecipare all'evento pop andando al cinema la sera stessa dell'uscita in sala.

Il primo, vero film di Barbie

Sin dal trailer di lancio del film, nel dicembre 2022, la bambola più nota al mondo è presentata come il monolite di 2001: Odissea nello Spazio di Stanley Kubrick. Capace di rivoluzionare l'immaginario collettivo delle bambine che, grazie a lei, possono giocare a diventare donne oltre che madri, rappresenta la “possibilità oggettuale” di figurarsi in un ruolo non accudente. Le vecchie bambole sono dunque distrutte alla stessa maniera in cui l'osso scarnificato di Odissea nello Spazio, impugnato in un certo modo dalle scimmie, diventa strumento atto a ferire, sopprimere, annientare. Con Barbie, le piccole – poiché non si fa menzione di eventuali piccoli – scoprono un role playing formativo che è diverso dal ninnare un fagottino, fingere di nutrirlo, cambiarlo e portarlo a spasso in carrozzina. Barbie non sa niente della maternità. Barbie non ispira cure. Barbie è perfetta. Non vuole coccole, ma aggiunte che vanno acquistate. Il vestito, la casa, la macchina, il camper, le amiche, le sorelle minori, il Ken: tutti accessori. Non basta immaginarli, bisogna averli. Si svela e ci si immedesima, dunque, con la miniaturizzazione di una donna che, nella maggior parte degli esemplari (e ben prima del lancio sul mercato di bambole dall'aspetto maggiormente inclusivo) è bionda, bianca, dalle misure perfette e con complementi – talvolta inclusi, più spesso da comprare a parte – coerenti ai desideri della società occidentale: casa, mezzo di locomozione, compagnia. Ma a cosa si gioca, giocando con Barbie? Io, che pure l'ho fatto, non ne ho memoria.

Alla fine degli anni Settanta – quando questa bambola esisteva già da vent'anni – la Cognitive Science Society riunita per la prima volta a La Jolla, in California, ipotizzò che le persone si comportassero, al di là del loro sentire, seguendo modelli socialmente riconosciuti e conoscenze implicite. È la teoria dei frames e degli script: ciascun evento – una festa di compleanno, una sessione di shopping, una cena in un ristorante di classe – custodisce in sé un insieme di regole, aspettative e presupposizioni. Sappiamo, cioè, da esperienze pregresse, da racconti, da film, come potrebbe o dovrebbe andare e ci comportiamo di conseguenza. Probabilmente è questo che avviene, in piccolo, anche quando si gioca con le Barbie: ci si figura un evento e lo si inscena, rispettando una sorta di copione interiorizzato dalla realtà circostante e suggerito dalla condizione e tipologia della bambola in uso. 

Una Barbie Riviera in costume verde fluo può e deve andare in spiaggia o in piscina; una Barbie Day-to-Night con ventiquattrore e tailleur rosa – look replicato anche da Margot Robbie nel tour promozionale della pellicola – ha come meta il suo ufficio e così via. Barbie può essere e fare tutto, a patto di avere gli accessori giusti, altrimenti… Viene in mente il finale del secondo film dedicato alla Famiglia Addams e diretto da Barry Sonnenfeld nel 1993: Debbie, la cattiva della situazione interpretata da Joan Cusack, riconduce la sua natura diabolica alla Barbie sbagliata: per i suoi dieci anni desiderava ricevere Barbie Prima Ballerina, le fu regalata Barbie Malibù, recandole un'offesa senza rimedio. C'è poi da considerare una variabile importante: la bambola che non invecchia mai, ha un suo tempo di vita splendida e senza intoppi. L'obsolescenza programmata di Barbie è legata al suo uso. Più è amata e utilizzata, meno resta bella come all'acquisto e guai a tentare di lavarle i capelli. Intanto, sul mercato, c'è un nuovissimo oggetto del desiderio, con nuove funzioni, possibilità, abiti e set immaginifico. Il primo, vero film su Barbie l'abbiamo girato in proprio nelle nostre testoline: aveva come ambientazione il negozio di giocattoli, la trama è che ci compravano tutto ciò che volevamo.

La Barbie e la bambina

Scrive Nicoletta Bazzano in La donna perfetta

Le mamme di estrazione sociale medio-alta sono generalmente più istruite e si rivelano più sensibili ai messaggi femministi (…), nelle fasce sociali più basse, desiderose di ascesa, un simbolo di consumistica opulenza è più che benvenuto. Barbie viene così destinata alle bambine di famiglie di provenienza sociale media e medio-bassa (…) Vero è che un intero esercito di mamme, nonne, zie, cugine e vicine di casa si apprestano con forbici, ago, filo e ritagli di stoffa per dotare le bambole di un guardaroba autarchico, ma gli slogan pubblicitari parlano chiaro: la tua Barbie vuole solo abiti Barbie, perché gli abiti Barbie sono gli unici su misura per lei. 

Io sono stata bambina di provincia in un tempo in cui non destava scandalo il fatto che una novenne, avendo finito la quarta elementare ed essendo ancora lontana dalla decina di giorni al mare con genitori finalmente in ferie, si cercasse un suo daffare. Il mio fu recarmi al negozio di giocattoli sotto casa e proporre alla proprietaria uno scambio: io avrei spolverato, lei mi avrebbe concesso, a fine estate, una Barbie tra quelle esposte sugli scaffali. Affare fatto. Di questo primo lavoretto non ricordo altro. Eppure, a guardarlo da qui mi pare evidente: più che presentare alla mia fanciullezza un universo di possibilità, la bambola Mattel mi ha insegnato che tutto ha un costo e le cose più belle costano caro. Bisogna scegliere ciò che si vuole, chiederlo e lavorare per guadagnarselo, intanto meglio tenere conto dell'economia familiare e imparare ad accontentarsi. Sono sicuramente nozioni che valgono ben oltre l'infanzia, ma pur volendo impegnarsi non rientrano nella casistica dei valori del femminismo. Quando una bambina arrangia i vestiti della sua Barbie con gli scampoli di stoffa di una sarta, quando le fa le scarpe con il nastro adesivo colorato, sta esercitando la fantasia e l'ingegno, d'accordo, ma al primo confronto con gli altri, con la realtà e con la pubblicità, imparerà che, qualsiasi cosa faccia, non sarà mai abbastanza perfetta.

Attenzione spoiler per il prossimo capoverso: la perfezione, il suo mantenimento, è anche ciò che dà il via alla narrazione nel film di Gerwig. Al centro della storia c'è una Barbie Stereotipo – il tipo di Barbie a cui pensi quando pensi a una Barbie – impersonata da Margot Robbie, che vive ogni giorno come il migliore di tutti a Barbieland, piccolo mondo rosa acceso in cui le regole della gravità vengono dopo quelle del gioco. Ad esempio, per uscire dalla sua casetta senza facciata, Barbie può usare la porta, l'ascensore o lo scivolo, ma può anche volare come tra le mani di un'invisibile e gigantesca bambina. In posizione decisionale se non dominante, la piccola che gioca con la sua bambola è una sorta di divinità greca: può trattarla bene, ma può anche improvvisamente stancarsi di lei e diventare addirittura crudele. È a quel punto che per Barbie Stereotipo cominciano i problemi, di natura fisica ed emotiva, preannunciati da improvvisi pensieri di morte. È stato molto interessante notare la reazione delle bimbe più piccole, imprudentemente presenti in sala (negli Stati Uniti la visione è sconsigliata al di sotto dei 13 anni), mentre Barbie sperimenta una crisi esistenziale con ansia, caduta al suolo, cellulite e il piede senza arco, il piede dolorosamente piatto a terra.

Fortunatamente la Barbie Stramba, in perenne posizione di spaccata, con capelli cortissimi e segni di pennarelli sulla faccia, sa di cosa si tratta e pone, almeno formalmente, Barbie Stereotipo davanti a una scelta come accade a Neo in Matrix: pillola blu-décolleté rosa con tacco a spillo o pillola rossa-ciabatta tipo Birkenstock. Se vuole tornare a essere quella di sempre, quella perfetta, Barbie deve andare nel mondo reale alla ricerca della bambina che sta giocando con lei, nel tentativo di capire cosa le succede e sistemare le cose. Da questo punto in poi, il film lascia i toni estremamente divertenti – li riprenderà più avanti, ma in maniera discontinua – per accarezzare temi da terapia psicologica. Siamo tra il trovare la bambina interiore e costruire con lei un dialogo, l'archetipo del puer di Jung, la teoria degli stati dell'Io di Berne (di cui tenere presente anche per il classico A che gioco giochiamo) e quella storia che vuole Franz Kafka all'incontro casuale con una bambina sconsolata e piangente per aver perduto la sua bambola preferita. Secondo il racconto, l'autore de Il Processo non risolve la questione acquistando un nuovo giocattolo per la piccola sconosciuta; piuttosto, inventa per lei una favola, narrata da presunte lettera della bambola: non è stata perduta, è semplicemente partita per un lungo viaggio. Sta crescendo, esattamente come la sua proprietaria. Nel film di Barbie, le cose procedono al contrario: è la bambola ad aver smarrito il contatto con la bambina che, sorpresa, ha in realtà superato da un bel po' la fase infantile e, nell'aspetto fisico, è l'esatto contrario di Margot Robbie: America Ferrera, attrice nota soprattutto per il ruolo da protagonista nella serie Ugly Betty.

Il problema Ken

Il film che è un prodotto di intrattenimento eccellente, offre moltissimi spunti di discussione e riflessione e propone un'idea: quando e se le donne si parlano, si capiscono e si uniscono, possono superare ogni differenza e risolvere ogni problema. Con una sola frase, eccole capaci di sciogliere l'incantesimo di un lavaggio del cervello perpetrato nei secoli dal genere maschile. Questo perché Barbie produce una dissonanza cognitiva nel patriarcato: se da un lato la si reputa divulgatrice di standard irrealistici, consumistici e sessualizzanti, dall'altro nel suo mondo non esistono organi sessuali e Ken è solo un accessorio tra gli altri. Diventerà, d'un tratto, il vero nemico. Ma andiamo con ordine. Quello che la pellicola non dice è che, molto spesso, quando le bambine tagliano i capelli alla loro Barbie non è per maltrattarla, ma per diversificarla da una nuova bambola, appena ricevuta, e farne un Ken inconsapevolmente transgender da accompagnarle. È capitato a me – mio padre elaborò anche una sorta di armatura in cartoncino pressato per nascondere il seno –, è capitato ad altre mie amiche e lo racconta anche Enrica Tesio nel suo La verità, vi spiego, sull'amore

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Nel film, invece, Ken si presenta come non colonizzato dall'immaginazione e dai giochi delle bambine, dunque non autonomo rispetto a Barbie, ma esistente solo in sua funzione. Interpretato da Ryan Gosling soffre ed è frustrato dal non riuscire mai a stupire Barbie o a farsi preferire alle sue amiche. Come canterà a un certo punto, “Io sono solo Ken, dove io vedo amore lei vede un amico”. Per lui la traversata nel mondo reale si rivelerà fondamentale e risolutiva poiché scopre una società in cui gli è riconosciuto un ruolo predominante e una posizione di maggioranza. Ken può cioè decidere e ciò che decide di fare è dismettere la maschera del “bravo ragazzo” per svelare i suo intenti, ovvero buttare giù Barbie e fare di lei la sua ragazza “senza impegno a distanza e a lungo termine”. C'è un solo punto debole: Ken – tutti i Ken – non resistono a una fanciulla confusa e in pericolo. È la Nice guy syndrome, un pattern di comportamenti prosociali, mirati ad ottenere approvazione, successo e convalida attraverso la gentilezza, la presenza, l'aiuto e modi estremamente accomodanti. In alcuni casi si tratta di un atteggiamento assunto in maniera involontaria e portato avanti a proprie spese; in altri ha un chiaro intento manipolatorio di situazioni e persone che vengono utilizzate a proprio vantaggio. Oltre a Barbie, abbiamo visto questa sindrome in altre opere molto recenti e molto celebrate come Una donna promettente, scritto e diretto da Emerald Fennell che nella pellicola di Gerwig impersona Midge, la bambola incinta.

In conclusione, il film di Barbie che nel finale lancia il vero, fortissimo messaggio volto alla coscienza di sé stesse e del proprio corpo, non è un manifesto femminista, ma può servire come introduzione al tema. Non fomenta l'avversione per il sesso maschile, tuttavia ne sottolinea la difficoltà ad accettare fragilità e la necessità di misurare il proprio valore in termini di controllo delle proprie emozioni e relazioni. È una chiara operazione commerciale che, raccontando una storia in maniera abilissima, ricolloca nello scenario concettuale e merceologico un prodotto. Mentre esprimiamo la nostra opinione sul film e magari litighiamo sui social, Barbie vede un rebranding proattivo ironizzando su tipologie di bambole depresse e ordinarie: “una pessima idea che ci farà fare i soldi”. E forse, domani, in un negozio, davanti a uno scaffale di bambole nuovissime, subiremo il fascino di quella Barbie mai avuta acquistandone una per figlie, nipoti e altre piccole.

Immagine in anteprima: frame video Barnie | Main Trailer via YouTube

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