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Baobab Experience: storie di ordinaria umanità

14 Dicembre 2016 13 min lettura

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Baobab Experience: storie di ordinaria umanità

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di Angelo Romano e Andrea Zitelli

È una giornata di maggio 2015. Una macchina gira per Roma carica di vestiti. Alla guida, Erika Santalucia cerca le centinaia di persone, tra cui molti migranti “transitanti” (coloro che si fermano in Italia per un breve periodo e poi proseguono verso il Nord Europa), sgomberate dall’accampamento abusivo di Ponte Mammolo, senza preavviso e un piano alternativo. È uscita di casa dopo aver letto un post su Facebook: “C’è un sacco di gente ora alla stazione Tiburtina in terra, stanno senza scarpe senza vestiti, se avete qualcosa a casa, portatelo”.
«Ho riempito la mia macchina di tutte queste robe, sono arrivata lì e non c’era nessuno perché erano stati sgomberati dalla stazione Tiburtina proprio nel momento preciso in cui ero arrivata io», ricorda oggi Erika.

Un vigile le aveva spiegato che gli uomini, le donne e le famiglie che stava cercando erano stati dispersi, mentre altri erano stati mandati in via Cupa 5, dove si trovava il centro culturale multietnico Baobab, vicino alla stazione di bus e treni Tiburtina. Decide così di andarci e una volta arrivata, con tutti gli abiti in mano, Erika si trova di fronte a tantissime persone, chi in terra, chi in fila «e un ragazzetto mi fa: “Ma lei signora c’ha da fare? Qua siamo in pochi, abbiamo bisogno di chi ci dà una mano”. Mi sono infilata in cucina perché la situazione era tragica. Questo centro era rodato per massimo 150 persone, non per le 800-900 che stavano lì. All’inizio non avevamo capito come organizzarci, poi dopo siamo riusciti a capire come gestire le esigenze di tante persone».

È così che parte la storia del Baobab Experience a Roma. Un racconto che a percorrerlo dall’inizio, tra le prime difficoltà organizzative, l’attivismo dei volontari – un gruppo cresciuto di giorno in giorno – e la solidarietà quotidiana dei cittadini, mostra un tentativo di accoglienza nata e cresciuta dal basso. Un progetto che vuole rispondere a un mancato (e adeguato) intervento politico da parte delle autorità nella gestione di una situazione definita da un’ex assessore alle politiche sociali del Comune di Roma “un problema” della città, quello dei migranti “transitanti” che stazionano per un periodo di tempo limitato nella Capitale.

Così nel giugno del 2015, cioè nei primi giorni dell’esperienza del Baobab, Annalisa Camilli su Internazionale spiegava chi erano queste persone e il motivo della loro presenza massiccia e costante a Roma:

Dopo lo sgombero del borghetto di Ponte Mammolo a Roma, l’11 maggio, e la chiusura delle frontiere da parte della Germania e dell’Austria per il G7, la città ha scoperto all’improvviso che centinaia di persone in transito dal sud dell’Italia verso il Nord Europa fanno tappa nella capitale. Ogni giorno arrivano a Roma tra le cento e le trecento persone, secondo Flavio Ronzi della Croce rossa italiana. Si fermano qualche giorno per organizzare l’ultima fase del viaggio e poi ripartono.

La politica li ha scoperti da poco e li chiama “transitanti”, come se fossero una categoria speciale di migranti, ma per la legge non esistono. I cosiddetti transitanti rappresentano la maggior parte dei migranti che arrivano in Italia, sfuggono dal sistema di assistenza ufficiale dei Cara e si affidano a una rete informale costituita da parenti, amici, conoscenze o associazioni umanitarie. Il loro obiettivo è sfuggire all’identificazione e alla fotosegnalazione, in modo da poter continuare il viaggio (ndr secondo infatti il trattato di Dublino, i migranti devono fare domanda di asilo politico e quindi essere identificati nel primo paese in cui arrivano).

Diversi sono stati i piani annunciati dalle istituzioni e poi rimandati, come le promesse non mantenute dell’ex prefetto e commissario straordinario di Roma, Francesco Paolo Tronca di destinare specifiche strutture all’alloggio temporaneo di queste persone.
Intanto, da maggio 2015 a giugno 2016, secondo le stime dei volontari del Baobab, sono stati circa 35mila i migranti passati per Roma. Uomini, donne e bambini di cui si è fatta carico una rete collettiva formata da volontari del centro e diverse realtà associative (come MEDU – Medici per i diritti umani –, A Buon Diretto, CIR – Consiglio Italiano per i Rifugiati, Action e i Radicali). Un flusso di aiuti che non si è arrestato neanche dopo la chiusura, il 6 dicembre 2015, del centro di via Cupa “per restituire i locali alla proprietà”, scrivevano Viola Giannoli e Luca Monaco su Repubblica Roma.

Migranti del Baobab accampati all'esterno della Basilica di San Lorenzo al Verano, Roma. Foto di Andrea Sabbadini, via andreasabbadini.photoshelter.com
Migranti del Baobab accampati all'esterno della Basilica di San Lorenzo al Verano, Roma. Foto di Andrea Sabbadini, via andreasabbadini.photoshelter.com

Il Baobab, infatti, non è un luogo, ma un metodo di accoglienza. Lo scrittore Nicola Lagioia nel cercare di trovarne una definizione, scrive:

Non è semplicemente un centro di accoglienza per migranti, non è un centro sociale, non è (perlomeno non ancora) un progetto in cui la cittadinanza attiva incontra le istituzioni per offrire una soluzione anche parziale a un’emergenza drammatica. Il Baobab è piuttosto un corridoio umanitario per migranti in transito, che una rete di privati cittadini ha prima messo a punto e subito dopo si è caricato sulle spalle.

Con la chiusura, “il luogo” in cui i volontari “lavorano” a questo “corridoio umanitario” è cambiato nel tempo. Il progetto di accoglienza collettivo è stato infatti portato avanti dalla rete del Baobab, anche dopo gli sgomberi degli accampamenti di fortuna, continuati sotto la nuova amministrazione a Cinque Stelle della sindaca Virginia Raggi.

Oggi il presidio dei volontari si trova nel piazzale est della stazione Tiburtina, dove per diverse settimane decine di migranti hanno dormito per strada, sotto la pioggia e al freddo della notte, non essendo stata disponibile fino alla fine di novembre alcuna struttura in cui dar loro riparo.
Il 2 dicembre scorso, dopo un incontro tra la delegazione del Baobab e il nuovo assessore alle politiche sociali del Comune, Laura Baldassare, sono stati messi a disposizione dei migranti “transitanti” circa 100 posti letto nel centro di via del Frantoio, gestito dalla Croce Rossa e sostenuto da Roma Capitale. Riferendosi a questa novità, i volontari hanno parlato di un “piccolo passo”, specificando però che si tratta di una “soluzione emergenziale maturata solo dopo mesi di appelli e sollecitazioni”. Anche perché, hanno poi aggiunto, il flusso migratorio nella Capitale non si ferma, visto che, ad esempio, tra il 3 e il 4 dicembre altre 35 persone sono arrivate in piazzale Spadolini. Per questo motivo, i volontari hanno invitato le autorità a intervenire in modo meno temporaneo e più strutturale.

Al di là dei fatti di cronaca, abbiamo pensato valesse la pena guardare da vicino e raccontare cos’è Baobab Experience. Come si organizza quotidianamente? A quali problematiche risponde? Che idea di accoglienza trasmette? Rappresenta un modello replicabile altrove? Per cercare di capirlo, abbiamo parlato con alcuni dei tanti volontari che rendono possibile questa esperienza.

“Dalla vecchietta dei Parioli al ragazzino con velleità anarchiche”

Oggi, racconta Alessandra Soro, 25enne lucana da sei anni a Roma, il nucleo di chi fa volontariato al Baobab è composto da una quarantina di persone, dall’età ed estrazione sociale molto eterogenee, che quasi quotidianamente decidono di dedicare del tempo per preparare da mangiare, portare cibo e vestiti, seguire la giornata e dare ristoro e assistenza ai tanti migranti che arrivano a Roma e sono fuori dai circuiti dei centri di accoglienza.

A loro poi si aggiunge, spiega Myriam, volontaria molto assidua come si autodefinisce e assistente di lingua francese nelle scuole superiori romane, «una rete di persone che aiutano anche da lontano e ci porta a essere un gruppo di 100, 150 persone». Si va, così, «dalla vecchietta dei Parioli che porta gli spazzolini al ragazzo del Liceo con velleità anarchiche, dai quindicenni che si avvicinano con curiosità alle settantenni che preparano cibo per 200 persone. Ognuno portando con sé l’esperienza dei lavori che fa nella vita di tutti i giorni».

L’organizzazione del lavoro è mutata con il cambiare del numero e delle necessità dei migranti e, di sgombero in sgombero, dei luoghi dove essi potevano stare. All’inizio, la principale esigenza era garantire cibo e vestiti e saper gestire anche con inventiva le risorse a disposizione.

«Ci siamo organizzati giorno dopo giorno, facendoci venire delle idee con le cose che di volta in volta le persone portavano», dice Erika. «Non è come un ristorante che compri e ordini. Allora magari un giorno pensi di fare la pasta col pomodoro perché quello hai a disposizione, poi all’improvviso ti arriva uno che ti dice: “Ho sedici polli, facciamoci qualcosa”. Ma con 16 polli non ci mangia nessuno, però se fai un ragù al pollo ci mangiano tutti».

Volontari al Baobab, via pagina facebook Baobab Experience
Volontari al Baobab, via pagina facebook Baobab Experience

Per affrontare le situazioni e gli imprevisti man mano che si presentano, i volontari cercano di volta in volta di adattarsi alle necessità particolari del momento. «Ci siamo organizzati col bisogno», racconta ancora Erika. «Col tempo abbiamo acquisito una competenza informale. A occhio riusciamo a capire cosa serve e per quante persone. Ci sono dei momenti in cui fai da jolly, perché magari quello che ti dava una mano in cucina poi parte per l’Australia e quindi… c’è bisogno di ricambio di persone che possono ricoprire più ruoli». Come Giuditta, ad esempio, avvocato, da cinque anni nell’ambito dell’immigrazione, che, appena arrivata, oltre a fornire la propria consulenza legale, ha fatto un po’ di tutto: curare piccole ferite e preparare i piatti di pasta.

«Nell’organizzazione della gestione siamo molto fluidi» spiega Roberto Viviani, presidente dell’associazione Baobab Experience, «pensiamo che ogni persona riesca a mettere mano nei diversi aspetti, visto che siamo costretti a un attivismo quotidiano e a sostituirci l’un l’altro».
I volontari si organizzano in turni di circa quattro ore l’uno, anche se aggiunge Myriam, «è tutto molto libero. Non c’è una struttura vera e propria. Stiamo qui [ndr, a piazzale Spadolini] dalle 8 del mattino, per la colazione, fino alla sera dopo cena».

La diversità di esperienze e competenze dei volontari e la flessibilità dell’organizzazione interna sono l’arma in più del Baobab. Non c’è una struttura gerarchica né un’architettura organizzativa che ingabbia. Tutto questo, responsabilizza sempre di più chi decide di mobilitarsi. «Mantenere questa composizione informale fa sì che ognuno tiri fuori il meglio di sé», spiega Viviani.

“La nostra idea di accoglienza va oltre l’assistenzialismo”

Per poter fronteggiare ogni evenienza, i volontari si sono dati un’organizzazione meticolosa, dividendosi per aree di intervento. Una distinzione che serve per poter capire subito a chi rivolgersi per trovare una soluzione in breve tempo.
Ogni area ha un responsabile, vale a dire colui che, per la sezione di cui si occupa, lancia gli appelli tramite Facebook, tiene d’occhio l’organizzazione e lo stato delle risorse a disposizione e cerca di capire se ci sono delle emergenze. Ognuno sceglie di far parte della sezione verso la quale sente di poter dare qualcosa.
Si va dal gruppo che si occupa della preparazione e della distribuzione dei pasti a quello per i vestiti, dal gruppo legale a quello sanitario, fino ad arrivare alle aree della comunicazione, dei minori e delle docce. «Noi tutte le domeniche – spiega Alessandra Soro – li portiamo a fare la doccia alla palestra popolare a San Lorenzo e lì ad esempio i gruppi vestiti e docce si coordinano perché servono i vestiti per il post doccia».

Migranti e volontari durante una visita guidata a Roma, via pagina facebook Baobab Experience
Migranti e volontari durante una visita guidata a Roma, via pagina facebook Baobab Experience

Da qualche mese c’è anche il gruppo che organizza le guide turistiche per la città. Questo perché, aggiunge Viviani, «la nostra idea di accoglienza va oltre l’assistenzialismo, l’attività quotidiana relativa al cibo e all’assistenza sanitaria, che sono bisogni primari». «Siamo riusciti a organizzare visite guidate al centro di Roma, con gli storici dell’arte che spiegano ai migranti l’arte dell’impero Romano e le rovine dei Fori imperiali, facendogli capire che non c’è solo la stazione Tiburtina a Roma. Oppure abbiamo organizzato tornei di calcetto, laboratori di disegno e di lingue. Per noi la parte culturale è importantissima, oltre a dare accoglienza».

Torneo di calcetto, via pagina facebook Baobab Experience
Torneo di calcetto, via pagina facebook Baobab Experience

Questo, spiega Alessandra Soro, «fa parte del ragionamento del trattare le persone da persone. Hanno non solo la loro dignità ma anche il diritto, ad esempio, di scegliersi i vestiti. Cosa che gli garantiamo, a meno che non siamo proprio in emergenza totale».

“Se si bloccasse Facebook per un giorno, penso che il Baobab si spegnerebbe”

«Io vedo che tante associazioni fanno una riunione al mese, programmando l’attività per un lungo periodo di tempo. Le caratteristiche che ci differenziano da queste realtà è che noi abbiamo una quotidianità da affrontare. Per questo sui nostri canali, che sono Whatsapp e Facebook, c’è un confronto quotidiano, quasi ogni minuto», dice il presidente dell’associazione Baobab Experience.

Il ricorso a Whatsapp è diventato ancora più importante dopo lo sgombero da via Cupa, soprattutto per l’organizzazione della cucina, ormai a carico dei singoli volontari che preparano nelle proprie abitazioni il cibo per tutti coloro che ne hanno bisogno. È necessario coordinare chi gestisce i pasti (alcuni dei quali vivono fuori Roma) con chi cucina e chi deve portare i piatti sul posto.

I social vengono utilizzati per lanciare appelli e fare richieste di quello che serve. «Se si bloccasse Facebook per un giorno penso che il Baobab si spegnerebbe», afferma Alessandra Soro. «Una volta, mi stavo occupando delle docce e c’era un commerciante che veniva da Avellino che aveva portato una quintalata di jeans, tipo 200, perché aveva letto su Facebook che li stavamo cercando».

L’utilizzo dei social network è cambiato col passare del tempo. Il primo periodo, come spiega Viviani, che tra le sue mansioni si occupa insieme ad altri del team social e comunicazione, sono stati fondamentali per coinvolgere la cittadinanza nell’esperienza del Baobab. Ora, sono diventati anche uno strumento di narrazione per raccontare quello che succede al presidio, fino ad arrivare alle denunce pubbliche sugli sgomberi, sui silenzi e le mancate risposte delle istituzioni.

“Non è un mondo di marzapane”

L’evoluzione nell’utilizzo dei social network rispecchia anche quella del gruppo, che dopo essersi conosciuto al suo interno, ha maturato una maggiore consapevolezza del proprio ruolo e la percezione di un abbandono da parte delle Istituzioni.

«Stando insieme, a contatto tutti i giorni, abbiamo imparato a conoscerci, abbiamo smussato gli angoli dei nostri caratteri e ci siamo resi conto di far parte di una causa comune», dice Viviani. «Esserci trovati da soli, esserci resi conto che le istituzioni non avevano alcuna intenzione di prendersi carico del problema dei migranti, ci ha aiutato a sentirci uniti. Gli sgomberi sono stati un passaggio fondamentale da questo punto di vista».

«Certo – prosegue il presidente dell'associazione – le difficoltà incontrate sono tante, è inutile dipingere un mondo di marzapane» sia a livello di gruppo dei volontari, sia nelle situazioni legali che devono affrontare i migranti e a volte nel rapporto di convivenza tra i migranti.

Viviani racconta la storia di Kalid, che dopo aver dormito davanti all’ufficio immigrazione per presentare una richiesta di asilo, si è visto negata la possibilità di fare domanda «perché ne prendevano solo 10, di diverse nazionalità e vederlo che va avanti per una settimana aiuta davvero a non mollare di un centimetro».

A questo si aggiunge il cambiamento delle procedure europee, con le nuove norme sul ricollocamento, sulla cui attuazione ci sono ancora molte incertezze, ci spiega Giuditta, una delle volontarie che fa consulenza legale ai migranti. Si tratta di «un procedimento lentissimo perché i migranti devono aspettare che si apra la loro posizione in un altro paese. Fino a quando questo non succede, restano in bilico». Le ultime cifre, spiega infatti Beda Romano sul il Sole 24 Ore, parlano di oltre 8.000 persone ricollocate dall’Italia e dalla Grecia, su un totale previsto di 160mila nel biennio 2015-2017.

E così, se prima al Baobab si fermavano transitanti (che in gran parte non avevano lasciato le impronte) pochi giorni prima di andare all’estero (principalmente in Francia, Germania, Finlandia o Olanda), adesso ci sono migranti che non riescono ad accedere alla procedura di asilo o che aspettano il ricollocamento e, quindi, restano per più tempo. «Insomma, prosegue Giuditta, diventa un grande calderone».

Questa situazione fa sì che si possano creare momenti di tensione tra gli stessi migranti. Viviani ricorda una sola rissa, avvenuta a via Cupa, in cui sono dovute intervenire le forze dell’ordine. Anche in quel caso, specifica il presidente del Baobab Experience, «l’informalità del campo, il fatto che i migranti sappiano che noi siamo volontari e non operatori e che quindi siamo alla pari, ha contribuito ad abbassare la tensione e far pesare meno la frustrazione dell’essere migranti».

Un'esperienza replicabile altrove?

Per la sua natura assembleare e per la flessibilità della sua organizzazione, che permette di rispondere quasi immediatamente alle emergenze che si presentano, Baobab costituisce probabilmente un caso unico nel suo genere.

«Riguardo la struttura – spiega Viviani – bisogna distinguere: noi siamo anche associazione, di cui io sono il presidente, costituita per questioni fondamentalmente di praticità, e in Italia cose del genere esistono. Però, contemporaneamente, non abbiamo mai voluto tradire la nostra natura di collettivo, nato in maniera spontanea, nato dal basso, evitando di mettere troppo burocrazia, troppo verticismi. E questo penso sia una novità».

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Alessandra Soro è convinta che l’esperienza del Baobab sia replicabile anche in altre città, «perché si tratta di un gruppo di persone che si sono trovate e si danno una mano e che si occupano dei migranti sia dal punto di vista sanitario con MEDU, sia da quello legale, senza mai chiedere i soldi al Comune». «Negli scorsi giorni – racconta Roberto Viviani – siamo stati chiamati a Como e Ventimiglia, altri luoghi critici per il passaggio dei migranti, perché ci hanno detto che per loro il Baobab era stato un modello di cui replicare per quanto possibile le dinamiche». «Ovviamente – continua – sappiamo bene che dipende da tante cose e per questo non ci consideriamo assolutamente dei maestri».

Intanto a Roma, il gruppo del Baobab Experience ha chiesto uno spazio per continuare a fare quello che già fanno. «Non sappiamo fino a quando resteremo qua», dice Erika Santalucia. «Tronca l’anno scorso giurava che nel giro di poco avrebbe sistemato tutto, poi cambiano le amministrazioni, ma non cambia mai niente».
Una disillusione che però non fa rassegnare i volontari: «Noi siamo abituati, credono di sfiancarci in qualche modo. Ma ogni volta che ci sgomberano, ad esempio, c’è sempre più gente a darci una mano, a sostenerci», afferma Alessandra Soro.

Foto anteprima via Centro Italiani per i Rifugiati.

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