“Pay Your Workers”: la campagna mondiale che chiede ad Adidas di rispettare i diritti dei suoi lavoratori
9 min letturaMentre nel mondo i riflettori sono tutti puntati sulla fine della collaborazione tra Ye (già Kanye West) e Adidas, costata all’azienda 250 milioni di euro, a causa di alcune frasi antisemite pronunciate dal musicista e stilista statunitense, 260 tra sindacati e organizzazioni per i diritti umani e dei lavoratori hanno aderito alla campagna di mobilitazione globale lanciata da Pay Your Workers, per chiedere ad Adidas di rispettare i diritti dei lavoratori nella sua catena di fornitura.
Milioni di dollari sulla pelle dei lavoratori
La maggior parte della produzione di Adidas avviene infatti in paesi come Cambogia, Myanmar e Indonesia, dove i sistemi di protezione sociale sono inadeguati, se non inesistenti. Così, quando l’avvento della pandemia ha costretto molte fabbriche a chiudere i battenti, i lavoratori sono rimasti a casa senza stipendio. Una ricerca della Ong svizzera Pubic Eye sulle fabbriche cambogiane che producono materiali per diverse multinazionali dell’abbigliamento ha dimostrato che Adidas non ha ancora pagato oltre 30mila lavoratori di 8 fabbriche fornitrici, a cui spettano 11,7 milioni di dollari fra salari e rimborsi per i primi quattordici mesi della pandemia, circa 387 dollari per lavoratore.
Adidas ha riferito al Sourcing Journal di respingere tutte le accuse. "Durante la pandemia, Adidas si è impegnata a rispettare pratiche di lavoro giuste, garantire salari equi e condizioni di lavoro sicure in tutta la sua catena di approvvigionamento globale", ha affermato un portavoce. “Abbiamo continuato a rifornirci dai nostri partner e ci siamo impegnati a pagare tutti gli ordini e a controllare che fossero stati completati o in corso di elaborazione. Abbiamo continuato a garantire la conformità legale in termini di retribuzione e benefici per tutti i lavoratori e abbiamo monitorato le condizioni di lavoro in ogni singola fabbrica".
La questione non riguarda però solo i lavoratori attuali, ma anche quelli che non producono più vestiti per la multinazionale tedesca e che aspettano ancora di essere pagati. Come le operaie della fabbrica di Hulu Garment, situata a Phnom Penh, in Cambogia, licenziate all’inizio della pandemia, ma che devono ancora ricevere 3,6 milioni di dollari. La fabbrica tessile fornisce non solo Adidas, ma anche Amazon, Walmart, Macy’s e LT Apparel Group, e nel marzo 2020 ha sospeso l’intera forza lavoro, costituita da 1.020 lavoratori. Con l'avvicinarsi della fine del periodo di sospensione, il 22 aprile la direzione ha chiamato i lavoratori e ha detto loro che, a causa della pandemia di Covid-19, la fabbrica non aveva ordini e avrebbe potuto essere costretta a licenziare i lavoratori. La direzione ha inoltre chiesto ai lavoratori di “firmare” un documento con l'impronta digitale per ricevere la paga, spiegando che altrimenti non avrebbero potuto trasferirgli il loro ultimo stipendio. Quel giorno tutti i lavoratori di Hulu Garment hanno firmato il documento, senza accorgersi che, nascosta tra le righe, c'era una frase che dichiarava che si stavano dimettendo. La direzione aveva coperto la parola “dimissioni”, che compariva in cima a ogni lettera, apponendo l'ultima busta paga del lavoratore a coprirla.
Il giorno dopo, quando è diventato chiaro ai lavoratori che il loro datore di lavoro li aveva ingannati facendoli firmare lettere di dimissioni per evitare di pagare 3,6 milioni di dollari di fine rapporto, centinaia di loro hanno protestato per chiedere la reintegrazione. Il mese successivo la fabbrica ha riaperto, ma almeno 500 operai non sono stati riassunti. Un anno dopo, questi lavoratori continuano a chiedere il pagamento del trattamento di fine rapporto che gli spetterebbe per legge.
Non finisce qui: nel maggio 2022, 5.600 lavoratori di un altro fornitore Adidas in Cambogia hanno scioperato per i salari non pagati. Secondo Pay Your Workers la fabbrica avrebbe risposto facendo arrestare i leader sindacali e obbligandoli a firmare accordi con "le autorità locali tramite l'impronta digitale, affermando che non avrebbero svolto ulteriori attività che avrebbero causato" disordini "in fabbrica".
Il mancato pagamento dei salari e delle indennità di licenziamento si estende però ben oltre la sola Cambogia e prosegue lungo tutta la catena di fornitura globale di Adidas. Questa, infatti, non è la prima volta che l’azienda si trova a fare i conti con il mancato pagamento della sua manodopera. Già nel 2013, Adidas è stata costretta a pagare i lavoratori del PT Kizone in Indonesia che avevano lottato per due anni per ricevere il trattamento di fine rapporto, pari a 1,8 milioni di dollari, che era loro dovuto dopo aver perso il lavoro.
Mentre i lavoratori tessili attendono di ricevere i soldi che gli spettano, nel 2021 il colosso tedesco dell'abbigliamento sportivo ha toccato i 21,2 miliardi di euro di fatturato, segnando un aumento del 15% rispetto al 2020. Nonostante le difficoltà e il contesto avverso in Cina e in Asia-Pacifico, per via delle chiusure prolungate legate alla pandemia di Covid-19 e le interruzioni della catena di approvvigionamento a livello industriale, la crescita dei ricavi della multinazionale non si è arrestata, superando gli 1,5 miliardi di euro di utile netto nel corso del 2021 (+223% rispetto all’anno precedente).
Adidas non è però l’unico grande brand ad aver licenziato i lavoratori tessili durante la pandemia e a non aver corrisposto loro i soldi che gli spettavano. La pandemia di Covid-19 ha avuto conseguenze disastrose sui lavoratori dell'industria globale dell'abbigliamento. A causa dell'improvviso calo della domanda, i marchi hanno annullato gli ordini senza pagare. Molte fabbriche sono state costrette a chiudere e i lavoratori sono stati licenziati in massa, spesso senza preavviso o risarcimento. Una ricerca del Worker Rights Consortium (WRC) ha identificato 31 fabbriche di abbigliamento, tra cui quella di Hulu Garment, in nove paesi, che hanno licenziato i propri lavoratori e poi non hanno pagato loro il trattamento di fine rapporto che legalmente gli spettava. In alcuni casi, i lavoratori hanno ricevuto solo un pagamento parziale; in altri, non hanno ricevuto nulla. In totale, queste 31 strutture hanno rubato 39,8 milioni di dollari a 37.637 lavoratori: una media di più di mille dollari a persona, che corrisponde a circa cinque mesi di stipendio standard per un lavoratore nel settore dell’'abbigliamento. Fra i marchi coinvolti in questi casi, oltre ad Adidas, compaiono Amazon, H&M, Inditex, Next, Nike, Target, e Walmart, tutte aziende che hanno realizzato profitti importanti anche durante la pandemia. Secondo una ricerca della non-profit Clean Clothes Campaign intitolata “Ancora non(sotto)pagati”, nei primi tredici mesi della pandemia di coronavirus, i lavoratori tessili hanno perso globalmente 11,85 miliardi di dollari di entrate. Per garantire a questi lavoratori un salario decente e un rafforzamento delle protezioni contro la disoccupazione per il futuro, ai grandi marchi, che hanno guadagnato miliardi di profitti in questi anni, basterebbe aumentare di soli dieci centesimi il costo di ciascuna maglietta scrivono su Thomson Reuters Foundation Christie Miedema e Liana Foxvog, rispettivamente coordinatrice della campagna e direttrice di risposta alle crisi per Clean Clothes, assieme a Scott Nova, direttrice esecutiva presso il Workers Rights Consortium.
La mobilitazione globale
Nella settimana dal 24 al 30 ottobre 2022 gli attivisti della campagna Pay Your Workers - Respect Labour Rights sono scesi in piazza per una mobilitazione globale, Italia compresa, per chiedere ad Adidas di rispettare i diritti dei lavoratori nella sua catena di approvvigionamento. A Bologna il collettivo femminista Cheap ha affisso per le strade dei manifesti in cui si chiede all'azienda di pagare la sua manodopera. Oltre a una campagna di mail bombing da inviare ai vertici dell’azienda, l’associazione italiana Campagna Abiti Puliti, durante la settimana di mobilitazione, ha organizzato eventi e flashmob di piazza di fronte ai punti vendita di Adidas nelle città di Torino, Roma, Milano, Genova, Parma, Fidenza e Firenze. Contemporaneamente si sono svolte manifestazioni in almeno altre 20 città nel mondo, tra cui Berlino, Los Angeles e Dacca.
Con questa campagna Pay Your Workers chiede ad Adidas firmare un un accordo vincolante su salari, licenziamento e libertà di organizzazione per garantire che i lavoratori nella sua catena di approvvigionamento non siano mai più costretti a rinunciare al loro intero salario e licenziamento. In particolare chiedono alla multinazionale di pagare ai lavoratori e alle lavoratrici tessili i salari loro spettanti dall’inizio della pandemia; di contribuire a un fondo di garanzia sui licenziamenti, al fine di assicurare che i lavoratori delle filiere tessili di fornitura non siano mai più lasciati senza soldi in caso di fallimento della fabbrica o di licenziamenti di massa; di tutelare il diritto dei lavoratori a organizzarsi in sindacati e a contrattare collettivamente. “Adidas - dice l’organizzazione - ha la responsabilità, tanto morale quanto legale in base agli standard internazionali, di garantire che non siano i lavoratori delle proprie catene di approvvigionamento a pagare il prezzo di questa pandemia. Non solo, Adidas ha anche la capacità e l'obbligo di intervenire”.
A maggio scorso Pay Your Workers è riuscita ad ottenere un grande risultato: dopo mesi di proteste dei lavoratori e di manifestazioni a livello globale, Victoria's Secret ha fornito 8,3 milioni di dollari di liquidazione ai lavoratori thailandesi che hanno cucito la loro lingerie. Per gli attivisti, si è trattato del più grande caso di furto di indennità di fine rapporto mai avvenuto in una singola fabbrica di abbigliamento. Circa 1.200 lavoratori erano stati licenziati in tronco, senza indennità di fine rapporto e salari loro dovuti, dopo il fallimento e la chiusura, a marzo 2021, della fabbrica della Brilliant Alliance Thai Global Co Ltd (BAT), nella provincia di Samut Prakan, in Thailandia, al servizio di marchi globali di lingerie, tra cui Victoria's Secret.
L'accordo, finanziato da un prestito del brand di intimo femminile al proprietario di BAT, potrebbe costituire un precedente importante per il rispetto, da parte dei grandi marchi, dei diritti dei lavoratori nelle loro catene di approvvigionamento.
Qualcosa si muove in Myanmar
Come ha riportato Myanmar Now, il 25 ottobre scorso 400 lavoratori della fabbrica di Myanmar Pou Chen, nel distretto di Shwepyitha a Yangon, hanno scioperato a causa delle insostenibili condizioni di lavoro e per richiedere un aumento della paga dagli attuali 4.800 kyat al giorno (2,30 dollari) a 8.000 kyat (3,8 dollari), la messa a disposizione del trasporto locale per i lavoratori, un bonus per le prestazioni straordinarie e maggiori garanzie. lo sciopero, sempre secondo quanto riporta Myanmar Now, avrebbe portato i dipendenti a ricevere 10.000 kyat in buoni regali, ovvero meno di 4,75 dollari a testa. Inoltre, a seguito delle proteste, 29 lavoratori sono stati licenziati. La fabbrica impiega in totale circa 7.800 dipendenti ed è uno dei tanti fornitori di Adidas presenti in Myanmar. I funzionari del Myanmar Pou Chen hanno poi informato le autorità militari locali della protesta, provocando l'arrivo di dieci soldati e agenti di polizia all’interno di quattro veicoli dell'esercito.
"Ci hanno avvertito di non continuare la protesta il giorno successivo", ha detto a Myanmar Now una donna che è stata successivamente licenziata. “Hanno minacciato di arrestarci se avessimo protestato fuori dall'area della fabbrica o se le attrezzature fossero state danneggiate durante la nostra protesta”. Nonostante le minacce, lo sciopero è proseguito il 26 e il 27 ottobre, con la partecipazione di oltre duemila dipendenti. Nei giorni successivi, i funzionari hanno licenziati altri 29 lavoratori, inclusi 16 membri del sindacato del Myanmar Pou Chen, accusati di aver guidato lo sciopero. Sono stati tutti accusati di assenza non autorizzata dal lavoro e violazione dei loro contratti di lavoro.
In un'e-mail inviata a Just Style, un portavoce di Adidas, ha commentato così in merito ai rapporti con Myanmar Pou Chen: "Adidas si è opposta con forza a questi licenziamenti, che violano i nostri standard sul posto di lavoro e il nostro impegno di lunga data a sostenere la libertà dei lavoratori di associarsi. Stiamo indagando sulla legittimità delle azioni del fornitore e abbiamo chiesto a Pou Chen di reintegrare immediatamente i lavoratori licenziati", ha aggiunto. A settembre 2022 anche Primark aveva dichiarato la sua volontà di mettere fine al suo approvvigionamento dal Myanmar, a seguito della pubblicazione di un rapporto dell'Ethical Trade Initiative (ETI) che ha rilevato la sistematica violazione dei diritti umani e dei lavoratori nel paese. “Alla luce di ciò, riteniamo che la nostra unica opzione sia iniziare a lavorare per un'uscita responsabile dal paese”, ha annunciato la multinazionale irlandese in una nota. Un mese fa anche il marchio d’abbigliamento britannico Marks & Spencer (M&S) ha dichiarato di star lavorando a un’uscita responsabile dal Myanmar sempre a causa della preoccupazione per le continue violazioni dei diritti umani, perpetratesi in seguito al colpo di stato militare del febbraio 2021.
Ad agosto, l'Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO) ha pubblicato un rapporto in cui affermava che l'acquisizione militare in Myanmar aveva messo a dura prova i sindacati e le organizzazioni della società civile (OSC) che forniscono servizi ai lavoratori e ai migranti. Il report evidenzia come la persecuzione mirata, inclusi arresti arbitrari, detenzioni, atti di violenza, incursioni nelle case e negli uffici, sequestro di attrezzature, telefonate minacciose, interrogatori e sorveglianza continua, abbiano sostanzialmente limitato la loro capacità di operare in questi anni. Non a caso, a seguito del colpo di Stato, ampiamente contestato dal movimento operaio, la giunta militare ha dichiarato illegali i sindacati e le organizzazioni per i diritti dei lavoratori. Il report, inoltre, mostra che solo negli ultimi due anni il Myanmar ha perso più di due milioni di posti di lavoro. “La qualità dei posti di lavoro è messa a dura prova. Le condizioni di lavoro sono precarie per molti dipendenti, con gravi violazioni dei diritti dei lavoratori", si legge nel documento. Per via della situazione così difficile e drammatica, l’ETI nel suo rapporto ha esortato i marchi di abbigliamento e i rivenditori che si riforniscono in Myanmar a rivalutare la loro presenza nel paese, poiché gli standard del codice di base dell'ETI - un insieme di linee guida sui diritti dei lavoratori che sono un punto di riferimento globale per una pratica aziendale responsabile - non possono essere soddisfatti, mentre per le imprese è difficilissimo condurre un’indagine di due diligence sui diritti umani dei lavoratori.
Immagine in anteprima: CHEAP via Facebook