Post

Il caso dell’imam Mohamed Shahin e la strumentalizzazione politica da parte del governo

19 Dicembre 2025 7 min lettura

Il caso dell’imam Mohamed Shahin e la strumentalizzazione politica da parte del governo

Iscriviti alla nostra Newsletter

7 min lettura

Lo scorso 15 dicembre 2025 la Corte d’Appello di Torino ha disposto la cessazione del trattenimento amministrativo dell’imam Mohamed Shahin nel Centro di permanenza per i rimpatri di Caltanissetta (CPR), ritenendo sulla base di una serie di argomentazioni che non vi fossero elementi idonei a sostenere una sua «concreta e attuale pericolosità».

La presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, con l’ennesimo affondo contro i magistrati, ha subito commentato in un post sui social che non si può «difendere la sicurezza degli italiani se ogni iniziativa che va in questo senso viene sistematicamente annullata da alcuni giudici». La liberazione di Shahin è stata così immediatamente sottratta al piano giuridico – piano su cui si collocano le garanzie che presidiano la libertà personale, in caso di trattenimento per il rimpatrio – e incardinata nella narrazione politica della riforma della magistratura, con un'evidente strumentalizzazione in funzione del “Sì” al referendum.

Questa torsione comunicativa vizia il processo deliberativo alla base del voto al referendum stesso. La vicenda dell’imam non ha niente a che vedere con la separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri o con la creazione di due CSM, né con la creazione di un’Alta Corte disciplinare che svolga le funzioni esercitate finora dal CSM. Proviamo a spiegare.

I fatti

Nel corso della manifestazione pro-Palestina tenutasi a Torino il 9 ottobre 2025, Mohamed Shahin, imam attivo a Torino da molti anni, aveva detto di essere «d’accordo con quello che è successo il 7 ottobre» - l’aggressione da parte di Hamas - aggiungendo che«non è una violazione, non è una violenza». La Digos di Torino aveva trasmesso le frasi alla Procura di Torino, ma il 16 ottobre il procedimento era stato immediatamente definito con l’archiviazione: quanto affermato dall’imam configurava una mera «espressione di pensiero che non integra gli estremi di reato», quindi lecita sulla base degli artt. 21 Cost. e 10 CEDU.

Ma il 24 novembre, in esecuzione di un decreto di espulsione firmato dal ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, Shahin era stato prelevato e portato nel CPR di Caltanissetta in attesa di rimpatrio in Egitto. L’imam era stato ritenuto dal Viminale una «minaccia concreta per la sicurezza», in quanto «avrebbe intrapreso un percorso di radicalizzazione religiosa connotato da una spiccata ideologia antisemita», con l’aggravante di essere «in contatto con soggetti noti per fondamentalismo». 

Il 27 novembre, nel corso dell’udienza di convalida del trattenimento nel CPR, Shahin aveva affermato di essere contrario a ogni forma di violenza, di non sostenere Hamas, e che se fosse tornato in Egitto sarebbe stato arrestato, torturato e ucciso. Il giorno successivo, il trattenimento era stato comunque convalidato dall’autorità giudiziaria. I legali di Shahin avevano presentato ricorso.

Il trattenimento nel CPR

Nonostante in un CPR le persone si trovino in stato di detenzione, non si tratta di un carcere, ma del luogo in cui l’amministrazione trattiene uno straniero quando il rimpatrio dall’Italia non sia immediatamente eseguibile, ad esempio per svolgere gli adempimenti necessari al rientro nel paese di provenienza, e si reputa necessario evitare il rischio di fuga.

Il caso Shahin si colloca in un perimetro ancora più specifico: il trattenimento di un richiedente protezione internazionale. L’imam aveva, infatti, formulato tale richiesta all’inizio del trattenimento.Il quadro normativo è fornito dalla direttiva 2013/33/UE (“direttiva accoglienza”), che afferma un principio fondamentale: tale trattenimento può avvenire solo in circostanze eccezionali, motivate e nel rispetto di necessità e proporzionalità, con la garanzia di un controllo giurisdizionale effettivo e di un riesame a intervalli ragionevoli. Il riesame, in particolare, può avvenire «qualora si verifichino circostanze o emergano nuove informazioni che possano mettere in discussione la legittimità del trattenimento». Se quest’ultimo si fonda su una certa rappresentazione di rischio connessa alla persona detenuta, e quella rappresentazione cambia, va nuovamente valutata la restrizione della libertà della persona stessa.

La decisione

L’ordinanza della Corte d’Appello di Torino si colloca in questo sistema di garanzie. La Corte ha affrontato il merito del trattenimento, cioè i presupposti che dovrebbero giustificarne la prosecuzione. Il concetto decisivo è la “pericolosità” del soggetto, che dev’essere «concreta e attuale» per giustificare la compressione della sua libertà. In base all’emergere di «nuove informazioni», i giudici sono giunti alla conclusione che per l’imam tale pericolosità non fosse dimostrata con sufficiente solidità, disponendo pertanto la cessazione del trattenimento dell’imam nel CPR.

Le nuove informazioni hanno riguardato, in particolare, la circostanza che «il procedimento relativo alle frasi proferite alla manifestazione del 9.10.2025 (…) è stato immediatamente archiviato», trattandosi - come accennato - di una «espressione di pensiero che non integra gli estremi di reato». Un conto è «condivisibilità o meno di tali affermazioni e/o la loro censurabilità etica e morale», profili che non rientrano nel giudizio della Corte; altro conto è la possibilità di usarle nel «giudizio di pericolosità» della persona che le ha pronunciate, al punto da giustificarne il trattenimento. In altre parole, dette affermazioni non equivalgono in automatico a un indice sufficiente di pericolosità giuridicamente rilevante, quindi non sono idonee a motivare la privazione della libertà personale.

La Corte rafforza le proprie conclusioni osservando che la documentazione prodotta in giudizio «denota un concreto e attivo impegno» dell’imam «in ordine alla salvaguardia dei valori su cui si fonda lo Stato italiano, circostanza che si pone in netto contrasto con il giudizio di pericolosità»; che i contatti di Shahin «con soggetti indagati e condannati per apologia di terrorismo sono isolati e decisamente datati (…) e sono stati ampiamente spiegati e giustificati dal trattenuto nel corso della convalida»; che l’imam -«presente in Italia da oltre 20 anni, nonché perfettamente integrato e inserito nel tessuto sociale del Paese - è soggetto completamente incensurato»; che, quanto alla denuncia di blocco stradale nei riguardi di Shahin, la sua condotta non era stata «connotata da alcuna violenza e/o altro fattore peculiare indicativo di una sua concreta e attuale pericolosità, atteso che il medesimo era meramente presente sulla tangenziale assieme ad altre numerose persone».

In base a tutte queste considerazioni - valutazione della Procura, incensuratezza, ulteriori circostanze emerse nel procedimento poste a base del giudizio di non pericolosità - la Corte d’Appello ha disposto la «cessazione del trattenimento nel CPR» dell’imam Mohamed Shahin.

Parallelamente alla decisione della Corte, in un procedimento distinto - riguardante la domanda di protezione internazionale formulata dall’imam e respinta in sede amministrativa dalla Commissione territoriale competente (Siracusa) - il Tribunale di Caltanissetta ha sospeso il rigetto della domanda di protezione, per cui l’espulsione non è, al momento, eseguibile.

Le prossime tappe

L’uscita dal CPR non chiude la vicenda. In primo luogo, resta il contenzioso sul trattenimento: la decisione di cessazione può essere impugnata nelle forme previste, e infatti il Viminale ha annunciato l’intenzione di procedere in questo senso. In ogni caso, il trattenimento non può proseguire in attesa dell’esito del giudizio, in forza delle garanzie che l’ordinamento appresta a tutela della libertà personale.

Inoltre, l’esecuzione dell’espulsione è condizionata dai giudizi pendenti e, soprattutto, dalla decisione sulla protezione internazionale: il rimpatrio, e quindi il trattenimento, può essere sospeso fino all’adozione di tale decisione.

I commenti della politica e il referendum sulla giustizia

Il caso dell’imam Mohamed Shahin è stato rapidamente spostato da esponenti della maggioranza di governo, in primis dalla presidente del Consiglio, sul campo della narrazione politica della riforma della magistratura.

L’intento è quello di costruire una campagna per il referendum confermativo basata non sui tecnicismi del diritto costituzionale, ma su una semplificazione comunicativa incentrata su casi-simbolo capaci di indurre determinate reazioni nell’opinione pubblica. In altre parole, un fatto di cronaca viene strumentalizzato al fine di sostenere il “Sì” al referendum, anche se con quest’ultimo il fatto non c’entra sostanzialmente niente.

La liberazione di Shahin è diventata, secondo questo schema, emblematica di ciò che non funzionerebbe nella giustizia italiana: se un giudice dispone la cessazione del trattenimento di una persona che la politica descrive come pericolosa, allora diventa difficile «difendere la sicurezza degli italiani», come afferma Meloni. È un passaggio retorico finalizzato a veicolare il messaggio che, se non si fa passare la riforma della magistratura, non si possono proteggere i cittadini. Su questa scia si inserisce anche l’uso del caso Garlasco, che giustificherebbe il “Sì” al referendum affinché non si ripeta una simile «vergogna», come l’ha definita Giorgia Meloni ad Atreju.

Iscriviti alla nostra Newsletter


Come revocare il consenso: Puoi revocare il consenso all’invio della newsletter in ogni momento, utilizzando l’apposito link di cancellazione nella email o scrivendo a info@valigiablu.it. Per maggiori informazioni leggi l’informativa privacy su www.valigiablu.it.

Tutto questo, se può funzionare dal punto di vista della comunicazione politica, sul piano giuridico si traduce in una forzatura mistificatoria. La riforma della magistratura, con la separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri, con la creazione di due CSM, e l’istituzione di un’Alta Corte disciplinare non avrebbe cambiato l’esito della vicenda dell’imam, come pure di quella di Garlasco. In particolare, il fatto che, dopo la riforma,un magistrato accusato di un illecito disciplinare sarà giudicato dall’Alta Corte invece che dal CSM non eviterà che continuino a verificarsi casi giudiziari che restano senza soluzione, vicende chiarite solo in parte e procedimenti formalmente conclusi e poi riaperti, per nuove piste o nuovi elementi, come il caso Garlasco; né farà sì che una decisione discutibile o contestata, come quella relativa all’imam, diventi automaticamente un illecito a carico del magistrato che l’ha adottata.

Presentare la riforma come uno strumento per impedire esiti giudiziari controversi o per punire magistrati che emettono sentenze sgradite è, sul piano tecnico-giuridico, fuorviante; sul piano istituzionale, è un messaggio che merita seria preoccupazione.

 

Scrivi un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *


CAPTCHA Image
Reload Image

Segnala un errore