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Il fallimento della Brexit: perché uscire dall’Europa non conviene

12 Dicembre 2025 9 min lettura

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Il fallimento della Brexit: perché uscire dall’Europa non conviene

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In questi giorni l’Unione Europea è sotto attacco. In particolare è l’amministrazione Trump con i suoi alleati a prenderla di mira. Il nuovo National Security Strategy (NSA), rapporto in cui si delinea la strategia per la difesa dell’interesse nazionale, critica fortemente il vecchio continente, riprendendo temi già toccati dal vicepresidente JD Vance durante il discorso di Monaco di febbraio.

Anche Elon Musk, dopo la multa inflitta dalla commissione europea per il mancato adeguamento della piattaforma X (ex Twitter) alle regole del Digital Services Act, ha lanciato una serie di tweet contro l’Unione Europea. Entrambi questi attacchi hanno avuto il supporto della Russia e di alcuni dei suoi politici più in vista. Mosca ha fatto sapere che la strategia contenuta nel NSA è in linea con la visione del Cremlino.

Nel frattempo, l’ex Presidente della Repubblica e fedelissimo di Putin Dmitrij Medvedev si è detto d’accordo con Musk su X (piattaforma che, in Russia, è illegale) riguardo l’abolizione dell’UE e il ritorno integrale della sovranità agli Stati nazionali. 

L’unico paese che finora ha lasciato l’Unione Europa, il Regno Unito, si trova però in una situazione economica e politica molto fragile. Per questo un recente studio sugli effetti della Brexit può essere interessante per la situazione in cui ci troviamo. Secondo i risultati dello studio, infatti, l’impatto della Brexit sull’economia britannica è stato profondamente negativo, ben di più rispetto alle aspettative. 

Gli effetti negativi della Brexit

Un punto di partenza proviene da uno studio non ancora revisionato di recente pubblicazione per la National Bureau of Economic Research (NBER). Tra gli autori compaiono studiosi di Stanford, della Banca d’Inghilterra e della Bundesbank

Lo scopo del lavoro è di studiare l’impatto economico della Brexit nel suo complesso. Lo studio tiene conto sia della fase iniziale post-referendum, caratterizzata dalle trattative tra il Regno Unito e l’Unione Europea per trovare un accordo, sia della fase successiva, in cui invece si manifestano gli effetti della fuoriuscita del paese dall’Unione Europea.

Gli autori hanno seguito due approcci. Il primo, quello macro, consiste nel confrontare il Regno Unito con paesi simili. In questo modo i ricercatori hanno potuto costruire uno scenario, detto controfattuale, in cui il Regno Unito non è fuoriuscito dall’Unione Europea. Il secondo, quello micro, invece fa uso di dati estremamente dettagliati a livello aziendale e permette di comprendere le dinamiche che hanno innescato la Brexit sul tessuto economico del paese. L’analisi micro si basa sulle differenze tra 7000 imprese nella loro esposizione nei confronti dell’Unione Europea prima del 2016, per mostrare in che modo la Brexit abbia influenzato investimenti, occupazione e produttività.

Secondo le stime ottenute nello studio, al 2025, la Brexit ha ridotto il PIL tra il 6 e l’8 per cento. Gli investimenti hanno registrato un calo compreso tra il 12 e il 18 per cento, mentre sia l’occupazione sia la produttività hanno visto una contrazione tra il 3 e il 4 per cento. Per gli autori ci sono vari fattori che hanno contribuito a una situazione di questo tipo.  

L’aspetto cruciale riguarda l’incertezza connaturata con la Brexit. Infatti, dopo il referendum, in cui la vittoria del Leave è stata inaspettata, c’è stata una lunga fase di transizione. Il Parlamento ha attivato l’articolo 50 per uscire dall’Unione Europea e il nuovo governo guidato da Theresa May ha intrapreso le trattative con l’Unione per raggiungere un accordo circa i futuri rapporti tra i due paesi. Le trattative sono state lunghe e complesse. In un primo momento l’Unione Europea aveva respinto il piano di May. Quando poi un accordo sembrava raggiunto tra le due parti, il piano era stato respinto dal parlamento britannico, con la più grande sconfitta per un governo in carica alla di tutta la storia del Regno Unito. 

Durante l’estate del 2019, quando Boris Johnson era già a Downing Street, un accordo con l’Unione Europea sembrava ormai impossibile, prospettando quindi una Hard Brexit. La situazione si è ribaltata di nuovo in autunno. Grazie allo scioglimento del Parlamento e alle elezioni, i conservatori hanno avuto una maggioranza considerevole alla camera tale da passare l’accordo di Johnson e uscire dall’Unione Europea nel 2020, con un periodo di transizione fino alla fine dell’anno che avrebbe portato poi al Trade and Cooperation Agreement. 

Questo richiamo sulla storia della Brexit e su quanto sia stata tortuosa illustra proprio la situazione in cui si sono trovati a operare le aziende del Regno Unito. Non c’era una certezza su quali sarebbero stati gli accordi con l’Unione Europea e sulle prospettive che avrebbero atteso il Regno Unito. Una situazione di questo tipo ha avuto un impatto profondamente negativo sulle aziende: per crescere un’economia ha bisogno di regole chiare e certezze. In assenza di queste, le aziende tendono a essere caute, a ritardare i propri investimenti per tempi più sicuri. Questo rinvio si riflette poi sull’occupazione, sia quella che potrebbe essere impiegata grazie agli investimenti sia agli affetti che ha sulle aziende che forniscono beni intermedi. 

Ovviamente l’incertezza ha poi avuto effetti sulla produttività delle imprese. Invece di dedicare le proprie risorse per migliorare i processi produttivi e investire in innovazione, le aziende si sono trovate a programmare una strategia per reagire alla Brexit, in un contesto costantemente incerto come quello descritto in precedenza. 

In secondo luogo, investimenti e occupazione sono stati colpiti da un calo della domanda attesa di beni e servizi collegata appunto all’incertezza economica e ai mutati rapporti con l’Unione Europea e quindi con le sue imprese e i suoi cittadini. Infatti, secondo i risultati dello studio sono state proprio le imprese più grandi, e quindi più legate all’Unione Europea, a essere più colpite dalla Brexit. Non a caso, un altro studio del Centre for Business Prosperity (CBP) rivela come l’impatto della Brexit sull’export di beni sia stato considerevole. In generale, i dati segnalano un forte un calo dell’export verso l’Europa di beni da parte britannica. 

Un aspetto cruciale del lavoro riguarda il confronto con le precedenti stime fornite dal Fondo Monetario Internazionale (IMF). Secondo le previsioni di quest’ultimo, l’impatto della Brexit sarebbe stato del 4 per cento sul lungo periodo. Questa appare però significativamente inferiore rispetto alle stime trovate dai ricercatori. Ciò implica che il processo di separazione dall’Unione Europea ha avuto effetti negativi superiori alle attese, segnalando la difficoltà di fuoriuscire da un blocco economico come l’Unione Europea. 

Non si tratta, comunque, di uno studio isolato. Ormai l’evidenza empirica ha compreso l’impatto negativo che la Brexit ha avuto e continua ad avere sull’economia del Regno Unito. Altri studiosi istituzioni, o think tank hanno evidenziato l’impatto della Brexit sul costo della vita e sull’offerta di lavoro. Un editoriale sul sito economico Vox.Eu ha stimato che l’impatto economico della Brexit si aggirerebbe, con dati di qualche anno fa, a 350 milioni di sterline a settimana. 

Anche il Labour ci sta ripensando

Le evidenze sugli effetti negativi della Brexit si intersecano con un’altra questione. Da tempo il Labour Party di Starmer è in forte crisi di consensi, anche a causa di una situazione economica che non è rosea. A dimostrarlo c’è stata la presentazione del Budget (l’equivalente della nostra Legge di Bilancio) da parte della Cancelliera dello Scacchiere Rachel Reeves. Il compito di Reeves consisteva nel far coesistere quattro aspetti: l’attenzione ai conti pubblici, rilanciare crescita e investimenti nel paese, tenere fede alle promesse contenute nel manifesto del partito e allo stesso tempo garantire il sostegno al welfare state come chiedevano i parlamentari. Un’operazione che è riuscita a metà. 

Per quel che riguarda il Manifesto, per non dare l’idea dell’ennesimo partito di sinistra tassa e spendi, il Labour di Starmer aveva promesso di non aumentare le aliquote della tassa sui redditi. Questo si scontrava, appunto, con la necessità di reperire risorse senza fare debito, che avrebbero complicato la situazione del Regno Unito sul fronte finanziario. 

Il budget di Reeves reperisce risorse in modo tale da tenere i conti pubblici sotto controllo e finanziare politiche care a parlamentari e alla base come il superamento del Two child benefit cap: si tratta di una misura introdotto dai conservatori che limitava certi trasferimenti o deduzioni per le famiglie ai primi due figli. In un primo momento Starmer l’aveva confermato, tanto da espellere parlamentari che avevano votato a favore di una proposta dei verdi per superarlo. Oggi, affermando che ci sono più risorse, il governo decide di abolirlo a partire da aprile 2026 per ridurre la povertà infantile. 

Per farlo senza infrangere le promesse del Manifesto, Reeves ha prolungato il congelamento deegli scaglioni dell’imposta sui redditi. In UK infatti le soglie che definiscono i vari scaglioni dell’imposta vengono riviste periodicamente in base all’andamento dell’inflazione. In questo modo, Reeves ha mantenuto la sua promessa di non aumentare le aliquote. 

Ma proprio perché i salari stanno aumentando per recuperare il potere d’acquisto, le persone si ritroveranno a pagare di più. Si sfrutta, quindi, il fiscal drag. Questo ha comportato un netto aumento della pressione fiscale, anche rispetto alle stime fatte del precedente budget. 

Il Budget è stato ben recepito dai mercati, che vedono nella coppia Starmer-Reeves una fonte di stabilità per la gestione dei conti pubblici. Questo si scontra tuttavia con le stime di crescita dei prossimi anni. Nella sua relazione, l’Office for Budget Responsibility ha innalzato le stime per la crescita di quest’anno. Al contempo ha tagliato, in media dello 0,3 per cento la crescita prevista fino al 2030. Anche le stime sulla crescita della produttività, nonostante siano più difficili da prevedere, sono state tagliate. 

Questa crescita che stenta a decollare ha nella Brexit una componente fondamentale. 

Per questo motivo negli ultimi giorni si sono moltiplicate le dichiarazioni, anche di membri del governo, per un graduale riavvicinamento all’Unione Europea. Già nel mese di ottobre, in realtà, la Cancelliera Reeves aveva dichiarato che l’impatto sul lungo periodo della Brexit si sta rivelando più duro del previsto. Più recentemente il Vicepremier David Lammy, ospite del podcast The news agents, ha dichiarato che l’effetto della Brexit è autoevidente. Ciò non significa che Starmer e il suo governo siano pronti a rientrare nell’Unione Europea. Tuttavia segnala la volontà da parte di membri del Labour di una strategia diversa sulla Brexit, consapevoli che il costo economico si sta trasformando sempre di più in costo politico. 

Dal Regno Unito una lezione anche per l’Europa? 

Il dibattito che si è riaperto nel Regno Unito racconta molto più della sola Brexit: mostra con chiarezza cosa significa rinunciare a un mercato integrato e affrontare da soli sfide economiche che richiedono scala, investimenti e stabilità. I dati oggi parlano senza ambiguità: uscire dall’Unione ha reso il Regno Unito più fragile, meno attrattivo, meno capace di crescere.

Per l’Europa è un promemoria prezioso. Negli ultimi anni la galassia sovranista ha dipinto Bruxelles come un apparato di burocrati distante, disinteressato agli interessi delle persone. Ma l’esperienza britannica rivela un aspetto profondo: quando un grande paese si stacca, perde più di quanto immaginasse. E il dibattito che si è innescato nel paese sugli effetti negativi sulla crescita della Brexit può essere una lezione per l’Europa. 

L’esperienza della Brexit mostra come in realtà l’Europa e le sue istituzioni siano un’opportunità di crescita. Proprio su questo deve puntare l’Unione Europea per riconnettersi con i cittadini europei: una crescita equa e sostenibile che abbia un impatto sulla vita di tutti i giorni. Su questo, le proposte del rapporto di Draghi, ma anche esempi come le politiche industriali messe in atto dall’Amministrazione Biden per la transizione ecologica, devono tornare al centro del dibattito economico dell’Unione Europea.  

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L’attacco politico e retorico all’Unione continuerà. Ma la risposta non può essere difensiva: deve essere un progetto di futuro. Investimenti comuni, politiche industriali coordinate, attenzione alle disuguaglianze. Da oltre un decennio, per una serie di motivi, l’Unione Europea non è riuscita a tenere testa a Stati Uniti e Cina dal punto di vista economico. Risolvere questo problema è di fondamentale importanza per rilanciare il progetto europeo anche dal punto di vista politico. 

Perché la lezione del Regno Unito è questa: l’integrazione non è un vincolo, è un vantaggio. E quando la si perde, i costi ricadono soprattutto su chi avrebbe più bisogno di un’Europa forte e vicina alla vita quotidiana delle persone.

Immagine in anteprima: frame video YouTube

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