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Il parere della Corte Internazionale di Giustizia sul cambiamento climatico. “Una vittoria per il nostro pianeta, per la giustizia climatica e per il potere dei giovani di fare la differenza”

26 Luglio 2025 12 min lettura

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Il parere della Corte Internazionale di Giustizia sul cambiamento climatico. “Una vittoria per il nostro pianeta, per la giustizia climatica e per il potere dei giovani di fare la differenza”

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Il 23 luglio, la Corte internazionale di Giustizia, l’organo giudiziario delle Nazioni Unite – la Corte mondiale, come talvolta definita – ha adottato l’attesissimo parere consultivo sulle conseguenze giuridiche che derivano per gli Stati in base al diritto internazionale nella lotta al cambiamento climatico.

Come punto fondamentale della decisione, la Corte ha chiarito che tutti gli Stati della Comunità internazionale hanno obblighi vincolanti nella gestione e mitigazione degli effetti negativi del cambiamento climatico, e che possono essere chiamati a risponderne in caso di loro violazione, con tutte le conseguenze che ne derivano, tra cui l’obbligo di risarcimento dei danni subiti da altri Stati o individui.

"Una vittoria per il nostro pianeta, per la giustizia climatica e per il potere dei giovani di fare la differenza", così l’ha definita António Guterres, Segretario Generale delle Nazioni Unite. Il parere della Corte è stato chiesto infatti a partire dall’iniziativa di un gruppo di studenti dello Stato di Vanuatu.

Per l’autorevolezza della Corte e per il contenuto del parere – che include, tra l’altro, la prima affermazione generale del diritto a un ambiente sano e sostenibile come diritto umano – si tratta della pronuncia giudiziaria più importante mai resa sul cambiamento climatico, che è destinata a orientare tutte le future discussioni politiche e iniziative giudiziarie, fissando i parametri fondamentali da cui prenderà avvio ogni confronto (vedi per esempio la causa italiana “Giusta causa” intentata contro l’attività di alcune società quali ENI, che a seguito della recente decisione della Corte di Cassazione, è stata autorizzata a proseguire nel merito).

In questo approfondimento, tratteremo degli aspetti più salienti del parere, non senza prima aver fornito un breve contesto della richiesta consultiva sottoposta alla Corte, e aver chiarito cosa sono i pareri consultivi e quali effetti possono avere.

I pareri consultivi, cosa sono, chi può richiederli e che effetti hanno 

La Corte Internazionale di Giustizia può rendere pareri consultivi per fornire “consulenza” giuridica e aiutare gli organi politici delle Nazioni Unite a svolgere le loro funzioni. Così, i pareri possono essere richiesti dall’Assemblea Generale e dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU, che hanno una competenza rispettivamente generale e operativa nella discussione di tutti i problemi legati al mantenimento della pace e sicurezza internazionale.

La Corte dà risposte alle questioni giuridiche che le vengono sottoposte, e nel fare ciò chiarisce quali sono le regole di diritto internazionali rilevanti (in passato la Corte ha ad esempio chiarito quali sono le norme che definiscono la illegittimità dell’occupazione israeliana, lo status di territori ex-coloniali, la liceità dell’utilizzo dell’arma nucleare).

Perciò, benché i pareri consultivi non siano vincolanti (a differenza delle sentenze), possono comunque produrre effetti, nella misura in cui chiariscono quali sono le norme vincolanti da applicare ad una determinata materia. Non solo, godono comunque di una certa autorevolezza, essendo adottati dal più importante organo giurisdizionale al mondo. Per questo, non possono venire ignorati, a meno di non voler mettere in dubbio la stessa autorevolezza della Corte mondiale.

Il contesto in cui è nato il parere della Corte Internazionale di Giustizia

Il parere sul clima segna l’approdo di un lungo e articolato processo di strategic litigation, che si è sviluppato nel corso degli anni e ha coinvolto sia la società civile che altri Stati, con lo scopo del riscorso ai giudici per supplire all’inerzia degli attori politici, col tempo manifestatasi in maniera sempre più evidente. Non sono stati compiuti passi significativi dagli Accordi di Parigi del 2015, le cui scadenze ormai imminenti sembrano destinate a sancire il mancato raggiungimento degli obiettivi climatici prefissati.

Il parere della Corte non è l’unico parere sul cambiamento climatico. Nell’ultimo anno sono stati adottati altri due pareri sullo stesso tema dal Tribunale internazionale per il diritto del mare (ITLOS, 21 maggio 2024) e dalla Corte interamericana per i diritti umani (IACtHR, 3 luglio 2025). Ma questi riguardano specifici settori del diritto internazionale (ossia diritto del mare e diritti umani nel contesto americano), mentre la Corte Internazionale di Giustizia è l’unica ad avere una competenza generale e a poter valutare tutti gli ambiti del diritto. Di questi due pareri, quello della Corte interamericana è stato particolarmente progressista, affermando che gli Stati hanno obblighi di tutela dei diritti umani che si sostanziano nella prevenzione dell’aggravarsi del cambiamento climatico, con riferimento non solo ai diritti degli individui ma anche della natura in quanto tale, come autonomo soggetto di diritto.

Oltre alla richiesta di parere consultivo alla Corte Internazionale di Giustizia, è tutt’ora pendente un’ulteriore richiesta di parere presso la Corte africana dei diritti umani e dei popoli, che è l’organo che controlla il rispetto dei diritti umani nel contesto africano. Tuttavia, il procedimento è ancora nelle fasi inziali, ed è troppo presto per riflettere sulle sue potenziali ripercussioni. Questa richiesta, tuttavia, contiene un elemento di novità rispetto alle altre, perché si focalizza anche sul ruolo dei privati.

La richiesta di parere alla Corte Internazionale di Giustizia

La richiesta di parere alla Corte Internazionale di Giustizia scaturisce dall’iniziativa di un gruppo di studenti raccolta dallo Stato di Vanuatu e capeggiata dagli insulari (“small island States”) che, a partire dal 2021, hanno avviato un’intensa attività di lobbying per ottenere i voti necessari per ottenere un voto favorevole in Assemblea Generale. La richiesta è stata formalmente presentata con la risoluzione dell’Assemblea Generale del 29 marzo 2023 (qui), ed è stata adottata con l’adesione più ampia possibile, ossia per c.d. consensus, senza voti contrari, dai 193 Stati membri. La circostanza di per sé è subito apparsa storica, perché l’ultima volta che l’Assemblea è ricorsa alla votazione del consensus era più di 70 anni fa con la Risoluzione 258(III), quando l’Assemblea contava solo 48 membri, e comunque non l’aveva mai adottata per sottoporre una richiesta di parere alla Corte la  sempre ricorsa alle votazioni formali per le richieste di pareri. Lo stesso consenso generalizzato è stato raccolto dalla Corte internazionale di giustizia che nel rispondere positivamente ai quesiti posti dall’Assemblea ha votato il contenuto del parere all’unanimità.

Nella richiesta veniva domandata alla Corte: 1) quali sono obblighi per gli Stati nella lotta al cambiamento climatico; 2) quali sono le conseguenze che derivano da un loro inadempimento.

La Corte ha risposto ai due quesiti chiarendo le norme applicabili in funzione degli Stati coinvolti e delle fonti giuridiche considerate, a partire dai trattati sul clima, passando per il diritto del mare, il diritto internazionale dei diritti umani e il diritto internazionale consuetudinario.

Si tratta di un parere particolarmente lungo, articolato e denso – oltre 140 pagine – complesso anche sotto il profilo giuridico per via dell’intreccio tra le diverse fonti del diritto internazionale. Nei paragrafi che seguono ne riassumiamo i passaggi e i punti più rilevanti.

Gli Stati hanno obblighi vincolanti di prevenzione, mitigazione e adattamento… anche se non fanno parte dei trattati sul clima

Il primo punto fondamentale è che tutti gli Stati hanno obblighi nella gestione del cambiamento climatico.

In base ai trattati internazionali vigenti in materia climatica (tre principalmente, la UNFCCC, il Protocollo di Kyoto e l’Accordo di Parigi), gli Stati sono tenuti ad adottare misure efficaci di prevenzione e mitigazione del cambiamento climatico, tra cui la riduzione delle proprie emissioni, la prevenzione di danni significativi all’ambiente, l’adozione di comportamenti diligenti, la cooperazione reciproca e l’attuazione di misure di adattamento.

Tali obblighi non riguardano solo l’attività diretta dello Stato, ma si estendono anche alle condotte dei soggetti privati che ricadono, almeno in astratto, sotto il suo controllo. Ciò include, tra l’altro, la produzione e il consumo di combustibili fossili, il rilascio di licenze per la loro esplorazione, nonché la concessione di sussidi a favore di tali attività.

Di conseguenza, uno Stato che ometta di regolamentare e contenere, attraverso strumenti normativi adeguati, le proprie emissioni e quelle prodotte da imprese multinazionali o dai consumatori di combustibili fossili, commette un illecito internazionale e può essere ritenuto responsabile per gli effetti negativi che ne derivano.

Questi obblighi sono in parte vincolanti anche per gli Stati che non aderiscono ai trattati sul clima. La Corte ha infatti chiarito che alcuni obblighi fondamentali – tra cui quello di non arrecare danno significativo all’ambiente, quello di esercitare la dovuta diligenza e quello di cooperare – fanno parte del diritto internazionale consuetudinario, e in quanto tali vincolano tutti gli Stati della comunità internazionale. Ciò significa che uno Stato può non aderire o anche recedere da trattati sul clima, come accaduto con gli Accordi di Parigi durante l’amministrazione Trump, ma questo non lo esonera dagli obblighi di prevenzione e contenimento del cambiamento climatico.

Al contrario, la Corte sottolinea che è nell’interesse di questi Stati cooperare con gli altri secondo le modalità previste dai trattati internazionali in materia, poiché ciò è sufficiente a dimostrare l’adempimento degli obblighi consuetudinari. Qualora uno Stato scelga invece di non partecipare a tale cooperazione, la sua posizione si indebolisce: ricadrà infatti interamente su di esso l’onere di dimostrare che le proprie politiche climatiche rispettano comunque gli obblighi previsti dal diritto internazionale.

Il target di riduzione delle emissioni globali da considerarsi vincolante non è quello di 2°C, ma quello più stringente di 1,5°C

L’Accordo di Parigi stabilisce, come obiettivo generale, il contenimento dell’aumento della temperatura media globale ben al di sotto dei 2°C rispetto ai livelli preindustriali, con l’ulteriore impegno, auspicabile ma non formalmente vincolante, di limitarlo a 1,5°C. Tuttavia, gli studi scientifici indicano che un aumento di 2°C sarebbe già sufficiente a determinare cambiamenti irreversibili negli ecosistemi terrestri (per approfondire). Per questo motivo, il dibattito internazionale si è progressivamente orientato verso la soglia più ambiziosa di 1,5°C.

Su questa linea si è collocata anche la Corte, la quale ha riconosciuto che il limite di 1,5°C è ormai divenuto, sulla base del consenso scientifico e dell’accordo sostanziale tra gli Stati, il nuovo parametro di riferimento condiviso e vincolante per la riduzione delle emissioni. Ciò impone uno standard più elevato nella lotta al cambiamento climatico, che deve trovare riscontro nei piani nazionali di riduzione delle emissioni adottati dagli Stati.

Il contenuto dei piani nazionali di riduzione delle emissioni (NDC) non è del tutto rimesso alla discrezionalità e volontarietà degli Stati

L'Accordo di Parigi stabilisce un obiettivo generale di riduzione delle emissioni, lasciando ai singoli Stati il compito di definire le modalità concrete per raggiungerlo attraverso la predisposizione di piani nazionali, noti come contributi determinati a livello nazionale (NDC). Il contenuto di tali piani è, in linea di principio, stabilito discrezionalmente dagli Stati e gli impegni assunti sono formalmente volontari.

Tuttavia, la Corte ha chiarito che la discrezionalità statale nella definizione degli NDC non è assoluta e che gli Stati sono tenuti a offrire risposte urgenti al cambiamento climatico e a rispettare gli obiettivi fissati dall’Accordo di Parigi. Sebbene sia riconosciuto un margine di manovra nella scelta delle misure per la riduzione delle emissioni di gas serra, secondo la Corte la natura volontaria degli impegni non può essere invocata per sottrarsi a qualsiasi forma di controllo da parte degli organi competenti.

Non basta in altre parole che gli Stati predispongano questi piani, lasciandoli lettera morta, ma è necessario che questi vengano regolarmente aggiornati, prevedano misure e obiettivi progressivamente sempre più ambiziosi e che siano in grado di fornire un contributo adeguato al raggiungimento dell’obiettivo di contenimento dell’aumento della temperatura così come previsto dall’Accordo di Parigi.

Il diritto a un ambiente sano, pulito e sostenibile è un diritto umano

La Corte ha riconosciuto per la prima volta in termini espliciti quanto già affermato da tempo dagli studiosi e da altri organi giudiziari: il diritto a un ambiente sano, pulito e sostenibile costituisce un diritto umano autonomo, in quanto condizione imprescindibile per l’effettivo godimento degli altri diritti fondamentali della persona, quali il diritto alla vita, alla vita privata, alla salute e a condizioni di vita dignitose.

Tale riconoscimento impone agli Stati l’obbligo di considerare anche l’impatto delle proprie politiche sui diritti umani ed è destinato ad avere un’influenza significativa sullo sviluppo della climate change litigation in corso davanti ai giudici nazionali.

La natura cumulativa e diffusa del cambiamento climatico non impedisce di accertare la responsabilità degli Stati

La Corte ha chiarito un punto oggetto di discussione, riguardante le difficoltà nel delineare obblighi e responsabilità in relazione a un fenomeno, come il cambiamento climatico, i cui effetti negativi sono difficilmente localizzabili sia nel tempo che nello spazio.

Secondo la Corte, la natura diffusa del fenomeno e la sua origine cumulativa (ossia il fatto che i danni derivino dall’accumularsi di condotte ascrivibili non solo a momenti, ma anche a una pluralità di soggetti diversi, rispetto ai quali non è sempre agevole determinare con precisione la responsabilità) non escludono l’esistenza, per tutti gli Stati, di un dovere generale di prevenzione di danni significativi all’ambiente.

Parallelamente, la Corte ha affermato che tali caratteristiche non impediscono di individuare le responsabilità degli Stati coinvolti. È infatti scientificamente possibile, secondo la Corte, quantificare il contributo complessivo di ciascuno Stato alle emissioni globali, sulla base dello storico delle emissioni e dei dati attuali.

Il nesso di causalità, che secondo la Corte è necessario solo per il risarcimento dei danni, può ritenersi sussistente laddove si accerti un "nesso causale sufficientemente diretto e certo" tra la condotta statale e il danno subito. A tal fine, occorre verificare, da un lato, se l’evento climatico dannoso sia riconducibile al cambiamento climatico di origine antropica, circostanza che, come riconosciuto dalla Corte, oggi è generalmente accertata dalla scienza, e, dall’altro, se il danno sia imputabile, in concreto, a uno Stato o a un gruppo di Stati.

Gli Stati che non rispettano gli obblighi debbono risarcire i danni causati dalle loro attività

Gli Stati che non rispettano gli obblighi delineati dalla Corte incorrono nelle classiche conseguenze derivanti dall’illecito internazionale. Tra queste l’obbligo di cessazione, di non ripetizione, di riparazione (tramite restituzione o risarcimento), e di equa soddisfazione.

La Corte ha chiarito che i trattati climatici e le norme di diritto consuetudinario tutelano interessi collettivi (sono c.d. obblighi erga omnes), interessi che ciioè che fanno capo a ciascun membro della Comunità internazionale. Ciò significa che ciascuno Stato potrà “fare causa” agli Stati inadempienti per invocare il loro mancato rispetto e le conseguenze che ne scaturiscono.

Sul piano delle conseguenze, il punto più interessante riguarda l’obbligo di riparazione, che nel diritto internazionale può essere adempiuto sia attraverso il ripristino della situazione precedente alla violazione (c.d. restitutio in integrum), sia tramite un risarcimento pecuniario. Nel caso dei danni causati dal cambiamento climatico, ci si è interrogati sulla possibilità di riportare la situazione allo stadio originario, poiché in molti casi tali danni risultano irreversibili (si pensi, ad esempio, ai danni causati dall’innalzamento del livello del mare).

La Corte ha tuttavia chiarito che la valutazione della praticabilità della restitutio in integrum deve essere effettuata caso per caso, e che, quando possibile, gli Stati possono essere chiamati a dover ricostruire le infrastrutture danneggiate o distrutte, o a ripristinare gli ecosistemi e la biodiversità compromessi. Qualora ciò risulti materialmente impossibile, gli Stati responsabili hanno l’obbligo di fornire un risarcimento nei confronti degli Stati o degli individui danneggiati. Nei casi in cui l’entità del danno non possa essere determinata con esattezza, il risarcimento potrà, in via eccezionale, assumere la forma di una somma forfettaria, calcolata sulla base delle prove disponibili.

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Il diritto, ma soprattutto la volontà, individuale e collettiva, di cambiare le cose

In conclusione, la Corte ha voluto ribadire la natura e i limiti del proprio ruolo: fornire un quadro giuridico di riferimento per rispondere ai quesiti che le vengono sottoposti. Tuttavia, ha scelto di concludere il parere con un richiamo più ampio e profondo alle responsabilità che spettano a ciascun individuo e alla collettività, con parole che meritano di essere riportate integralmente: 

“Prima di concludere, la Corte ricorda che è stato osservato come il presente procedimento consultivo non abbia precedenti tra quelli finora sottoposti alla sua attenzione. Al tempo stesso, come la Corte ha già affermato, i quesiti posti dall’Assemblea Generale sono di natura giuridica, e la Corte, in quanto organo giurisdizionale, non può fare altro che affrontarli nei limiti della propria funzione giudiziaria: questo è il ruolo che le è assegnato nell’ordinamento giuridico internazionale. Tuttavia, le questioni sollevate dall’Assemblea Generale rappresentano qualcosa di più di un problema giuridico: esse riguardano un problema esistenziale di proporzioni planetarie, che minaccia tutte le forme di vita e la salute stessa del nostro pianeta. Il diritto internazionale – la cui autorità è stata invocata dall’Assemblea – svolge un ruolo importante, ma inevitabilmente limitato, nella risoluzione di questo problema. Una completa soluzione a questa imponente, e autoinflitta, sfida richiede il contributo di tutti i campi del sapere umano – diritto, scienza, economia, e molti altri ancora. Ma, soprattutto, essa richiede la volontà e saggezza dell’uomo – a livello individuale, sociale e politico – per cambiare le nostre abitudini, i nostri agi e il nostro attuale stile di vita, al fine di assicurare un futuro a noi stessi e alle generazioni che verranno. Con questo parere, la Corte partecipa alle attività delle Nazioni Unite e della comunità internazionale che quell’organizzazione rappresenta, con la speranza che le sue conclusioni possano contribuire a orientare, attraverso il diritto, l’azione sociale e politica volta a rispondere all’attuale crisi climatica”.

Immagine in anteprima: frame video CBS News via YouTube

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