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Yemen: tra accordi miliardari e cessate il fuoco, la strategia di Trump nel Golfo

21 Maggio 2025 8 min lettura

Yemen: tra accordi miliardari e cessate il fuoco, la strategia di Trump nel Golfo

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Il bottino è ricco e Trump ci si è ficcato con soddisfazione. Ma il risultato positivo della visita del presidente statunitense ai paesi del Golfo, ottenuto sul piatto di un business faraonico in nome della stabilità, deve fare i conti con una variabile ingovernabile: lo Yemen, con tutte sue componenti socio-politiche, spesso sottovalutate dalle amministrazioni americane che stentano a comprenderne le dinamiche interne. In principio, sul piatto c’è stata per mesi un’ipotesi, fonte di discussioni accese dentro l’amministrazione stessa di Washington e tra gli alleati statunitensi (a vario titolo, Israele e i paesi del Golfo): l’invasione di terra dello Yemen. 

In questo paese, ancora ufficialmente dentro una guerra decennale, che oppone il governo centrale filo-saudita con sede nel Sud, ad Aden, e lo Yemen del Nord, governato dalla milizia filo-iraniana di Ansarullah, alcuni mesi fa, gli Stati Uniti avevano posto le condizioni per il deployment di pochissime unità scelte: Marines e Navy Seals, posto che agenzie di contractors americane sono attive sul suo suolo da anni e agiscono per conto sia di USA che degli Emirati Arabi Uniti, ufficialmente per eliminare target terroristici affiliati ad Al-Qaeda, ma ufficiosamente per fare fuori rappresentanti del partito Islah dei Fratelli Musulmani yemeniti, dieci anni fa al potere durante il governo ad interim del presidente Mansour Hadi, successivamente caduto in disgrazia e dimissionario. Si tratta di operazioni che le agenzie di contractors eseguono con una certa freddezza e conto terzi, in particolare per Abu Dhabi che ha messo le mani sul Sud dello Yemen e vuole assicurarsi un prossimo futuro in cui non ci sia traccia né di Qatar e Turchia sulla punta estrema della Penisola Arabica e sull’affaccio verso il Mar Rosso né degli alleati sauditi. 

Gli Stati Uniti, e proprio la prima amministrazione Trump nel 2017, a presidente appena insediato, aveva approfittato di queste compagnie private, oltre che della Centcom, della Socom e della CIA, per portare avanti la prima operazione di counterterrorism nel paese contro quel che rimaneva della tribù del famigerato qaedista americano Anwar al-Awlaki nel governatorato di al-Bayda. All'epoca, era il 29 gennaio del 2017, quell’operazione aveva fatto 14 morti e tre feriti, tra cui dieci tra donne e bambini (compresa la figlia di al-Awlaki, Nour, una bimba di appena otto anni) ma aveva mancato proprio il target stabilito: il delfino di Ali al-Awlaki, Qasim al-Raymi, leader di Ansar al-Ansa (al-Qaeda nello Yemen) mai più ritrovato, in un territorio estremamente difficile da penetrare, tanto quanto l’Afghanistan. Ma con questa azione e poi, successivamente, con la definizione di Ansarullah come milizia terrorista, Donald Trump aveva lasciato il segno come uno dei presidenti statunitensi più ostili allo Yemen. 

Adesso, dopo un anno di mezzo di operazioni aeree “Prosperity Guardian”, portate avanti dalla presidenza Biden contro Ansarullah nel nord per proteggere le navi commerciali di passaggio sul Mar Rosso, prese di mira con missili e droni armati dalla milizia filo-iraniana in azioni di pirateria dimostrativa pro-Palestina, la questione si è fatta seria e cruciale: per tenere fede alle promesse fatte a Tel Aviv, davvero Washington si sarebbe lanciata in un’altra guerra di invasione in un terreno ostile tanto quanto Iraq e Afghanistan e potenzialmente imbattibile come lo Yemen del Nord, considerato che l’Arabia Saudita in dieci anni e con una spesa folle in armamenti non è riuscita ad avanzare di un metro?

L’amministrazione Biden aveva preso in considerazione l’ipotesi: Mike Waltz, il cosiddetto falco di Teheran, già national security advisor della prima ora in Medio Oriente per Trump, era per questa ipotesi, sorretto da due considerazioni: fare fuori i proxies iraniani ad uno ad uno, per poi procedere con l’Iran; difendere Israele senza mettere in questione la pericolosità di una scelta del genere; realizzare il sogno dei Bush sul grande Satana. E qui è arrivata la sorpresa: Trump ha fatto fuori Waltz dal suo ruolo, ha ingaggiato una mediazione con l’Iran sul nucleare, ha così accontentato i paesi del Golfo, traghettando la crisi verso una soluzione più morbida che li soddisfi, ha incamerato un accordo per 179 miliardi solo con gli Emirati, e ha evitato il disastro in casa propria, rifiutandosi di avallare una campagna militare potenzialmente inutile, sfiancante e distruttiva per i suoi cittadini.

La questione “invasione di terra dello Yemen” è per ora off the table, almeno stando – ancora una volta – agli interessi dei paesi del Golfo: gli omaniti sono riusciti a convincere Trump e gli Houthi in Yemen che ostinarsi a lanciarsi bombe da una parte e razzi dall’altra non è per nulla conveniente, soprattutto con il rischio di una devastante guerra di terra. Per questo gli Houthi hanno salomonicamente accolto la mano tesa da Washington e si sono assicurati 90 giorni di tregua, risparmiandosi un impegno notevole e dispendioso di deterrenza sul Mar Rosso.

Il Ministero degli Esteri dell'Oman ha confermato che "si sarebbe tenuta una sessione di consultazione politica tra il Sultanato dell'Oman e la Repubblica dello Yemen per discutere la possibilità di riprendere il processo di pace e scambiare opinioni sugli sviluppi della questione yemenita e sulle modalità per riprendere il processo di pace, con l'obiettivo di raggiungere una soluzione giusta e globale in Yemen che tenga conto degli interessi di tutte le parti senza eccezioni". In Yemen le consultazioni di pace sono state sospese proprio a causa degli attacchi lanciati dal gruppo Houthi nel Mar Rosso e nel Golfo di Aden dal novembre 2023. Ed è promettente per tutti gli yemeniti - oltre ad essere la prova provata di un reale successo diplomatico congiunto di Egitto, Qatar, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Iraq, Giordania e Iran, ai fini di porre fine all'escalation militare nella regione del Mar Rosso – sapere che l’opposizione all'operazione militare terrestre americana in Yemen potrà favorire la pace nel paese.

Ma se a portare i vasi a Samo sono stati gli omaniti, questo risultato non sarebbe stato raggiunto se non ci fosse stata anche una consultazione diretta tra i sauditi e il governo del Sud dello Yemen. Ancora una volta, il deus ex machina della regione è Riad. Il 21 aprile scorso, l'ambasciatore saudita in Yemen, Mohammed Al Jaber, ha incontrato la presidenza della Commissione di Consultazione e Riconciliazione in Yemen (che supporta il Consiglio Presidenziale ed è stata istituita nel 2022) e i segretari dei partiti e delle componenti politiche yemenite del governo di Aden. Ha sottolineato che l'incontro rappresentava "una continuazione del sostegno del Regno agli sforzi di pace, alla riconciliazione nazionale globale e al consolidamento della stabilità in Yemen", confermando la prosecuzione di un’era di disgelo con Teheran e il ruolo negativo degli attori internazionali (Stati Uniti, Israele) che ostacolano le consultazioni di pace yemenite sponsorizzate dall’ONU.

L'inviato delle Nazioni Unite in Yemen, Hans Grundberg, alla fine del 2023, aveva annunciato che le parti avevano concordato una serie di misure, tra cui l'attuazione di un cessate il fuoco a livello nazionale, decisioni congiunte per migliorare le condizioni di vita in Yemen e l'avvio dei preparativi per la ripresa dei colloqui di pace in Yemen sotto l'egida delle Nazioni Unite. Pochi giorni fa, nel suo briefing al Consiglio di sicurezza dell'ONU, ha ribadito che la roadmap rimane valida e saldamente in vigore, e che "la vera pace e sicurezza in Yemen possono essere raggiunte solo attraverso l'impegno internazionale, il coordinamento e un approccio congiunto a lungo termine" e devono passare da un cessate il fuoco, dalla ripresa economica e da un processo politico inclusivo per andare avanti". Ha infine aggiunto che "il contesto di mediazione ha subìto cambiamenti significativi dalla fine del 2023 e sono necessarie ulteriori garanzie per consentire alle parti di partecipare e ottenere il sostegno della regione, della comunità internazionale e di questo Consiglio". In sostanza, la cessazione delle ostilità tra gli Stati Uniti e il gruppo Ansarullah (Houthi) è una opportunità gradita a tutti e dovrebbe essere sfruttata collettivamente.

Se Washington ha finalmente scelto di rinunciare al suo ruolo in Yemen proprio nel momento in cui il confronto israelo-iraniano sta raggiungendo il suo apice nel paese, la palla ritorna al centro del Golfo e in mano agli yemeniti soprattutto, che possono anticipare la futura traiettoria del conflitto. Su questo, le pressioni sull’Iran, affinché contenga e limiti il sostegno ai suoi alleati regionali sono state evidenti e hanno funzionato: Teheran avrebbe rifiutato di discutere del suo programma missilistico con Washington, insistendo sulla sua sovranità nazionale ma in cambio ha comunque offerto all'amministrazione Trump opportunità di investimento per un valore fino a mille miliardi di dollari nel paese e ha iniziato a inviare segnali positivi indicando la sua disponibilità a negoziare sulle questioni regionali. Il 7 aprile scorso, diversi alti funzionari iracheni hanno affermato che le milizie sostenute dall'Iran in Iraq erano disposte a disarmarsi. Il 9 aprile, un alto funzionario di Hezbollah ha affermato che il gruppo era aperto a un dialogo libanese per discutere il futuro del suo arsenale di armi. Nel frattempo, il Telegraph citava un alto funzionario iraniano che affermava che Teheran aveva deciso di ritirare il suo personale militare dallo Yemen e di cessare il supporto agli Houthi. 

In questo piano di ammorbidimento generale in nome della stabilità e del business, siglato dai paesi del Golfo e accettato dall’Iran con qualche riluttanza, restano però molto incerte due variabili: l’orgoglio immarcescibile degli Houthi, funzionale alla piena legittimazione, e il piano di allargamento regionale (presentato come piano di difesa) di Israele.

Gli Houthi, infatti, non hanno mai detto che avrebbero smesso di guerreggiare ma hanno specificato di volere differenziare i loro obiettivi tra Stati Uniti e Israele, smentendo le dichiarazioni di Donald Trump che vantava di avere avuto colloqui diretti con il gruppo. L'alto funzionario Houthi, Mohammed al-Bukhaiti, ha infatti ribadito: "Non ci consideriamo in guerra con il popolo americano. Se gli Stati Uniti smettono di colpire lo Yemen, noi, a nostra volta, cesseremo le nostre operazioni militari contro di esso". Così, Mahdi al-Mashat, presidente del Political Supreme Council a Sana’a, si è affrettato a mettere i puntini sulle i: “Mi rivolgo a tutti i sionisti da adesso in poi: state nei rifugi o lasciate il vostro paese, perché il vostro governo fallimentare, prima o poi, non sarà in grado di proteggervi”. 

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Da qui, una serie di lanci di missili degli Houthi sull’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv che si sono intensificati alla partenza dell’operazione di terra israeliana “Carri di Gedeone” su Gaza  e che mettono in crisi gli sforzi dell’Iran per frenarli, dato l'impegno pubblico della leadership yemenita a solidarizzare con i palestinesi. Israele, nel frattempo, ha probabilmente valutato che anche bombardamenti massicci in Yemen non scoraggeranno ulteriori attacchi Houthi, il che potrebbe fornire un pretesto per una futura azione diretta contro l'Iran.

Trump, dopo la sua prima visita ufficiale all’estero da presidente che gli ha fruttato un ricco bottino, lascia dunque Netanyahu da solo ad affrontare le future minacce degli Houthi e – potenzialmente - dell'Iran. Ma se continuerà a foraggiarlo militarmente senza ostacolarlo, potremo sapere come va a finire. Considerato che Washington ha recentemente foraggiato anche i sauditi con aerei da guerra e altre dotazioni di alta precisione, tutto questo scenario potrebbe non preludere esattamente a una buona notizia per la regione, già abbondantemente in bilico.

Immagine in anteprima: frame video Al Jazeera via YouTube

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