Trump sta smantellando decenni di politiche sul clima negli USA e il suo obiettivo è annientare il Green Deal europeo
8 min lettura*Articolo in partenariato con Display Europe, pubblicato su Voxeurop
“Un’inversione di 180 gradi”. In questi termini il segretario statunitense all’Energia, Chris Wright, ha definito, lo scorso marzo di fronte a una platea di dirigenti di aziende di combustibili fossili, la nuova marcia che l’amministrazione Trump intende imprimere alle politiche climatiche ed energetiche. Durante l’incontro, Wright ha sostenuto che il cambiamento climatico “è un effetto collaterale della costruzione del mondo moderno”. In altre parole: non c’è alternativa ai combustibili fossili per poter alimentare il pianeta.
L’inversione di rotta rispetto all’Inflation Reduction Act – il più significativo investimento federale della storia degli Stati Uniti per contrastare il cambiamento climatico, approvato dall’ex presidente Biden nel 2022 – si è tradotta in una serie di tagli di bilancio che sta coinvolgendo l’intero settore scientifico e che porterebbe alla cancellazione di interi programmi di ricerca, dal clima allo spazio.
L’amministrazione Trump sta cercando di chiudere praticamente tutta la ricerca scientifica condotta dalla National Oceanic and Atmospheric Administration (NOAA), l’agenzia federale, pioniera a livello mondiale nello sviluppo dei modelli climatici. La Noaa gestisce decine di laboratori di ricerca negli Usa che studiano l’atmosfera, gli oceani e l’ambiente marino, i fiumi e i laghi, e monitorano molti dei processi che avvengono sulla Terra, tra cui le emissioni di gas serra che causano il riscaldamento globali, e fenomeni come le ondate di calore e la siccità.
“Si tratta di una minaccia enorme per la ricerca della Noaa, ma anche per la sicurezza e la stabilità economica dei cittadini americani”, ha commentato Craig McLean, fino al 2022 direttore dell’ufficio ricerca della Noaa. I tagli avrebbero, infatti, un effetto devastante sulla ricerca meteorologica e climatica, in un momento in cui gli eventi meteorologici stanno diventando sempre più estremi e dannosi. Paralizzerebbero, ad esempio, le industrie statunitensi, compresa l'agricoltura, che dipendono da dati meteo e climatici gratuiti e accurati e dall'analisi di esperti.
Tutto era già previsto, d’altronde, nel Project 2025, il cosiddetto “piano per la transizione presidenziale” ideato dalla Heritage Foundation, l’influente think-tank conservatore di matrice cristiana e nazionalista vicino a Trump, che definiva la NOAA come “uno dei principali motori dell’industria dell’allarmismo sul cambiamento climatico” e affermava che “dovrebbe essere smantellata”.
I tagli alla NOAA sono solo l’ultimo capitolo dell’ampio ridimensionamento delle politiche climatiche dell’amministrazione Biden. Come per molti altri settori, anche in materia di clima e ambiente Trump sta procedendo a profonde riforme a colpi di ordini esecutivi (decreti) sin dal suo insediamento.
Il primo giorno del suo mandato, ha ritirato gli Stati Uniti dall'accordo di Parigi sul clima, ha avviato piani per aprire all’estrazione mineraria alcune aree dell'Alaska, ha bloccato le autorizzazioni federali per nuovi parchi eolici, ha ordinato alle agenzie federali di interrompere i sussidi per i veicoli elettrici e ha sospeso le autorizzazioni per i progetti di energia rinnovabile su terreni pubblici.
Quasi contemporaneamente Trump ha messo nel mirino l’Agenzia per la protezione ambientale (U.S. Environmental Protection Agency, EPA), mettendola nelle mani di Lee Zeldin. Appena entrato in carica, Zeldin ha smontato le normative ambientali e gli investimenti federali in energia pulita.
In questi mesi, l’EPA ha congelato 20 miliardi di dollari di sovvenzioni per progetti sul clima, assegnati attraverso il Fondo per la riduzione dei gas serra (concepito per sbloccare oltre 100 miliardi di dollari di capitali privati per consentire alle comunità di tutti gli Stati Uniti di abbandonare i combustibili fossili) e ha formalmente revocato una sovvenzione di 7 miliardi di dollari concessa al Climate United Fund per presunte “frodi programmatiche, sprechi e abusi” (accuse prontamente respinte dal Climate United Fund).
Nel frattempo, l'EPA starebbe progettando anche di eliminare il suo ufficio di ricerca scientifica, licenziando fino a 1.155 chimici, biologi, tossicologi e altri scienziati, pari al 75 per cento del personale del programma di ricerca, che contribuisce a fornire le basi scientifiche per le norme che tutelano la salute umana e gli ecosistemi dagli inquinanti ambientali. L'ufficio, ad esempio, ha condotto in passato test su larga scala che hanno rilevato livelli elevati di sostanze chimiche nocive nel fiume Cape Fear, nella Carolina del Nord, che minacciano l'acqua potabile.
Secondo alcuni documenti visionati da ProPublica, l’Epa sarebbe intenzionata anche a eliminare l’obbligo per le aziende di raccogliere e comunicare le loro emissioni di gas serra. La misura interesserebbe migliaia di impianti industriali in tutti gli Stati Uniti.
I dati, raccolti nel Greenhouse Gas Reporting Program e messi a disposizione della cittadinanza, guidano le decisioni politiche e costituiscono una parte significativa delle informazioni che il governo trasmette all'organismo internazionale che calcola l'inquinamento globale da gas serra. Attualmente, circa 8.000 strutture all'anno comunicano le loro emissioni al programma. In base alla nuova norma, gli obblighi di comunicazione si applicherebbero solo a circa 2.300 strutture in alcuni settori dell'industria petrolifera e del gas.
“Sarebbe un po' come staccare la spina all'apparecchiatura che monitora i segni vitali di un paziente in condizioni critiche”, spiega Edward Maibach, professore alla George Mason University. “Come potremo mai gestire questa incredibile minaccia per il benessere dell'America e dell'umanità se non monitoriamo effettivamente ciò che stiamo facendo per aggravare il problema?”.
La scure di Trump non si ferma qui. La Casa Bianca ha deciso di tagliare i fondi destinati all’US Global Change Research Program (USGRP), l'ente che redige il principale rapporto del governo federale sul clima e ogni quattro anni fa il punto sugli effetti dell’aumento delle temperature globali sugli Stati Uniti. Si tratta dell'analisi più completa, approfondita e aggiornata sulla crisi climatica, che poi informa le politiche locali e nazionali in materia di agricoltura, produzione energetica e uso del suolo e dell'acqua. “Il licenziamento del personale dell'USGRP smantella l'intero ecosistema della ricerca e dei servizi climatici”, ha detto al Guardian un membro dello staff che ha chiesto di rimanere anonimo.
I tagli si abbattono anche sul Servizio meteorologico nazionale che ridurrà gli aggiornamenti delle previsioni meteorologiche a causa della “grave carenza” di meteorologi e altri dipendenti, secondo un documento interno dell'agenzia.
Accanto ai tagli, ci sono poi gli incentivi diretti all’industria dei combustibili fossili, tra cui il carbone, un settore soppiantato dal gas naturale, molto più economico, e dalla rapida crescita delle energie rinnovabili.
Nonostante sia il combustibile fossile che più di tutti produce emissioni di CO2, Trump ha firmato ai primi di aprile alcuni ordini esecutivi che hanno l’obiettivo di promuovere l’industria del carbone.
E l’Europa? La guerra dei dazi e il Green Deal
Sul nuovo indirizzo dato alle politiche industriali ed energetiche negli Stati Uniti, si innestano i dazi più volte annunciati e ritirati e poi nuovamente riproposti in una sorta di guerra commerciale nei confronti degli altri paesi più volte brandita da Trump. E qui arriva l’Europa, e in particolare il Green Deal europeo.
A fine febbraio Trump aveva annunciato di voler imporre dazi del 25 per cento sulle auto e altri beni, tra cui acciaio e alluminio, importati dall’Ue. Bruxelles aveva prima pensato a delle contromisure e aveva poi proposto agli Stati Uniti di eliminare reciprocamente i dazi su auto e beni industriali. Questa proposta è stata però respinta da Trump che ha invece rilanciato sostenendo che l’unico modo per ottenere una tregua commerciale sarebbe stato l’acquisto di 350 miliardi di dollari in combustibili statunitensi, in particolare gas naturale liquefatto (GNL).
Perché Trump ha fatto questa richiesta e ha imposto dazi del 25 per cento all’Ue sui beni industriali e sulle auto considerato che già il 50 per cento del GNL europeo proviene dagli USA.? L’Europa si stava già autonomamente rivolgendo a loro per sostituire le forniture russe e con gli Stati Uniti non c’era uno squilibrio (il 3 per cento) tale da giustificare una guerra commerciale.
Il vero obiettivo è un’altro: minare il Green Deal europeo. Come mette in evidenza un’analisi del think tank ECCO, più del 50 per cento dell’export commerciale americano in Europa riguarda prodotti fossili dal cui utilizzo l’Ue e gli stati di tutto il pianeta si stanno disimpegnando dopo gli accordi sul clima di Parigi del 2015 (dai quali gli USA si stanno nuovamente sfilando).
Attraverso il Green Deal, l’Ue si sta rendendo indipendente dalle fonti fossili e sta costruendo la propria indipendenza, sicurezza energetica e competitività.
Basti pensare che nel solo settore della produzione elettrica, dall’implementazione del Green Deal nel 2019, le rinnovabili hanno permesso di evitare importazioni di combustibili fossili per 59 miliardi di euro. Per questo motivo il Green Deal rappresenta una seria minaccia per Trump e le politiche industriali ed energetiche che sta perseguendo negli Stati Uniti, già principali esportatori di GNL nel mondo, in nome del “drill, baby drill”.
L’obiettivo di Trump – spiega ECCO – è dunque imporre all’Europa di acquistare gas nel lungo periodo scongiurando che diventi indipendente dai combustibili fossili e si rivolga ad altri paesi, in prima battuta la Cina, che a differenza degli USA stanno sviluppando la transizione energetica e stanno diventando dominanti nel mercato delle fonti di energia pulita.
In questo contesto, sarà importante capire cosa farà l’Europa e quale ruolo avrà l’Italia che, negli anni del governo Meloni, ha più volte affermato di voler puntare sul Gnl e di voler fare dell’Italia un hub energetico del gas.
Da parte dell’Ue, le parole del commissario europeo per l’Energia Dan Jørgensen, pur manifestando un interesse per l’acquisto di Gnl americano, sembrano non lasciare spazio a un disimpegno da Green Deal che oggi, scrive ancora ECCO, “rappresenta una leva strategica per rafforzare la competitività europea e italiana, promuovendo l’innovazione nei processi produttivi, nei prodotti e nella gestione efficiente dell’energia”. Abbandonare il Green Deal significa ancorarsi a modelli economici superati, legati ai combustibili fossili, e “allinearsi alle politiche di Trump, che puntano a preservare in maniera manifesta unicamente interessi di parte”.
“The great climate disconnect”
“Il ritorno di Trump dovrebbe rappresentare un impulso per rilanciare il Green Deal europeo e spingere l’Ue e gli Stati membri a superare le divisioni politiche e a unirsi intorno all'obiettivo della decarbonizzazione”, spiegano Simone Tagliapietra e Cecilia Trasi del think tank Bruegel.
Tuttavia, i segnali provenienti dai vari paesi europei non sono incoraggianti. Stiamo assistendo a una disconnessione sempre più profonda tra crisi climatica e le politiche messe in atto, riflette la giornalista del Financial Times, Pilitia Clark. Sembra che tutto il pianeta si sia messo d’accordo per mettere in pausa il contrasto al riscaldamento globale e le azioni necessarie per affrontare il cambiamento climatico, proprio mentre ogni anno è il più caldo di sempre e gli eventi meteorologici estremi continuano a intensificarsi.
Nella più grande economia europea, la Germania, il partito di estrema destra Alternativa per la Germania (AfD) ha avuto un grosso successo elettorale promettendo anche di abbattendo i parchi eolici, definiti “mulini a vento della vergogna”.
In Austria, il partito di estrema destra Övp ha incentrato la sua campagna elettorale su un ripensamento totale delle politiche climatiche. Il partito fa parte di Patriots for Europe, il terzo gruppo più grande del parlamento europeo, i cui leader di estrema destra hanno attaccato l'ideologia del “green deal” durante un comizio a Madrid.
La narrazione, portata avanti da questi gruppi, secondo cui le politiche verdi sono un onere per i lavoratori comuni, sta riscuotendo sempre più consenso. Lo abbiamo visto lo scorso anno con le proteste degli agricoltori nell’Europa centrale.
Nel frattempo, l'elenco delle aziende che ridimensionano i propri sforzi ecologici continua a crescere. Persino il gruppo energetico norvegese Equinor, che sette anni fa ha cambiato nome da Statoil per puntare sull'energia verde, ora prevede di aumentare la produzione di combustibili fossili e dimezzare la spesa per le energie rinnovabili.
Questo è lo scenario in cui si celebra il decimo anniversario dell'accordo di Parigi del 2015, il patto globale che dovrebbe accelerare le misure per rallentare il riscaldamento globale. “Perché sta succedendo tutto questo adesso? Cosa è cambiato dal 2020, quando aziende e paesi si stavano affrettando a sostenere politiche di azzeramento delle emissioni nette?”, si chiede Clark. “Non esiste una risposta univoca, ma non è un caso che la reazione contro le politiche climatiche sia emersa proprio nel momento in cui i governi hanno iniziato ad attuare le azioni necessarie per arrivare a emissioni zero nette”.
E il varco per i combustibili fossili si fa sempre più ampio e ghiotto.
