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Minacce, patteggiamenti e cause miliardarie: l’assedio di Trump ai media americani

29 Maggio 2025 6 min lettura

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Minacce, patteggiamenti e cause miliardarie: l’assedio di Trump ai media americani

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“Il Presidente rilascerà la sua scheda fitness? Sembra più in forma di quanto non sia mai stato”. È una domanda fatta a Karoline Leavitt, la portavoce della Casa Bianca, da Cara Castronuova, opinionista per LindellTV, media di proprietà di Mike Lindell, imprenditore che ha finanziato cause per ribaltare il risultato delle elezioni del 2020, nonché uno dei principali sostenitori della tesi infondata della vittoria di Trump a quelle elezioni. Il motivo per cui questa tv siede tra i corrispondenti ufficiali della Casa Bianca si trova nei cambiamenti che Donald Trump ha effettuato nella composizione dei giornalisti accreditati: sempre più infastidito dalle domande dei media tradizionali, con cui continua ad avere confronti aggressivi, ha selezionato a rotazione cosiddetti “new media” per assistere alle conferenze stampa. Questi provengono principalmente dalla galassia informativa a lui favorevole, piccole reti conservatrici o podcaster di destra, che fanno domande tendenti a rimarcare quanto il Presidente stia facendo un buon lavoro o, come nel caso citato, quanto sia in forma.

I primi cento giorni di presidenza Trump si sono caratterizzati, tra le altre cose, per un clima sempre più duro nei confronti dell’informazione: Trump ha vietato l’ingresso per mesi ad Associated Press alle conferenze stampa, perché la redazione aveva deciso di non cambiare il nome del Golfo del Messico in Golfo d’America, ha tagliato fondi governativi a radio che fornivano informazione libera in paesi autoritari, come Radio Free Europe e Voice of America, ha minacciato di togliere fondi pubblici a NPR e PBS, cioè i canali radiotelevisivi pubblici, ha citato in giudizio giornali e reti televisive per coperture non gradite. NPR ha deciso di citare in giudizio Trump, in virtù del fatto che starebbe violando il primo emendamento cercando di eliminare fondi per via del pensiero politico. NPR ha deciso di citare in giudizio Trump, in virtù del fatto che starebbe violando il primo emendamento cercando di eliminare fondi per via del pensiero politico. Nel caso di un colosso come ABC, che secondo molti esperti avrebbe potuto vincere in tribunale, la decisione è stata quella di patteggiare con l’amministrazione, per evitare un confronto duro. Alcuni proprietari dei giornali hanno deciso di porsi verso questa presidenza in modo opposto rispetto a come avevano fatto nel primo mandato: se il Washington Post, di proprietà del fondatore di Amazon Jeff Bezos, aveva inaugurato con le parole “Democracy dies in darkness” il primo quadriennio Trump, quest’anno ha dovuto ritirare l’endorsement verso Kamala Harris per volontà dell’editore stesso, che ha richiesto anche che la sezione opinioni si concentrasse soltanto “sulle libertà personali e il libero mercato”. Inoltre, è stato annunciato che Amazon produrrà un documentario sulla first lady, Melania Trump, con un budget di ben 40 milioni di dollari.

Nelle ultime settimane, un nuovo caso ha deteriorato i rapporti tra Trump e i media: il presidente ha infatti citato in giudizio la CBS, chiedendo la cifra esorbitante di 20 miliardi di dollari per via di una copertura a suo dire scorretta della campagna elettorale. Secondo la versione di Trump, il programma televisivo d’informazione “60 Minutes”, uno dei più visti dal pubblico americano, avrebbe volontariamente editato una risposta di Kamala Harris sull’invasione in corso a Gaza nel tentativo di migliorarla, dandole un vantaggio politico. Come analizzato da vari media, e riportato approfonditamente da John Oliver nell’ultima puntata di Last Week Tonight, Harris ha dato una risposta piuttosto lunga alla domanda dell’intervistatore. CBS, nel suo lavoro di editing, ha spezzato a metà la risposta, che ripeteva lo stesso concetto, peraltro piuttosto confuso, per due volte, e ne ha mandato in onda metà durante “60 Minutes” e metà durante un altro programma della rete, “Face the Nation”. Lo stesso Trump, che per questo fatto ha citato in giudizio la rete, ne sarebbe venuto a conoscenza proprio perché avrebbe visto da un programma della stessa CBS i secondi tagliati dell’intervista.

CBS ha deciso di patteggiare, acconsentendo a pagare 16 milioni di dollari alla Presidential Library di Donald Trump e a rilasciare i verbali di ogni intervista futura a possibili candidati alla presidenza degli Stati Uniti. Come per il caso di ABC, molti legali hanno detto che la causa non avrebbe avuto alcun merito, e che quindi CBS avrebbe vinto in tribunale: nonostante questo la rete ha deciso di acconsentire alle richieste della presidenza, dopo che il produttore esecutivo del programma, Bill Owens, si è licenziato adducendo una mancanza di indipendenza giornalistica. Anche la CEO di CBS News, Wendy McMahon, ha lasciato la rete, rivendicando un mancato supporto del network. Nei primi accordi per un possibile patteggiamento sembrava prevista anche una scusa formale di CBS per come è stata mandata in onda l’intervista; scuse che, però, i giornalisti del programma non avevano nessuna intenzione di fornire all’amministrazione, e che alla fine sono state espunte dall’accordo finale.

Perché CBS ha deciso di patteggiare, nonostante l’esempio di ABC, che ha adottato la stessa scelta mesi fa senza però migliorare il rapporto con la Casa Bianca? Una delle motivazioni, come viene spiegato sui giornali, ha a che fare con un'importante fusione di Paramount, il gruppo di cui CBS fa parte, con SkyDance Media. La fusione deve però essere preventivamente autorizzata dalla Federal Communications Commission (FCC), un’agenzia federale indipendente che ha un compito di sorveglianza e regolamentazione delle telecomunicazioni: tra le altre cose, approva le fusioni e ha la facoltà di revocare le licenze di trasmissione alle reti. Da quando è tornato al potere, Trump ha posto a capo dell’agenzia Brendan Carr, un avvocato suo sostenitore che ne fa parte dal 2017. Ancora nel 2021, Carr riteneva che “il modo in cui una redazione sceglie di seguire una storia dev’essere fuori dalla portata di qualsiasi ufficiale governativo”. Oggi, però, ritiene che i democratici abbiano eliminato l’imparzialità al governo, utilizzando il potere come un’arma contro il conservatorismo e proprio per questo verrà adesso dato maggior risalto al pensiero conservatore. Carr ha iniziato una formale indagine contro l’intervista di “60 Minutes” per cui lo stesso Trump ha fatto causa, e Anna Gomez, avvocata che Biden ha scelto come membro di FCC durante la sua presidenza, ha detto che staremmo assistendo a un’agenzia indipendente che sta diventando uno strumento di censura politica. Proprio la possibilità che Carr non approvi la fusione fa sì che CBS abbia voluto evitare uno scontro aperto con l’amministrazione nonostante le ampie possibilità di vincere, avendo preferito un patteggiamento, piegandosi a richieste che dovrebbero essere irricevibili da un media libero. Il mese scorso, la Freedom of the Press Foundation ha mandato una lettera di avvertimento a Paramount, che controlla CBS, facendo sapere che li avrebbe citati in giudizio nel caso avessero deciso di accordarsi con Trump, in quanto le aziende non dovrebbero accordarsi con chi ha l’obiettivo di distruggere le garanzie del Primo emendamento. Anche tre senatori, Elizabeth Warren, Bernie Sanders e Ron Wyden, hanno scritto che si sarebbero accodati. A oggi, la Freedom of the Press Foundation sta valutando quali sono le sue opzioni legali per poter procedere.

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Intanto, come riscontrato dal Comitato per la Protezione dei Giornalisti (CPJ), organizzazione indipendente con sede a New York che si occupa della difesa della libertà di stampa, il clima si fa sempre più pesante: da un lato, cause intentate a scopo intimidatorio e un’agenzia federale indipendente che sta diventando sempre più partigiana, dall’altro un atteggiamento minaccioso del presidente verso i giornalisti che dialogano con lui. I media tradizionali vengono additati apertamente come “fake news” e nemici del popolo, contribuendo a un clima sempre più ostile tra i sostenitori di Trump e il mondo dei media. In una lettera aperta firmata da varie associazioni, tra cui la stessa CPJ e la American Civil Liberties Union (ACLU) viene scritto che “quando un’istituzione si piega, tutti sono più pressati a fare lo stesso” e che la compressione dei diritti garantiti dal primo emendamento alla costituzione è una compressione della democrazia stessa.

“I giornalisti sono sempre i primi a essere attaccati quando la democrazia declina, e non è il tempo di essere compiacenti o minimizzare questi comportamenti”, ha affermato la Ceo di CPJ, Jodie Ginsberg. “Se lasciamo che le cose anormali diventano normali, molte libertà saranno sempre più a rischio, indipendentemente dalla nostra idea politica”.

 

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