Netanyahu è diventato il principale ostacolo per i piani e gli interessi di Trump in Medio Oriente
11 min letturaA ridosso dell’inizio del secondo mandato presidenziale di Donald Trump, avevamo evidenziato come, durante la sua prima presidenza, i rapporti con Netanyahu e più in generale tra Stati Uniti e Israele fossero stati più di forma che di sostanza e con una conclusione non brillante.
A dispetto dei precedenti, durante la campagna per le presidenziali USA del 2024, Trump e Netanyahu sembravano aver inaugurato una nuova stagione nei loro rapporti: stavolta all’insegna di un’intesa più stabile e collaborativa.
L’incontro a Mar-a-Lago del luglio 2024 è apparso come un deciso riavvicinamento. In assenza di endorsement pubblici durante le Presidenziali USA 2024 da parte del premier israeliano, per una sua storica politica di equidistanza verso le candidature alla Casa Bianca, sono arrivati quelli dei suoi alleati di governo di estrema destra, il sionista religioso Bezael Smotrich e Itamar Ben Gvir. Il sigillo a questa nuova fase politica è sembrato arrivare con le congratulazioni immediate ed entusiaste di Benjamin Netanyahu, nelle ore successive all’elezione di Trump.
Nei giorni immediatamente successivi, questo ipotizzato allineamento sembrava aver trovato una concretizzazione nella definizione di uno staff presidenziale che, come probabilmente mai nella storia degli Stati Uniti, incarna nelle sue posizioni chiave tutte le sfumature politiche della vicinanza a Israele, fino alle più estreme.
Di cosa parliamo in questo articolo:
“Fai quello che devi fare”
Il "Do what you have to do" (“fai quello che devi fare”) rivolto poco prima delle elezioni presidenziali da Trump a Netanyahu non lascia adito al minimo dubbio: vuole una risoluzione dei conflitti in corso - Gaza e Libano - prima del suo insediamento.
In campagna elettorale si è proposto con grande chiarezza come un pacificatore, con una particolare enfasi su Medio Oriente e Ucraina.
Netanyahu raccoglie l’invito. A metà gennaio, pochi giorni prima dell’insediamento di Trump, finalmente dà seguito al Piano Biden portandone a compimento parte della Fase 1 a fine febbraio 2025.
Per arrivare a questo primo risultato, Netanyahu passa attraverso un durissimo braccio di ferro con gli alleati di destra con tanto di sceneggiata di Itamar Ben Gvir, che si dimette dalle sue cariche di governo, ritira i suoi ministri e con i suoi deputati di Otzma Yehudit si limita all’appoggio esterno. Rientrerà due mesi dopo, quando Netanyahu di fatto si limita allo scambio tra detenuti palestinesi e ostaggi israeliani e al ritiro dai centri abitati dell’esercito.
L'ingresso di aiuti umanitari per la popolazione civile palestinese continua a essere bloccato, così come continua a essere impedito il ritorno della popolazione palestinese. Questi due passaggi mancanti costituiscono un chiaro e disumano strumento di pressione verso Hamas, sfruttando lo scontento dei gazawi nella gestione delle trattative con Israele per la liberazione degli ostaggi.
Le rotture tra Trump e Netanyahu
La reticenza da parte del premier israeliano nel portare a compimento già la prima fase del piano di pace viene interpretato da Donald Trump come un mancato ascolto del suo invito ad andare speditamente verso la risoluzione del conflitto a Gaza Di conseguenza, mentre Netanyahu è sempre di più alle prese con vecchi e nuovi problemi, Trump opera la prima, grave cesura con le istituzioni israeliane. A Doha, infatti, l’inviato presidenziale speciale per gli affari degli ostaggi Adam Bohler apre un canale alternativo di trattativa segreta con Hamas. Adam Bohler, va ricordato, non è uno sconosciuto a Doha: insieme a Jared Kushner, genero di Donald Trump, ha partecipato attivamente a tutti gli incontri diplomatici in Medio Oriente e nei paesi del Golfo per arrivare agli "Accordi di Abramo".
Rispetto alla trattativa in corso, consapevole dell’atteggiamento del governo israeliano, indeciso e balbettante per le sue contraddizioni interne, ha un atteggiamento deciso. Così deciso da arrivare a trattare con i mediatori di Hamas il numero dei detenuti palestinesi da liberare in cambio degli ostaggi, tenendo all'oscuro i mediatori israeliani. Di fronte alla reazione diplomatica di Israele, dichiara che "gli Stati Uniti non sono agenti di Israele".
Anche se poi Adam Bohler fa un passo indietro, più formale che sostanziale, Hamas capisce di poter stabilire trattative dirette con quell’amministrazione americana che, nonostante dal 1997 l’abbia inserita nella lista delle "Foreign Terrorist Organizations" (FTO), ora l’ha elevata al rango di interlocutrice politica. Uno smacco politico assoluto per Israele che si limita ad una sorta di silenzio stampa.
Dai primi di marzo, e nelle settimane successive, il governo israeliano è alle prese con l’esplosione del Qatargate a cui si affianca il faticoso percorso di approvazione della Legge di Bilancio, al cui superamento è legata la sopravvivenza del parlamento e dell’esecutivo per la legislazione vigente nel paese. Il percorso di approvazione si complica per la minaccia delle fazioni degli Haredim di non approvare la legge. Alla base di questa intimidazione c'è la richiesta di ottenere maggiori stanziamenti per le loro scuole religiose e una legge che esenti i loro giovani dagli obblighi di leva.
Sempre in marzo esplode la polemica per il controverso licenziamento del capo dello Shin Bet Ronen Bar, che aveva avviato l’indagine sul Qatargate, a cui segue la sospensione a fronte del suo ricorso da parte dell’Alta Corte. Il tutto finisce con le dimissioni di Bar, che però lascia al vertice del sistema giudiziario israeliano la decisione ultima se ai governi sia consentito interferire sui ruoli di chi conduce delle indagini sui politici in un evidente conflitto di interessi.
I primi di aprile arriva l’ulteriore strappo da parte dell’amministrazione Trump. Stavolta in ambito economico, all’interno del Liberty Act. A Israele sono infatti imposti dazi del 17% nonostante qualche tempo prima, unilateralmente, l’esecutivo di Gerusalemme avesse deciso di azzerare completamente i dazi sui prodotti USA.
Di fronte a Netanyahu, volato a Washington per incontrarlo, Trump, sottolineando che Israele riceve quattro miliardi di dollari all'anno in aiuti militari, avrebbe detto con lo stile che gli è proprio: "È tanto. Congratulazioni, A proposito, è un bel risultato". Pur essendo uno stanziamento molto alto, Israele deve spenderne il 73,7% per sistemi d’arma prodotti da industrie militari USA. Il Memorandum of understanding, stipulato sotto l’amministrazione Obama, consente di spendere solo il 26,3% in sistemi d’arma di produzione nazionale andando a costituire un consistente finanziamento alle industrie belliche statunitensi.
Sempre nello stesso incontro, dopo avere respinto ogni ipotesi di revoca dei dazi ad Israele, Trump esprime frustrazione per la posizione intransigente del premier israeliano sulla guerra a Gaza e la creazione di uno Stato palestinese lanciando un chiaro messaggio di come Israele dovrebbe allinearsi maggiormente alla sua agenda politica per la regione. Consumando un'ulteriore strappo rispetto ai taciti patti iniziali, annuncia anche che erano già in corso trattative dirette sul nucleare iraniano, senza Israele.
Ormai questo progressivo riposizionamento e ridimensionamento dei rapporti con il suo storico alleato regionale è scandito dalla cronaca di queste ultime settimane.
In questo ultimo mese Israele ha assistito a decisioni statunitensi repentine e inaspettate: dalla tregua stabilita con i terroristi di Ansar Al Allah in Yemen, mentre un missile balistico di fabbricazione iraniana da loro lanciato sfiorava di un soffio l’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv, al piano umanitario lanciato da Trump per gli abitanti di Gaza che relega Israele a un ruolo marginale di sicurezza.
La liberazione - sempre attraverso una trattativa separata tra gli USA e Hamas - dell’ostaggio israelo-americano Edan Alexander ha costituito l’ennesimo smacco per l’esecutivo israeliano. All’esclusione dei mediatori israeliani si è aggiunta la notizia che sono state utilizzate in questa azione di "diplomazia non convenzionale" due figure decisamente invise a Israele.
La prima è di Bishara Bahbah. Giornalista e docente universitario, ha promosso il comitato elettorale "Arab Americans for Trump". Nonostante fosse inizialmente registrato come elettore democratico, con la sua azione politica ha contribuito ad orientare il voto degli elettori arabo-americani in uno stato chiave, il Michigan, che ospita la comunità musulmana più numerosa degli Stati Uniti e dove Trump ha battuto di misura la Harris.
A rendere Bishara Bahbah inviso sia alla comunità ebraica americana che al governo israeliano sono stati diversi messaggi sui social e le sue analisi ritenute unilateralmente critiche verso Israele pubblicate dal quotidiano Haaretz.
La seconda figura è Suha Arafat, la vedova di Yasser Arafat. Ha agito da intermediaria tra gli Stati Uniti e Hamas e ha facilitato il primo contatto di Bahbah con l’alto funzionario di Hamas, Ghazi Hamad. Personalità estremamente controversa anche nel mondo palestinese, in Israele Suha Arafat è percepita come un’arrampicatrice sociale, nonché fruitrice ultima della presunta sottrazione da parte del marito dei fondi, anche israeliani, previsti dagli Accordi di Oslo e destinati ai civili palestinesi.
Pur ininfluente dal punto di vista meramente politico, resta comunque una risorsa per la sua rete di contatti estremamente trasversali, come ha dimostrato in questa trattativa, con i vertici delle principali fazioni palestinesi.
Le ambizioni di Trump
Le ambizioni regionali del Presidente degli Stati Uniti sono note. La più velleitaria è sostenere la narrazione da lui molto amata di "Trump il pacificatore". Far aderire l’Arabia Saudita agli Accordi di Abramo, oltre ad assecondare questo desiderio, getterebbe le basi per dare sostanza alla mai celata aspirazione di vedersi conferire il Nobel per la pace. Ma è l’ambizione più residuale, a dispetto delle menzioni pubbliche.
Molto più concreta è l’ambizione di voler controbilanciare la crescente influenza della Cina che sta adottando una strategia di espansione nell’area in comparti economici dove c’è una competizione molto forte con gli USA, come la sicurezza e high tech.
Soprattutto nel settore dell’alta tecnologia- che spesso vede delle joint venture con gli Stati Uniti - il ruolo di Israele all’interno degli Accordi di Abramo ha un peso non indifferente dato il vasto patrimonio di conoscenze e pratiche sviluppato nel tempo dal comparto industriale.
Poi ci sono gli interessi strettamente economici per gli Stati Uniti. Quello che le cronache ci stanno riportando in questi giorni attesta il successo del recente tour negli Stati arabi del Golfo Persico: dai 600 miliardi di dollari di investimenti sauditi ai 1.200 miliardi di dollari in Qatar.
Ma ciò che, ancora una volta, sembra essere stato poco chiaro, in primo luogo a Netanyahu, è che il nuovo corso delle relazioni diplomatiche statunitensi è guidato da due sottintesi invalicabili, anche a livello di metodo.
Il primo è "America first", ovvero la variabilità del sostegno americano in base agli interessi nazionali. Il secondo è "...and also Donald Trump", ovvero la variabilità del suo impegno pro o contro gli attori regionali in base agli interessi della Trump Organization nell’area.
Le attività della multinazionale del Presidente degli Stati Uniti d'America nei Paesi del Golfo Persico rappresentano infatti un potenziale conflitto di interessi. Negli Stati Uniti, però, non esiste una legge federale che impone al Presidente di creare un blind trust per evitare conflitti di interesse, ma dal 1970 questa pratica era stata adottata da tutti gli inquilini della Casa Bianca per trasparenza verso i cittadini.
Trump, in occasione del suo primo mandato, ha nominato i due figli, Donald Jr ed Eric, amministratori fiduciari della Trump Organization interrompendo questa prassi per la prima volta. Condotta reiterata anche per questo secondo mandato, sollevando così tutti i dubbi del caso. Ma per comprendere meglio quanto questo conflitto di interessi sia incisivo nei processi decisionali politici di Donald J.Trump, va valutato l’aspetto qualitativo.
I dati quantitativi, del resto, parlano chiaro. Solo di progetti immobiliari che vedono coinvolta la Trump Organization in Arabia Saudita tra realizzati, pianificati e realizzati abbiamo tre progetti: La Trump Tower di Jeddah, un grattacielo residenziale-alberghiero di 47 piani dal valore di 530 milioni di dollari; il Golf Community Riyadh, progetto di resort golf di lusso di cui si stima un valore di 2,6 miliardi di dollari; la pianificata Trump Tower Riyadh il cui valore non è stato dichiarato.
Se guardiamo al Qatar, troviamo il Trump International Golf Club & Villas, parte del mega-resort Simaisma. Comprende campo da golf e ville di lusso per un valore complessivo di 5.5 miliardi di dollari. In Oman vediamo l’AIDA Resort (Trump International Oman) complesso turistico con hotel, villini Trump-branded e campo golf per un valore di quattro miliardi di dollari.
Infine, negli Emirati Arabi Uniti abbiamo il Trump International Golf Club Dubai, un campo da golf e complesso residenziale, la Trump Tower Dubai, un grattacielo da 80 piani con hotel e residenze di lusso, e la Trump Tower Abu Dhabi. Di questi progetti si conosce solo il valore della Trump Tower Dubai, pari a 600 milioni di dollari. In tutti questi progetti le quote della Trump Organization nel progetto non sono dichiarate.
Ma queste cifre, seppur esorbitanti, non sono sufficienti a spiegare quanto questo conflitto di interessi sia incisivo.
Tranne che negli Emirati Arabi Uniti, non c’è progetto regionale della Trump Organization che non sia in partnership con la Dar Al Arkan, o con la sua filiale internazionale Dar Global, che ha dei fortissimi legami con i progetti della famiglia reale saudita. Inoltre a livello locale, si uniscono realtà pubbliche come l’OMRAN (Oman Tourism Development Company) o la Qatari Diar una società immobiliare statale.
Ci troviamo quindi di fronte a una storia molto articolata, oramai quasi ventennale, di un rapporto consolidato tra un imprenditore e le istituzioni dei paesi del Golfo Persico che non può essere ignorata nella valutazione delle scelte diplomatiche di Trump.
Netanyahu è diventato il principale ostacolo per i piani e gli interessi di Trump in Medio Oriente
Considerando questo nuovo scenario, rimanere ancorati a visioni etiche e politiche del passato per comprendere il presente e ipotizzare il futuro delle relazioni tra l’amministrazione USA e Israele significa porsi su un piano di lettura decisamente falsato.
Tutto passa attraverso l’adesione dell’Arabia Saudita agli Accordi di Abramo. La precondizione posta dai sauditi per la normalizzazione dei rapporti con Israele è entrare concretamente nel merito della questione palestinese partendo da una loro proposta formalizzata nel 2002: l’Iniziativa di pace araba.
Ufficialmente proposta dalla Lega Araba, è di fatto un’iniziativa saudita che si può sintetizzare in alcuni passaggi chiave: il ritorno pragmatico di Israele entro i confini del 1967 e la creazione di uno Stato palestinese in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. Una proposta perfettibile ma molto vicina ad altri piani di pace discussi anche in maniera molto approfondita in passato.
Un tema che non è più posponibile o eludibile, anche per il futuro di Israele. L’ostinazione del governo Netanyahu nel rigettare una qualsiasi soluzione alla questione palestinese, sia contingente che in prospettiva, appare sempre di più fuori dalla realtà. Anche rispetto al volere degli israeliani.
Secondo un sondaggio diffuso lo scorso marzo, quasi il 70% dei cittadini vuole il cessate il fuoco e il ritiro da Gaza. Qualche giorno fa un altro sondaggio ha evidenziato una netta preferenza (67%) per la normalizzazione dei rapporti con l’Arabia Saudita e l’adesione agli Accordi di Abramo con tutto ciò che comporta.
Restano molte incognite. Dopo il 7 ottobre, il paese oscilla tra rabbia e paura nei confronti della controparte palestinese. A ciò si aggiunge l’inquietudine per l’ulteriore mossa di Trump, che ha rimosso le sanzioni alla Siria: fino a meno di un anno fa era un proxy iraniano, mentre oggi presenta un governo dai contorni poco chiari.
Inoltre, la trattativa in corso tra l’amministrazione Trump e l’Iran sul nucleare, vista la facilità con cui vengono fatte concessioni per arrivare al risultato desiderato come in Siria, è vista con diffidenza.
Ma c’è da registrare comunque una netta controtendenza dell’opinione pubblica israeliana rispetto all’atteggiamento del suo esecutivo, che si regge soltanto su un’ostinata maggioranza parlamentare. Il paese è esausto e vuole altro. Mentre Netanyahu si prepara per l’ennesima invasione di terra a Gaza, sempre meno riservisti si stanno presentando ai loro reparti di appartenenza, rendendo incerta la fattibilità delle operazioni.
Di certo però c’è un elemento: l’amministrazione Trump, non tollererà intoppi lungo il percorso che ha intrapreso, e questo comprende Netanyahu e i suoi alleati. Gli strumenti per forzare la mano non mancano, a partire dalla programmata rinegoziazione del Memorandum of Understanding con Israele nel 2026, per finire a quanto più temuto in questi giorni: il riconoscimento unilaterale di uno Stato palestinese.
(Immagine anteprima: frame video via YouTube)
