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Referendum cittadinanza: perché Sì

30 Maggio 2025 9 min lettura

Referendum cittadinanza: perché Sì

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L’8 e il 9 giugno i cittadini italiani residenti in Italia e all’estero sono chiamati a votare per il referendum abrogativo su cittadinanza e lavoro. Il quesito probabilmente più dibattuto è proprio quello relativo alla cittadinanza. La proposta di abrogare un requisito relativo alla domanda di cittadinanza italiana è stata promossa da una coalizione di novantadue associazioni per i diritti civili insieme a otto partiti di opposizione; l’iniziativa ha raccolto oltre 637.485 firme in modalità telematica, superando la soglia necessaria per indire un referendum abrogativo. Perché il risultato del referendum sia valido almeno il 50% più uno degli aventi diritto al voto dovrà recarsi alle urne. 

È la prima volta in Italia in cui la votazione popolare permette ai cittadini italiani di esprimersi direttamente sulla legge che regola l'acquisizione della cittadinanza. L’oggetto del quesito è l’acquisizione dello status di cittadino per naturalizzazione o per residenza e propone di ridurre da 10 a 5 anni il periodo di residenza legale richiesto agli stranieri extra-UE per richiedere la cittadinanza italiana. 

La legge attuale sulla cittadinanza 

Il termine cittadinanza si può definire come il rapporto tra un individuo e lo stato ed è lo strumento che permette il godimento pieno dei diritti civili e politici. L’attuale normativa italiana è stata promulgata nel 1992 e si fonda in buona parte sul principio dello ius sanguinis, cioè il diritto di acquisire la cittadinanza per discendenza diretta, indipendentemente dal luogo di nascita. Di conseguenza, chi nasce in Italia da genitori stranieri non è automaticamente cittadino italiano. La cittadinanza si può acquisire automaticamente per nascita, se si è figli di almeno un cittadino italiano o di genitori ignoti o apolidi, per acquisto volontario vale a dire se si è discendenti da cittadino italiano fino al secondo grado, per matrimonio o per naturalizzazione. Tra i requisiti previsti per ottenere la cittadinanza per naturalizzazione vi è la residenza legale e continuativa in Italia per almeno dieci anni. Il quesito referendario modificherebbe la disciplina di quest’ultima ipotesi. 

A differenza di molti altri paesi europei, l’Italia non ha mai adottato una legge sullo ius soli, considerato un modello più equo e moderno per riconoscere la cittadinanza ai figli di persone straniere nate sul territorio. L’ordinamento resta ancorato a una logica etnico discendente. Recentemente, il dibattito politico ha preferito concentrarsi su formule più caute come lo ius scholae, che legherebbe il riconoscimento della cittadinanza a un percorso scolastico svolto in Italia. Una proposta meno divisiva, che evita lo scontro simbolico legato allo ius soli, mai realmente discusso in Parlamento. Lo stesso termine è stato spesso rimosso dal linguaggio politico istituzionale, sostituito da formulazioni più neutre, per timore di reazioni negative da parte dell’opinione pubblica e del fronte conservatore, che utilizza la propaganda per sfruttare la cittadinanza come una leva identitaria. 

L’impianto giuridico su cui si basa la legge del 1992, e l’immobilismo della politica, sono stati più volte criticati perché non aver tenuto conto dell’evoluzione demografica e sociale del paese, caratterizzata da una presenza crescente di seconde generazioni, giovani nati e cresciuti in Italia, ma giuridicamente considerati stranieri. Alcuni aggiornamenti minori sono stati introdotti nel tempo, ma il quadro normativo di base resta quello definito nel 1992. Osserva la filosofa albanese Lea Ypi che lo status di cittadino “distingue tra chi ha accesso pieno alla democrazia e chi no”, e in questo senso, escludere qualcuno dalla cittadinanza significa escluderlo dalla possibilità di incidere sulle regole del gioco.

Le conseguenze dell’abrogazione referendaria

Secondo una stima del Centro Studi e Ricerche IDOS, l’approvazione del quesito referendario sulla cittadinanza potrebbe avere un impatto significativo: oltre un quarto degli stranieri regolarmente residenti in Italia acquisirebbe il diritto a diventare cittadino italiano. In termini assoluti, si parla di circa 1 milione e 420 mila cittadini non comunitari che, in caso di riforma, potrebbero ottenere la cittadinanza e, con essa, tutti i diritti civili, politici e sociali connessi. Dal calcolo vanno esclusi i cittadini di paesi che non riconoscono la doppia cittadinanza, come l’Ucraina e alcuni stati asiatici.

Ottenere la cittadinanza italiana significa avere pieno accesso alla vita democratica e istituzionale del paese: il diritto di voto attivo e passivo alle elezioni politiche, la possibilità di partecipare ai concorsi pubblici, lavorare nella pubblica amministrazione, e fruire senza restrizioni delle prestazioni sociali, sanitarie e previdenziali. Comporta inoltre maggiore stabilità giuridica e protezione consolare da parte dello Stato italiano all’estero.

Come spiega Paolo Bonetti, professore di diritto costituzionale e pubblico all’Università Milano-Bicocca, l’effetto diretto dell’abrogazione sarebbe l’accorciamento dei tempi minimi di residenza richiesti per accedere alla cittadinanza. Gli stranieri extra-UE che oggi devono attendere almeno 10 anni prima di poter presentare domanda, in caso di vittoria del sì potrebbero farlo dopo 5 anni di residenza legale. Considerando i tempi medi di lavorazione della domanda – circa 3 anni – si passerebbe quindi da un’attesa di 13 anni a un iter di circa 8 anni.

Questa modifica porterebbe anche a una maggiore coerenza normativa: il requisito dei 5 anni diventerebbe quello di riferimento generale, già applicato ad alcune categorie come gli apolidi, i rifugiati e gli stranieri maggiorenni adottati da cittadini italiani. Inoltre, molti cittadini stranieri già oggi possono richiedere il permesso di soggiorno di lungo periodo (oltre 2 milioni, secondo IDOS), ma si tratta di uno status meno stabile della cittadinanza, da rinnovare ogni dieci anni e privo di diritti politici.

Un altro punto centrale riguarda i figli minori. Secondo Gianfranco Schiavone, giurista e membro del comitato d’onore del referendum, l’approvazione del quesito rappresenterebbe “un passaggio fondamentale per riconoscere il pieno inserimento sociale, culturale e linguistico dei minori cresciuti in Italia, anche se non nati nel p aese”. Come previsto dall’art. 14 della legge n. 91/1992, i figli minori conviventi con un genitore che ottiene la cittadinanza italiana ne diventano automaticamente titolari. Con la riduzione dei tempi per i genitori, anche i figli minori potrebbero ottenerla in tempi dimezzati rispetto a oggi. “Si supererebbe così – afferma Schiavone – un’anomalia storica del nostro ordinamento, che di fatto penalizza migliaia di giovani perfettamente integrati nel contesto italiano”.

Oltre agli effetti pratici, una vittoria del sì rappresenterebbe anche un cambio di paradigma culturale. “Non si tratterebbe più di una cittadinanza legata al sangue o alla discendenza, sottolinea ancora Schiavone, ma fondata sull’inserimento reale nella società e sulla partecipazione alla vita democratica”. Questa prospettiva avvicinerebbe l’Italia a molti altri paesi europei con una forte presenza migrante, come Francia, Germania, Paesi Bassi, Svezia, Portogallo, Irlanda e Lussemburgo, dove il tempo di residenza richiesto è già di 5 anni o meno. L’Italia, al contrario, resta oggi tra gli Stati più restrittivi d’Europa.

Gli altri requisiti per chiedere la cittadinanza 

Tuttavia, nonostante gli effetti positivi che una vittoria del sì potrebbe significare per i diritti delle persone straniere residenti in Italia da anni, i requisiti per l’ottenimento della cittadinanza italiana restano rigidi e in parte obsoleti. L’intero iter può durare tre o quattro anni, a fronte di un termine massimo di 24 mesi previsto dalla legge. Le condizioni richieste includono l’assenza di condanne penali, la conoscenza della lingua italiana, un livello adeguato di integrazione nel territorio, ma soprattutto un reddito sufficiente. Quest’ultimo criterio, sottolinea IDOS, rappresenta un ostacolo significativo perché “sulla base dei dati Istat relativi alla popolazione a rischio di povertà ed esclusione sociale, anche in caso di esito favorevole del referendum, fino a 700.000 stranieri residenti potrebbero non soddisfare il requisito economico”.

Il requisito del reddito per la richiesta della cittadinanza prevede che il richiedente dimostri di aver percepito un reddito annuo minimo (attualmente pari a circa €8.263,31 per singoli, o €11.362,05 per coniugati, con incrementi per ogni figlio a carico) nei tre anni precedenti alla domanda, attraverso un lavoro con contratto regolare. In un mercato del lavoro segnato dalla precarietà, questa condizione si rivela particolarmente ostica per molti cittadini stranieri, spesso impiegati in settori informali, come il lavoro domestico, l’agricoltura sotto caporalato o costretti alla disoccupazione. 

Questa impostazione riflette ancora l’idea che la cittadinanza debba essere meritata, anche dopo anni di residenza, studio o contributo al paese. Gli attuali strumenti come i decreti flussi o le sanatorie per l’emersione del lavoro irregolare, pur promossi dai governi come vie per la regolarizzazione, producono risultati molto limitati: le domande accolte sono poche e le persone straniere restano spesso esposte a truffe e abusi. In un contesto in cui buona parte dei lavoratori stranieri in Italia si trova in condizioni di occupazione instabile o irregolare, il vincolo reddituale rappresenta l’ennesima barriera strutturale all’accesso alla cittadinanza.

Uno degli elementi centrali della normativa è la residenza continuativa in Italia per un determinato periodo di tempo. Tuttavia, in Italia molti stranieri regolari vivono in condizioni di precarietà abitativa, il che rende difficile l’ottenimento o il mantenimento della residenza anagrafica, compromettendo l’accesso alla domanda. Non riuscire ad avere un contratto di affitto regolare, vivere in un’occupazione o trascorrere un periodo di tempo senza fissa dimora. Un passo avanti in questo senso è stato compiuto con un’ordinanza del Consiglio di Stato, che ha stabilito la validità, ai fini della richiesta di cittadinanza, anche della residenza in cosiddette vie fittizie — indirizzi inesistenti fisicamente, ma utili per garantire l’accesso a servizi fondamentali come il medico di base, un contratto di lavoro o il rilascio della carta d’identità.

Il requisito dell’assenza di condanne penali, pur potendo apparire legittimo, si inserisce in un più ampio margine di discrezionalità amministrativa legato alla valutazione della cosiddetta "pericolosità sociale" dello straniero che richiede la cittadinanza. In assenza di automatismi, anche reati di lieve entità possono, in alcuni casi, compromettere l'esito del procedimento, determinandone il rigetto o la sospensione. A tutto questo si aggiunge il costo della procedura, recentemente aumentato fino a un massimo di 600 euro a persona. Una cifra che, come evidenziato dal rapporto, contribuisce a trasformare il diritto alla cittadinanza per naturalizzazione in “un diritto di fatto limitato, soggetto a una forma di discriminazione indiretta basata sul reddito”.

La questione economica dietro alla cittadinanza italiana, scrive Lea Ypi nel suo ultimo libro Confini di classe, è il sintomo che oggi essere cittadini di un paese, con tutti i diritti connessi, primo tra tutti il diritto di voto, rimane un privilegio economico. Il referendum potrebbe aprire la strada verso una concezione più aperta e contemporanea della cittadinanza, come strumento di accesso alla giustizia sociale. 

La disinformazione e la propaganda della maggioranza di governo

A Roma si è tenuta una maratona contro l’astensionismo, una protesta indirizzata non solo contro gli esponenti della maggioranza di governo che hanno apertamente invitato i cittadini a non votare, ma anche contro l'insufficiente copertura informativa offerta dalle reti televisive pubbliche. Secondo diversi manifestanti intervistati da VD News, è evidente, ad esempio, la volontà della Rai di non approfondire i contenuti dei quesiti referendari.

Diverse testate hanno spiegato le logiche dietro la strategia del non voto come mezzo per far mancare il quorum e invalidare il referendum. Tuttavia, in questo caso la situazione sembra diversa, come spiega la giurista Vitalba Azzollini

“L’invito all’astensione, pur essendo legittimo, svilisce la sovranità popolare, che si esercita anche attraverso uno strumento di democrazia diretta come il referendum abrogativo. Chi promuove l’astensione, inoltre, evita di confrontarsi con il merito dei quesiti. Ma il popolo può dirsi costituzionalmente sovrano solo se pienamente informato”. 

Il rischio, nel caso italiano, è che la scelta di non recarsi alle urne non rappresenti un consapevole atto democratico, pur sempre legittimo, ma sia piuttosto il frutto della mancanza di informazione sui quesiti, dell’elevato tasso di disaffezione elettorale e del disinteresse verso temi cruciali come il lavoro e, soprattutto, i diritti delle persone straniere in Italia.

Il Consiglio dei Ministri, all’interno del cosiddetto “pacchetto cittadinanza” ha approvato un decreto-legge che prevede che gli italo-discendenti nati all’estero saranno automaticamente cittadini solo per due generazioni: solo chi ha almeno un genitore o un nonno nato in Italia sarà cittadino dalla nascita. Non solo, nella stessa sede, è stato approvato un primo disegno di legge con il quale si impone innanzitutto ai cittadini nati e residenti all’estero “di mantenere nel tempo legami reali con il nostro paese, esercitando i diritti e i doveri del cittadino almeno una volta ogni venticinque anni”. Ha dichiarato il Ministro degli Esteri Tajani che la cittadinanza è “una cosa seria” e va meritata. 

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In sostanza, il Governo ha scelto di non informare adeguatamente i cittadini sul referendum, forse proprio perché riguarda uno strumento potente: la possibilità, attraverso il voto popolare, di ampliare l’accesso ai diritti e migliorare la qualità della vita di centinaia di migliaia di persone straniere. Da sempre contrario a una riforma della cittadinanza, l’esecutivo ha difeso lo ius sanguinis e la natura concessoria della cittadinanza italiana, che resta un privilegio da ottenere e non un diritto da riconoscere. Il referendum rappresenta un ostacolo diretto alla narrazione secondo cui lo straniero è, per definizione, un estraneo da tenere ai margini.

Osserva Bonetti che più del 9% della popolazione residente non ha la cittadinanza italiana, pur contribuendo ogni giorno alla società. “A queste persone viene negata la possibilità di partecipare alle decisioni politiche del paese in cui vivono. [...] Perciò di fronte alla prolungata inerzia del Parlamento, è il corpo elettorale stesso che è oggi chiamato mediante questo referendum abrogativo ad esprimere direttamente la sua scelta su quale futuro assicurare al popolo italiano”.

 

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