Ridare dignità al lavoro in Italia: oltre i referendum
9 min letturaL’8 e il 9 giugno i cittadini e le cittadine saranno chiamati a esprimersi su quattro quesiti riguardanti il tema lavoro e precarietà e sul quesito riguardante il dimezzamento dei tempi per richiedere la cittadinanza italiana. Un quinto quesito riguarda invece il dimezzamento (da 5 a 10 anni) dei tempi di residenza legale per la richiesta di concessione della cittadinanza italiana da parte degli stranieri maggiorenni extracomunitari.
I partiti di governo stanno invitando i cittadini a non recarsi alle urne, vista la presenza del quorum. Il leader di Forza Italia e ministro degli Esteri, Antonio Tajani, ha espressamente dichiarato che non votare a un referendum è una scelta politica, in quanto sta ai cittadini ritenere se i quesiti referendari siano o meno importanti. Secondo Tajani, gli elettori del suo partito non ritengono di vitale importanza per il futuro del paese le questioni sollevate dal referendum, nonostante proprio Forza Italia avesse proposto lo Ius Scholae come modifica alla legge sulla cittadinanza. Anche il Presidente del Senato, Ignazio la Russa, ha dichiarato che spingerà affinché le persone restino a casa e non si raggiunga il quorum.
Se i partiti di governo sono uniti nel tentativo di non permettere ai referendum di raggiungere il quorum, si manifestano vari malumori all’interno delle opposizioni, in particolare nel Partito Democratico. La segretaria Schlein ha deciso di sostenere il Sì ai cinque quesiti referendari. Tuttavia, certi quesiti vanno a toccare provvedimenti voluti proprio dal PD durante l’esperienza Renzi, e quindi dall’ala riformista del partito. Ancora una volta emerge con forza l’irrisolto dilemma del Partito Democratico, sintetizzabile in “agenda Draghi o agenda sociale?”
Più sfumate invece le posizioni degli altri partiti. Il Movimento 5 Stelle si è detto favorevole ai quattro quesiti referendari che riguardano il lavoro, mentre i partiti centristi si sono focalizzati sulla cittadinanza, con Renzi che ha definito gli altri quesiti come “guerre ideologiche”. Qui ci occuperemo dei quattro quesiti legati al lavoro.
Di cosa parliamo in questo articolo:
I quesiti referendari: precarietà e sicurezza sul lavoro
Tra i quesiti referendari, oltre a quello della cittadinanza, ce ne sono quattro proposti dalla CGIL che riguardano la precarietà lavorativa e la sicurezza sul lavoro.
Il primo quesito proposto dalla CGIL mira ad abrogare il provvedimento voluto dal governo Renzi che, per i lavoratori assunti dopo 7 marzo 2015 con il contratto a tutele crescenti, ha archiviato l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori. Questo prevedeva, anche nella Riforma Monti Fornero, il reintegro del lavoratore licenziato illegittimamente, salvo rari casi. Con il Jobs Act, l’obbligo di reintegro viene sostituito da un indennizzo anche in caso di licenziamenti giudicati illegittimi, basato sull’anzianità del lavoratore in azienda - su cui però è intervenuta già la Corte Costituzionale.
È necessario sottolineare che questo cambiamento vale soltanto nelle aziende che superano i 15 dipendenti, per cui valeva appunto l’articolo 18, mentre le imprese più piccole ne sono sempre state escluse - è tra i motivi per cui il PCI si astenne sulla votazione per lo Statuto.
Come spiega a Valigia Blu Roberta Covelli, assegnista di ricerca in Diritto del Lavoro, la disciplina ha subito vari interventi nel corso degli ultimi anni sul fronte giuridico.
Nelle intenzioni originarie del governo Renzi, la disciplina per i licenziamenti dei lavoratori assunti con contratto a tutele crescenti avrebbe dovuto garantire semplicità e prevedibilità. In caso di licenziamento ritenuto illegittimo, il lavoratore non avrebbe più avuto diritto, salvo rari casi, alla reintegrazione nel posto di lavoro, ma solo a un'indennità economica standardizzata. L’obiettivo era introdurre una sorta di costo prevedibile. C’è però un nodo giuridico centrale, sottolineato dalla Corte Costituzionale: il licenziamento ingiustificato è un illecito e quindi una sanzione standardizzata non rappresenta un ristoro adeguato né ha effetto dissuasivo sulle imprese. La Consulta ha sottolineato la necessità di un intervento più ampio da parte della politica, che però non ha provveduto.
Sulle conseguenze di una vittoria del Sì nel primo quesito referendario si è creata una certa confusione, in particolare riguardo agli effetti che avrebbe su altri provvedimenti ascrivibili al Jobs Act di Renzi, come l’introduzione della Naspi. Come spiega sempre Covelli, la questione è più circostanziata:
Il quesito mira all’abrogazione dell’intera disciplina sul contratto a tutele crescenti, superando l’attuale frattura tra “vecchi” e “nuovi” assunti. In caso di vittoria del sì, nelle aziende con più di 15 dipendenti si applicherà per tutti l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, così come modificato dalla legge Fornero.
Il secondo quesito, che può essere visto come complementare al primo, riguarda invece i limiti pecuniari all’indennizzo per chi viene licenziato da un’azienda con meno di 16 dipendenti. In caso di licenziamento illegittimo, la norma prevede un massimo di sei mensilità. Il quesito referendario propone che questo tetto venga cancellato e la somma venga invece stabilita in sede giudiziaria basandosi anche su altri criteri. Secondo quanto sostenuto dalla CGIL, servirebbe a disincentivare le aziende dal licenziare lavoratori. Senza il tetto delle sei mensilità, il costo per il licenziamento di un lavoratore sarebbe a discrezionalità del giudice: questo disincentivo si lega però a un aumento dell’incertezza, con possibili conseguenze sulle assunzioni.
Sul terzo quesito si entra invece nel campo della precarietà lavorativa e nell’utilizzo del contratto a tempo determinato. Questi contratti possono essere stipulati fino a 12 mesi senza alcuna causale, cioè senza che si specifichi le ragioni per cui si ricorre un contratto a tempo determinato rispetto a uno a tempo indeterminato.
Anche qui, rientriamo nel campo delle politiche messe in atto dal governo Renzi, in particolare con il Decreto Poletti, che aveva liberalizzato fino a 36 mesi i contratti a tempo determinato. Su questo fronte era già intervenuto il Governo Conte I con il Decreto Dignità. Voluto dal ministro del Lavoro e Sviluppo Economico, Luigi di Maio, il provvedimento aveva reintrodotto l’obbligo di causale per rinnovo di un contratto a tempo determinato dopo i 12 mesi. Il quesito proposto dalla CGIL mira a reintrodurre una disciplina più rigida che prevedeva la causale nella stipula dei contratti a tempo determinato.
Il quarto quesito riguarda invece le norme sulla responsabilità delle aziende appaltanti. Attualmente, la normativa stabilisce che i committenti non sono responsabili per tali incidenti, quando le attività vengono delegate a imprese che a loro volta subappaltano il lavoro.
Tra le principali cause di infortuni e morti sul lavoro c’è infatti la tendenza ad affidare contratti ad aziende esterne. Spesso questa catena di appalti comporta uno scarso controllo riguardo le aziende a cui viene affidato il lavoro, che spesso non sono solide dal punto di vista finanziario o non fanno formazione per la sicurezza sul lavoro. Queste pratiche sono finalizzate al contenimento dei costi. Il quesito referendario proposto dalla CGIL, che vuole estendere la responsabilità anche al committente, è proprio per la selezione di appaltatori più solidi e adeguati, garantendo una maggior sicurezza sul lavoro.
Il quesito sul Jobs Act e il problema dei referendum
Nella discussione sui quesiti è tornato centrale il dibattito sugli effetti del Jobs Act. Questo in realtà ci permette di cogliere un aspetto importante di questi referendum.
La questione Jobs Act è stata già approfondita un anno fa quindi ci limiteremo a riassumere: i provvedimenti hanno prodotto risultati modesti e contraddittori. Il contratto a tutele crescenti-con indennizzo invece del reintegro-ha funzionato solo finché sostenuto dagli sgravi fiscali: terminati gli incentivi, è ripresa la crescita dei contratti precari.
Gli effetti collaterali sono stati pesanti, soprattutto per donne e giovani. Le lavoratrici nelle aziende coinvolte hanno visto calare del 1,4% la probabilità di avere figli. Per i giovani, il temporaneo boom di indeterminati si è esaurito con gli sgravi, riportando in auge precariato e apprendistati. Questo al netto di un aumento degli occupati, confermato anche dagli studi.
Quello che è invece importante sottolineare è l’ambizione che caratterizzava il provvedimento. Contrari e sostenitori non possono non concordare sul fatto che Renzi e il suo Partito Democratico avevano una visione del mercato del lavoro per l’Italia del futuro. E spesso, nella pratica, questa visione è stata annacquata: l’esempio più lampante riguarda il salario minimo che in un primo momento era stato previsto dal Jobs Act, ma che è stato poi accantonato.
Una visione trasformativa del mercato di questo tipo è oggi presente nell’opposizione di sinistra al governo Meloni, tra partiti e sindacati come la CGIL?
Come abbiamo sottolineato, oltre a facili slogan di contrasto alla precarietà, a sbandierare numeri sui salari che spesso si rivelano svianti, a proposte come il salario minimo che per quanto condivisibili restano circostanziate, le opposizioni non paiono avere un’agenda in grado di ridare dignità al lavoro e rilanciare la produttività, la quota salari e gli stipendi.
Eppure proprio la natura dei quesiti referendari, mirati a sorpassare la visione del Jobs Act con una visione che tuteli maggiormente i lavoratori e punti alla creazione di buoni posti di lavoro, permetterebbe un punto di partenza per costruire una strategia di questo tipo. Basti pensare al modello della riforma del mercato del lavoro del governo Sanchez, che ha contrastato il precariato senza effetti sull’occupazione. Citato come un riferimento dal PD durante la campagna elettorale, non si sono però viste proposte all’interno della discussione pubblica in tal senso.
Il problema, però, si sposta allora sullo strumento referendario. Data la natura abrogativa, infatti, i referendum permettono di intervenire su aspetti molto specifici, senza così garantire i cambiamenti più pervasivi di cui necessita il paese.
Non solo, c’è da tenere in considerazione anche la scarsa partecipazione ai quesiti referendari da parte dell’elettorato. Nel corso degli ultimi 30 anni si sono svolti dieci referendum oltre a quelli costituzionali: nella maggior parte dei casi comprendevano vari quesiti referendari. Su questi, soltanto due hanno raggiunto il quorum. Al di fuori del quesito referendario proposto da Mario Segni e Antonino di Pietro del 1999 sull’abolizione della quota proporzionale nella Legge Elettorale dell’epoca, nessuno dei referendum si è lontanamente avvicinato al quorum del 50 per cento.
Oltre ai limiti tecnici del referendum, è quindi necessario tenere in considerazione la crisi strutturale dello strumento per quel che riguarda la mobilitazione degli elettori. La partecipazione ha segnato un netto calo rispetto ai decenni passati- quando praticamente ogni referendum riusciva a raggiungere il quorum.
Buoni i fini, meno il mezzo
Non si può non condividere una maggior attenzione al mondo del lavoro e interventi che vadano a limitare la precarietà. Più volte si è sottolineato come una strategia che punti alla competizioni sulle tutele più che sull’innovazione e sugli investimenti in capitale umano sia deleteria. Non solo: come sottolinea un recente articolo, proprio la tendenza alla precarizzazione del lavoro ha poi ridotto la propensione delle imprese a fare formazione e investire, creando un feedback negativo.
I referendum proposti dalla CGIL sono, anche se con le giuste precauzioni, corretti e intervengono su aspetti problematici del mondo del lavoro italiano. Ma resta la criticità di interventi così circostanziati, dovuti allo strumento referendario abrogativo, quando in realtà serve una nuova strategia per il mercato del lavoro in Italia. Questa strategia non deve guardare indietro, come necessariamente fanno i referendum abrogativi, ma chiedersi come coniugare in maniera seria le tutele in un’economia che ha subito cambiamenti nel corso degli anni.
Quello che invece appare chiaro è che, data la frammentazione delle opposizioni e le guerre fratricide all’interno del Partito Democratico, manca proprio una visione trasformativa del mercato del lavoro italiano che attacchi i problemi citati sopra. Finora, fatta eccezione la proposta sul salario minimo, le opposizioni si sono concentrate più su tentativi di creare alchimie elettorali che sul fornire una proposta seria.
È possibile che i due fenomeni siano collegati. Da ormai decenni è prevalsa una visione di partito leggero, più incentrata sulla figura della leadership e sulla sua capacità di raccogliere voti rispetto ai partiti di massa e alle loro strutture gerarchiche del novecento, che sono stati invece archiviati come relitti di un tempo passato. Come conseguenza di questa nuova veste, si è assistito a un calo forte degli iscritti, soprattutto se confrontato con i partiti della Prima Repubblica. Il numero di iscritti non va visto in sé, ma come reazione proprio alle nuove strutture di partito sempre meno radicate e più leaderistiche. Senza la presenza di queste componenti di gruppo che portano avanti le istanze del partito, è difficile che si possa arrivare a una mobilitazione in grado di smuovere abbastanza persone. I partiti non hanno quindi la forza per diffondere le loro idee e richiamare alle urne- sia ai referendum sia alle elezioni.
Per ridare dignità al lavoro, i referendum non sono lo strumento adatto. Oltre alla decennale difficoltà nel raggiungere il quorum – sintomo del disimpegno elettorale e della crisi dei partiti – il problema è più profondo: il mercato del lavoro italiano ha bisogno di una riforma organica, non di ritocchi parziali come quelli consentiti dal referendum abrogativo.
Servirebbe una visione chiara che affronti precarietà, salari, produttività e sicurezza in modo strutturale. Finché le opposizioni si limiteranno a battaglie simboliche, senza proporre un’alternativa credibile, il lavoro in Italia resterà nello stato problematico in cui si trova.
Immagine in anteprima via thewatcherpost.it

Vittorio Olivati
Grazie per le informazioni e la disamina, acuta ed equilibrata come sempre da parte di Valigia Blu. Tuttavia, permettetemi una correzione: l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, nella Riforma Monti Fornero, prevedeva il reintegro del lavoratore licenziato illegittimamente NON "salvo rari casi", ma, al contrario, esclusivamente in alcuni rari casi (p.es. discriminazione sessuale). Se Tizio (manager) intende licenziare Caio per antipatia o perché a livello di top management ha vinto la "cordata" di Tizio e Caio fa parte (magari suo malgrado) di un'altra "cordata", basta che sia abbastanza furbo da motivarlo come "problemi economici" dell'azienda: magari il giudice accerta che l'azienda va a gonfie vele e che, quindi, la motivazione del licenziamento è pretestuosa, Caio vince la causa ma, al momento di stabilire se reintegrarlo, le motivazioni economiche non rientrano più tra quelle dell'Art. 18 e Caio non può essere reintegrato, ossia Tizio ha di fatto vinto.