Putin e la pace impossibile
8 min letturaIstanbul è tornata a essere, tre anni dopo, per un momento, al centro della guerra in Ucraina: lì si sono incontrate, venerdì 16 maggio, le delegazioni di Mosca e di Kyiv dopo la proposta lanciata da Vladimir Putin di tenere un round di negoziati nella città turca e la controproposta di Volodymyr Zelensky di un summit tra i due presidenti, lasciata cadere nel vuoto. Se l’idea alla base dell’invito di Putin risiedeva nel voler riprendere i contatti da dove erano stati interrotti, senza cambiare però nessuna delle condizioni da imporre all’Ucraina, vi era anche la volontà di voler dimostrare, ancora una volta, come oggi non vi sia alcuna cornice comune, alcuna volontà di compromessi per iniziare a negoziare davvero, con buona pace di Trump. Eppure, al di là del suo esito, l’incontro rivela qualcosa di essenziale: non tanto e solo sul conflitto, quanto sulle dinamiche interne alla Russia stessa e sul perché Putin abbia deciso di proporre un summit con una conferenza stampa nel cuore della notte del 9 maggio, quando a Washington era giorno.
Dietro il muro di gomma del Cremlino – fatto di dichiarazioni di disponibilità a trattare, salvo poi specificare di dover tener conto delle proprie posizioni e delle “cause originarie” della guerra – infatti, si scorgono in lontananza le tensioni di un sistema di potere che ha costruito la propria longevità su un equilibrio di interessi ora in fase di riconfigurazione. Le élite russe — mai omogenee, ma oggi più che mai divise e disorientate — stanno vivendo una lenta ma irreversibile trasformazione, esacerbata dal conflitto, dalle incognite in campo economico seguite alla resistenza alle sanzioni, dal logoramento dei dispositivi ideologici e sullo sfondo vi è la questione di cosa sarà del paese dopo la fine della guerra e dopo che terminerà l’epoca putiniana.
Di cosa parliamo in questo articolo:
Il teatro del Bosforo: il vertice di Istanbul
Il vertice del 16 maggio è apparso da subito votato a non esser risolutivo: la Russia ha ribadito condizioni inaccettabili per Kyiv — neutralità, riconoscimento delle annessioni, limitazioni militari — consapevole del rifiuto, e dall’altro lato l’Ucraina, forte del sostegno militare occidentale, ha rilanciato chiedendo un cessate il fuoco incondizionato e il ritiro russo dai territori occupati. Una riaffermazione delle proprie posizioni a cui si son però aggiunte delle concessioni minori, come lo scambio di prigionieri tra le parti (1000 per 1000), sicuramente significativo per le famiglie dei militari, ma purtroppo di nessun rilievo nel costruire un percorso verso la pace; la promessa di rivedersi, almeno al momento, è indefinita.
Il vero pubblico, però, non era seduto al tavolo delle trattative. Il teatro messo su nell’ex capitale ottomana era rivolto ad altri: agli Stati Uniti, all’opinione pubblica russa, e soprattutto a quei segmenti dell’élite moscovita che, ben lontani da prender posizione contro la guerra, iniziano a interrogarsi su come uscirne. I colloqui sono serviti a testare reazioni, a mantenere viva la finzione di una disponibilità al negoziato, a contenere chi, dentro l’establishment, aveva iniziato a vedere possibile una normalizzazione dei rapporti con gli americani e di conseguenza con l’Occidente: posizioni che non sono di opposizione al Cremlino ma che esprimono il disorientamento verso il futuro.
L’élite come sistema fluido
La Russia ancora oggi viene raccontata come l’espressione di una verticale del potere infrangibile, monolitica, caratterizzata dal ruolo di Putin, sostenuto da una burocrazia leale e da oligarchi asserviti: già in passato questa narrazione ha mostrato la propria fallacia, e il caso della rivolta di Evgeny Prigozhin ne è stata la sconfessione più lampante, oggi appare ancor di più fuorviante, alla luce delle increspature che si intravedono in superficie, continuare a presentare in questo modo un sistema ben più complesso. La guerra ha mostrato alcune caratteristiche assunte dal sistema di potere russo, in grado di adattarsi e di esser flessibile senza però venir meno alla propria vocazione repressiva nei confronti di ogni ipotetica alternativa; tuttavia, vi sono tensioni che affiorano a vari livelli.
Non si tratta più di una divisione tra “falchi” e “colombe”, tra “ideologi” e “pragmatici” o tra “centro” e “periferia”, ma di una molteplicità di attori che si muovono secondo logiche non sempre ideologiche, ma piuttosto tattiche, personali, situazionali. Alcuni spingono per la prosecuzione indefinita del conflitto, da cui traggono vantaggi diretti: potere, risorse, prebende; invece altri — economisti, funzionari regionali, responsabili di settori strategici — osservano con crescente preoccupazione il logoramento del sistema produttivo, la pressione inflazionistica, il rischio di un collasso del rublo mascherato da interventi tecnici; infine gli avvenimenti degli ultimi mesi attorno alla Cecenia – luogo che ha una dinamica a sé stante – e alla figura di Ramzan Kadyrov, che avrebbe preso contatti con i paesi del Golfo Persico per assicurare a sé e alla sua famiglia un rifugio sicuro in caso di rovesci improvvisi, suonano come un temibile preavviso a quel che potrebbe accadere nel dopoguerra nel Caucaso e in altre aree non-russe.
Non appare, almeno apertamente, però chi è pronto a scommettere su cosa verrà dopo la guerra e dopo Putin: vi è un’intera generazione intermedia — formata da funzionari, amministratori, imprenditori di solito quarantenni-cinquantenni — che si muove senza far rumore, prova a costruire forme di alleanze e di allineamenti non più direttamente dipendenti da un Cremlino impegnato nel conflitto e nelle trattative con l’America. Una zona grigia all’interno dell’establishment, che riproduce un po’ quella, ben più larga, che domina nella società russa. È bene ripeterlo, non è un’opposizione, ma i tre anni di guerra hanno contribuito a produrre una forma di policentrismo di fatto, che riprende visibilità dopo il tentato colpo di mano della Wagner; Putin resta il nodo del sistema, arbitro e beneficiario, ma anche le sue mosse, con una maggiore promozione di elementi vicini alla sua famiglia (Kirill Dmitriev, a capo del Fondo d’investimenti russo, è considerato persona di Katerina Tikhonova, ritenuta dai media figlia di Putin) creano ulteriori contraddizioni; la verticale appare esser sotto la pressione dell’orizzontalità degli interessi personali, e forse il caso di Kadyrov, intenzionato ormai da tempo a voler blindare la propria successione in Cecenia insistendo per lasciar il proprio posto al figlio diciassettenne e pluridecorato (con ben 26 medaglie) Adam, appare come emblematico.
Guerra e rendita: la nuova economia della lealtà
La prosecuzione della guerra è diventata non solo una necessità ideologica, ma anche un meccanismo economico perverso, che ha svolto per decine di migliaia di famiglie delle regioni russe un sinistro ascensore sociale: il conflitto ha infatti garantito ai combattenti salari pari a dieci volte tanto gli stipendi normali, ai familiari una serie di benefit – dall’istruzione universitaria gratuita alla priorità nell’assegnazione di appartamenti statali – eppure questa ridistribuzione assai atroce è minima rispetto ai contratti miliardari ottenuti dalle aziende del complesso militar-industriale e ai casi di corruzione che emergono dalla gestione delle strutture militari e civili del ministero della Difesa.
L’estrattivismo russo, basato sulle risorse naturali e soprattutto su gas e petrolio, sembra oggi aver trovato un’altra fonte, ovvero gli uomini e la loro guerra. Ma il consenso di questa parte della popolazione e dell’industria dovrebbe far capire come il sistema non si trovi più in posizioni di forza: si trova intrappolato nella propria guerra. Come ha osservato un analista russo in forma anonima a Meduza, nel commentare il rafforzamento del rublo sul dollaro e l’euro – situazione che rende parecchio difficile il raggiungimento degli obiettivi di bilancio perché unita a un abbassamento del prezzo di petrolio e gas - “la guerra è diventata la sola forma di politica interna”; l’economia regge solo finché dura il conflitto ma la sua usura, definita “surriscaldamento” dagli esperti, è evidente.
Gli strumenti straordinari adottati per mantenere il tasso di cambio del rublo (interventi della Banca Centrale, controllo dei capitali, esportazioni forzate) non possono durare indefinitamente, l’inflazione reale supera il dato ufficiale, e la pressione fiscale su famiglie e piccole imprese è in aumento. L’establishment economico e finanziario è consapevole del quadro ed è per questo che osserva con attenzione ogni apertura, anche minima, verso l’Occidente. I colloqui di Istanbul, da questo punto di vista, sono stati letti come un segnale: non per il contenuto, ma come gesto, messaggio rivolto agli americani
La cultura, il primo nemico
Uno degli elementi più rivelatori della fase attuale è la nuova ondata di repressione culturale, che colpisce non più i media o le ONG, ma va a riprendere su scala ben più grande la guerra all’editoria indipendente, anche quando non esiste più: a Mosca il direttore della distribuzione della casa editrice Eksmo, Anatolij Norovyatkin, è stato arrestato insieme ad altre dieci persone con l'accusa di estremismo, in un’inchiesta che sarebbe legata alla presunta “propaganda LGBT”.
Eksmo, holding editoriale di gran peso, ha precisato di non essere coinvolta direttamente nel caso, che riguarda in realtà le pubblicazioni della casa editrice Popcorn Books, di cui Eksmo ha acquisito la maggioranza (51%) delle quote nell’agosto 2023. Popcorn Books è colpevole di aver pubblicato il romanzo di Katerina Silvanova e Elena Malisova “L’estate con il fazzoletto da pionieri”, dove al centro dell’azione vi è la relazione omosessuale tra un pioniere e il coordinatore della sua squadra durante un campo estivo. Già all’uscita il libro si trovò al centro delle polemiche, con il poco invidiabile primato di aver aperto la stagione di processi contro la “propaganda LGBT” nella letteratura; alla casa editrice non è bastato esser stata assorbita e quindi scomparsa dal mercato: adesso persino i suoi acquirenti sono colpevoli.
D’altronde, la cultura è oggi ritenuta parte della guerra globale in difesa dei valori tradizionali e non vi è neutralità possibile: ogni libro, ogni film, ogni mostra deve essere “patriottica”, “mobilitante”, “positiva”. Ogni deviazione è ritenuta un sabotaggio morale e persino l’idea che una narrativa ambigua o una voce minoritaria possa circolare è vissuta come una minaccia strategica.
A colpire è la minuziosità della repressione, che si abbatte su editori e lettori, librai e scrittori: il 26 maggio a Mosca si terrà la prima udienza nei confronti della popolare libreria Falanster e del suo fondatore Boris Kupriyanov, ritenuti responsabili di partecipazione ad organizzazione estremista; il principale studioso russo di Corea, Andrei Lankov, professore presso l’Università Kunmin di Seoul, è stato multato per aver rilasciato delle interviste ai media indipendenti russi in esilio. In questo controllo asfissiante, esacerbato dall’intervento di figure come l’oligarca nazional-monarchico, proprietario della holding Tsargrad, Konstantin Malofeev, più che la forza della repressione emerge un potere insicuro, ossessionato dal controllo del linguaggio. La guerra, da esterna, ritorna ancora una volta ad abbattersi sull’intera società: combatte la possibilità stessa di immaginare una Russia diversa.
Il futuro come vuoto
La Russia post-2022 è un corpo in tensione: la guerra le ha dato una direzione, ma non una prospettiva. Il potere continua a funzionare, ma ha perso il senso della trasformazione, irretito nelle nostalgie promosse a retrotopia, in un presente diventato eterno: lo sviluppo viene menzionato come attributo della vittoria posta in un orizzonte lontano, la crescita economica è ritenuta al servizio della resistenza all’Occidente. E tuttavia, sotto questa superficie, un’altra Russia probabilmente inizia a prendere forma, e non è quella delle opposizioni in esilio o delle proteste di piazza — represse e marginalizzate— ma quella delle stanze intermedie: funzionari, centri di ricerca militari, imprese “patriottiche”, consiglieri di medio livello che mantengono contatti in Occidente, grand-commis con solidi affari con la Cina; disuniti forse su tutto, viste le posizioni diverse, ma accomunati dalla sensazione di dover preparare una propria soluzione nel medio-lungo termine.
Vladimir Putin ritiene di poter continuare la propria partita al fronte, puntando a schiacciare l’Ucraina, e al telefono, rassicurando Trump sulle proprie intenzioni di pace e al tempo stesso provando a tessere nuovi rapporti Oltreoceano. Alla pace il Cremlino non crede, e forse neanche nell’establishment vi è tale sentimento, ma è percepibile l’angoscia verso il futuro.
La Russia del 2025 non è sull’orlo del collasso, ma è entrata in una zona grigia, e la verticale del potere si trova a dover affrontare nuove contraddizioni; il vuoto politico lasciato dall’assenza forzata di un’alternativa si estende anche alla vacuità di cosa dovrà essere il futuro del paese. È come se il tempo, nella Russia della guerra, abbia cessato di essere lineare: non si progetta, non si prevede; si attende, si gestisce, si sopravvive e si annuncia a favor di telecamere americane vuote promesse di colloqui. L’aver sostituito la storia con l’eterno presente, il passato con il cosplay, la politica con l’amministrazione dell’emergenza, la strategia con la reiterazione, rischia di presentare il conto alla capacità di reazione del sistema, anche perché ogni presente assoluto, per quanto coercitivo, è destinato a incrinarsi.
Immagine in anteprima via peopledispatch.org

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Concordo con Putin ........ non ci sono le condizione per una pace tra Russia è Ucraina. Poi in questo periodo che si è intromesso Trump(il presidente che tia ra pietra è nasconde la mano.E' un elemento da isolare.