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La normalizzazione del fascismo in Italia

12 Maggio 2025 7 min lettura

La normalizzazione del fascismo in Italia

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Il 27 aprile, a Dongo, da vent’anni, decine e decine di militanti di estrema destra si radunano a commemorare Mussolini, Claretta Petacci e altri 15 gerarchi fascisti, intercettati tra Musso e Dongo mentre cercavano di raggiungere la Svizzera, catturati e poi uccisi su mandato del Comitato di Liberazione Nazionale dell’Alta Italia (CLNAI) esattamente 80 anni fa. La commemorazione, che prevede il saluto fascista e il presente, si svolge proprio davanti alla ringhiera contro la quale furono fucilati i 15, la stessa di allora che reca ancora i fori dei proiettili. Un luogo di memoria partigiana che però è diventato altare di una geografia opposta che prevede, tra le altre cose, pure una funzione celebrata a Mezzegra con il parroco che dice messa. Dopo pranzo condiviso. 

È un evento che si ripete ogni anno nella più completa liceità. Infatti, oltre a essere autorizzata, questa manifestazione è anche protetta dalle forze dell’ordine che, oltre a blindare il paesino, si premurano di evitare che la contromanifestazione dell’ANPI la interrompa. Tra le prescrizioni di quest’anno, ad esempio, è stato indicato il divieto di utilizzare dispositivi sonori come casse e megafoni per evitare che fungessero da mezzo di disturbo dell’evento. E se da un lato è vero che in Italia non si usa parlar male dei morti e la riverenza verso di loro è pressoché assoluta, viene da domandarsi come mai tutto questo rispetto venga esteso ufficialmente e istituzionalmente anche ai vertici del partito fascista che ha oppresso il paese. Come sia possibile che azioni ed estetiche che richiamano tanto il Ventennio quanto la Repubblica Sociale siano possibili.  

Dopotutto, di Dongo e del 27 aprile sembra se ne parli poco e ogni tanto, come se si trattasse di una novità. Una nuova notizia da inserire nel flusso quotidiano di notizie che arrivano a raffica. Ogni anno come fosse la prima volta. Lo scalpore per questa manifestazione, in effetti, sembra essere molto contenuto, connaturato più alla presenza o meno di video che alla manifestazione in sé, al suo significato e a ciò che può produrre: la ripetizione di un modello. Manifestazioni evidentemente oscure, legate a qualcosa di totalmente incoerente rispetto al territorio in cui avvengono (e cioè una repubblica che si è fondata dopo e grazie alla resistenza partigiana), hanno luogo senza che si presti loro nulla più che una casuale attenzione, innestata da un contenuto ben piazzato, ma nulla più. 

Così le manifestazioni non passano nel più totale silenzio, ma non incontrano ostacoli particolari. A partire dal fatto che sono formalmente tollerate e corredate di un cordone delle forze dell’ordine. Dopotutto, se in Italia tecnicamente le manifestazioni non devono essere autorizzate, possono essere effettivamente negate quando sussistono “per comprovati motivi di sicurezza o di incolumità pubblica", o essere sottoposte a limiti. È accaduto per esempio nel 2024 per la manifestazione pro Palestina inizialmente prevista per il 5 ottobre a Roma, e vietata a causa di alcuni appelli in cui si celebrava il 7 ottobre 2023 come “data storica di una rivoluzione”.

Dongo non è un caso isolato, ma anzi si inserisce in un calendario articolato e diffuso sul territorio. Come a Milano, ad esempio, la città eletta Capitale della Resistenza proprio perché sede del CLNAI, che quattro giorni dopo il 25 aprile, da circa cinquant’anni, diventa teatro di una commemorazione dal sapore totalmente diverso: quella per il giovane iscritto al Fronte della Gioventù, Sergio Ramelli, ucciso nel 1975 e ora considerato martire. Prima decine, poi centinaia e, quest’anno, quasi migliaia (erano attese 2000 persone, il doppio rispetto all’anniversario precedente) di persone che si dichiarano fasciste, che marciano, accendono torce ed eseguono il “presente” (l’appello ai morti fascisti) in via Paladini, il luogo in cui è stato aggredito. Un rito che si ripete con il consenso delle istituzioni. 

Milano come Dongo, insomma, ma pure diversa, perchè in questo caso non si è trattato di una memoria partigiana arraffata dalla controparte fascista, ma di una celebrazione che, probabilmente, ha poco a che fare con Ramelli stesso e più con il rito in sé. Vengono ripetuti i gesti, imparati, tramandati, comandati. Le parole - “camerati”, “attenti”, “saluto”, “riposo” - tutte afferenti a un gergo militaresco che ritrovano spazio e proposito. Intanto, viene identificato chi toglie dal proprio palazzo i manifesti abusivi.

Il 29 aprile si svolge così incamerato nell’agenda di cortei e manifestazioni come se fosse un contraddittorio al 25 aprile, come se le due cose si equivalessero e fossero entrambe egualmente legittime. Un condono che crea abitudine e assuefazione, che rende in effetti questa eventualità una cosa nota anche quando poco pubblicizzata, come dimostra il fatto che alcuni abitanti della zona, in questo 29 aprile 2025, si fossero attrezzati con delle casse sui balconi per diffondere canti e canzoni partigiane. Se la città lo sa, com’è possibile che al contempo se ne dimentichi? Forse è a sua volta affine a quello che accade ad Acca Larentia, che oltre ad avere un giorno di commemorazione specifico, ha anche una traccia inequivocabile: un’enorme croce celtica dipinta al suolo. Passarvi e ignorarla è possibile grazie all’abitudine, che ne accresce la potenza. Dopotutto, sembra normale. È lì, sta lì, e per molti non c’è ragione per cui non debba essere così. A far vivere la possibilità del fascismo nella quotidianità del territorio, protetto da un’attenzione selettiva, non distratta, ma precisa, chirurgica. Il copione, ad Acca Larentia come a Dongo o in via Paladini, prevede sempre il trittico di corona, schieramento e saluti fascisti con variazioni sul tema. Fiaccole o marce. Rimasti, consolidati e propagati che diventano una gavetta, un rito di passaggio, un momento di coesione e un ponte tra passato e presente che chissà da cosa è attraversato. 

Come rivelato dalla trasmissione Report, nel 2008, quando era ministro della Gioventù, l’attuale Presidente del Consiglio Giorgia Meloni, ha partecipato a quella commemorazione, sfilando accanto a Giuliano Castellino di Forza Nuova. Sempre Meloni, ma quest’anno, in occasione della commemorazione istituzionale di Ramelli ha usato il termine “sacrificio”, affermando che “Sergio era una persona libera che amava l’Italia più di ogni altra cosa e aveva deciso di non tenerselo per sé”. In questo modo, l’adesione di Ramelli al Fronte della Gioventù e, quindi, la militanza politica di estrema destra finiscono sotto l’ombrello del patriottismo. Parole che fanno eco, negli stessi giorni, al Presidente del Senato Ignazio La Russa ripreso mentre rifiuta di commentare i saluti romani e apostrofa il cronista che gliene chiede conto. 

Nelle sue forme passate, legalmente, il fascismo non dovrebbe avere margine di riproporsi, grazie alle disposizioni costituzionali che prevedono l’apologia di fascismo come reato. Nella legge n.645/1952 (legge Scelba), però, rientra la costituzione associativa di gruppi o movimenti che hanno caratteristiche o fini la riorganizzazione del partito fascista. L’ancoraggio della legge è fondamentale per evitare il ripristino del partito che fu, ma lascia una grande apertura alla propagazione di simboli e riti che quindi, possono trovare margini di attuazione. Questi infatti non vengono sanzionati se possono rientrare nel canone commemorativo o nella rievocazione storica. Nel primo caso perché, stando alla Cassazione, non rientrerebbero nelle minacce all’ordine pubblico, nel secondo perché non avrebbero fini di incitamento alla violenza o alla discriminazione

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Se normalizzare è un processo, passa inevitabilmente anche da questo: dal timore di chiamare le cose con il proprio nome (anche per il rischio di potenziali querele). Dalla paura di ammettere che l’ideologia fascista è imperniata su violenza e discriminazione e non ne esiste una versione diluita ed edulcorata. Quello della normalizzazione è un percorso sommerso da chiacchiere e luoghi comuni, quelli per cui si sente dire che durante il ventennio fascista “i treni arrivavano in orario” o ripetere il mito delle bonifiche dell’Agro Pontino o, ancora la convinzione - errata - che il sistema pensionistico derivi proprio dal regime fascista. Nulla di reale, ma abbastanza convincente e accettabile da filtrare nelle credenze comuni, al punto da arrivare a compensare, se non a coprire, ciò che davvero è stato il fascismo: violenza, regime, deportazioni, morte, guerra, colonialismo e arricchimento delle classi dirigenti compiacenti. Abbiamo del resto un europarlamentare, Roberto Vannacci, che usa hashtag come “camerati”, “me ne frego”, “decima”, per poi nascondersi dietro una montagna di scuse o sofismi, mentre di Mussolini riesce solo a dire che è stato “uno statista”.

Il fascismo è sopravvissuto grazie al modo in cui le sue espressioni sono state digerite e accettate come normali, comuni, poco rilevanti. Perdendo forse quel senso di urgenza che dovrebbero instillare o, peggio, spingendo alla negazione pur di non affrontare per non affrontare la difficoltà del conflitto. Così ha agito nell’ombra, ma in pieno giorno e a volto scoperto, ripercorrendo le tappe recuperabili e sondandone di nuove, senza che ci rendesse conto che dietro l’infrangibilità del rito era covata un’intenzione, che sotto le svastiche e le croci celtiche tatuate si celasse davvero una volontà politica, che oltre ai corpi in vista c’era un’ideologia che si manteneva viva facendo della paura e della noncuranza la caverna da cui risorgere. Non avendolo chiamato con il giusto nome nemmeno quando aveva il braccio teso gli abbiamo lasciato lo spiraglio per crescere. 

Immagine in anteprima: frame video AGTW via YouTube

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