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La Nato e il piano di riarmo europeo

4 Luglio 2025 11 min lettura

La Nato e il piano di riarmo europeo

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Media e analisti europei hanno definito il vertice della NATO che si è tenuto all’Aia tra il 24 e il 25 giugno come il “vertice del riarmo”. In realtà quanto deciso nella capitale de facto dei Paesi Bassi (nonché città simbolo del processo di unificazione europeo) non rappresenta uno spartiacque per l’Alleanza Atlantica, e il clamore è probabilmente eccessivo. 

Senz’altro il vertice accelera l’evoluzione di quella che ama definirsi “la più forte Alleanza nella storia”, ma a dispetto della presenza di un Presidente geopoliticamente di rottura come Donald Trump non si sono acuite le tensioni tra Stati Uniti da un lato, l’Europa e il Canada dall’altro. Anzi. Nella conferenza stampa al termine del summit un Trump quasi amichevole ha riconosciuto che “queste persone [i leader NATO] amano davvero i loro paesi” e ha dichiarato che “noi [statunitensi] siamo qui per aiutarli a proteggere i loro paesi”.

Entrambe le parti hanno ottenuto – entro certi limiti – quanto si prefiggevano: Trump che gli alleati si impegnassero a dedicare, entro il 2035, il 5% del PIL annuo per “requisiti essenziali di difesa e per le spese legate alla difesa e alla sicurezza”; gli europei e i canadesi che venisse ribadito “il ferreo impegno alla difesa collettiva, come sancito dall’articolo 5 del Trattato di Washington, in base al quale un attacco a uno è un attacco a tutti” e che venisse riconosciuta “la minaccia a lungo termine posta dalla Russia alla sicurezza euroatlantica” (elemento per nulla scontato, se si considerano i toni morbidi verso Mosca pretesi dagli Stati Uniti al recente G7 di Kananaskis, in Canada).

La soglia del 5% è per Trump una vittoria significativa. Esperti sentiti da Fox News (emittente televisiva molto seguita dall’elettorato repubblicano) hanno elogiato il presidente, in grado di provocare un ”cambiamento tettonico” nella NATO semplicemente “essendo sé stesso”. A margine del vertice il presidente (uscente) polacco Andrzej Duda ha in effetti ammesso che l’aumento delle spese “è un successo del presidente Donald Trump”.

Il tema del burden sharing è storicamente un nervo scoperto delle relazioni euroatlantiche. Washington ha sempre rinfacciato agli europei (e ai canadesi) di essere dei grandi free-riders in ambito difesa, e nella retorica repubblicana l’Europa “continente di smidollati” è quasi un cliché. Nel 2003, al culmine del militarismo neocon, un commentatore influente come Robert Kagan scriveva che “per quanto riguarda le maggiori questioni strategiche e internazionali, gli statunitensi vengono da Marte e gli europei da Venere”.

Recentemente il primo ministro polacco Donald Tusk ha rilasciato dichiarazioni vicine alle posizioni statunitensi, parlando persino di “codardia” dell’Europa: “[i]n questo momento 500 milioni di europei stanno implorando la protezione di 300 milioni di americani da 140 milioni di russi che non riescono a sopraffare 50 milioni di ucraini da 3 anni”.

Ma se il valore simbolico della soglia del 5% è indiscutibile, diverso è il discorso su come tale soglia verrà raggiunta, e quando. Il 2035 è lontano, dieci anni sono un’eternità in politica. A meno che non si verifichino eventi straordinari (e molto improbabili, come la modifica del XXII Emendamento della Costituzione americana) nel 2029, quando si effettuerà una verifica sulla traiettoria di spesa, alla Casa Bianca non risiederà più Trump, instancabile detrattore degli europei “che non pagano [per la loro difesa]” (mentre l’anno scorso gli Stati Uniti hanno speso in difesa quasi mille miliardi di dollari). Un presidente diverso potrebbe essere un po’ più conciliante con gli alleati NATO.

Europei e canadesi hanno sempre promesso agli Stati Uniti di spendere di più. Nel lontano 2006 i ministri della difesa dei paesi NATO concordarono di investire il 2% del PIL nella difesa, obiettivo ribadito nel 2014 al vertice di Newport in Galles, e da raggiungere in una decade; nel 2024 però ben otto Stati membri, inclusa l’Italia, destinavano alla difesa meno del 2%. 

Quest’anno l’Italia dovrebbe raggiungere la soglia del 2%, ma solo perché il governo guidato da Giorgia Meloni includerà nei capitoli di bilancio della difesa voci quali le pensioni dei militari: un espediente astuto, che però non accresce la capacità dell’Italia di difendere se stessa e gli altri paesi membri.

Secondo quanto deciso all’Aia solo il 3,5% del PIL dovrà consistere in spese propriamente di difesa, “per soddisfare i requisiti fondamentali della difesa e raggiungere i Capability Targets della NATO”. Il restante 1,5% potrà essere composto, ad esempio, da spese per “proteggere infrastrutture critiche, difendere reti, garantire la preparazione e la resilienza civile, innovare e rafforzare la base industriale della difesa”. Spese per la sicurezza, potenzialmente utili anche per le forze armate in caso di conflitto (ad esempio una ferrovia AV per trasportare materiale bellico da un punto a un altro). Non a caso sembra che il governo italiano voglia includere, curiosamente, le spese per il ponte sullo Stretto di Messina nell’1,5%.

La minaccia del neoimperialismo russo e una NATO più europea

Per comprendere come mai i paesi europei (e il Canada) dovranno spendere di più in difesa bisogna fare alcuni passi indietro. Nel corso del suo primo mandato il presidente democratico Barack Obama lanciò il cosiddetto Pivot to Asia: di fronte alla prepotente ascesa geopolitica della Repubblica Popolare Cinese gli Stati Uniti decidevano di concentrarsi su Asia orientale e Sudest asiatico, e focalizzarsi di meno su Europa, Medio Oriente e Africa. I russi accolsero tale decisione con grande soddisfazione, come spiegò nel 2013 un diplomatico scandinavo a chi scrive. Già nel 2012, alla luce del controverso intervento della NATO in Libia l’anno prima (fortemente voluto da Francia e Regno Unito), gli addetti ai lavori iniziarono a parlare di un’Alleanza Atlantica “post-americana”. 

Nel 2015 i russi, che soltanto l’anno prima avevano invaso e illegalmente occupato la Crimea di un’Ucraina ancora neutrale, intervenivano militarmente a sostegno del sanguinario dittatore siriano Bashar al-Assad. Nel paese arabo i russi creavano un hub logistico-militare essenziale per la loro proiezione in Africa: la base aerea di Khmeimim, senza la quale molte iniziative russe in Libia o in Africa subsahariana sarebbero state impossibili

Proprio a causa della pericolosa situazione in Siria (e del ritiro statunitense dal nord del paese arabo, nonché della contestuale offensiva turca) nel novembre del 2019 il presidente Macron dichiarava che la NATO era in uno Stato di "morte cerebrale”, guadagnandosi il plauso dei russi e irritando Washington, con il segretario di stato Mike Pompeo che sottolineava invece la necessità di una maggior condivisione degli oneri finanziari, se non si voleva rischiare di rendere la NATO ”inefficace od obsoleta”. 

Il ritiro degli Stati Uniti dall’Afghanistan deciso da Trump durante il suo primo mandato (e ultimatosi nell’agosto 2021 sotto il democratico Joe Biden) costituiva un ulteriore segnale del crescente disinteresse di Washington da quello che i neocon all’inizio del millennio amavano definire il “Grande Medio Oriente”. Pochi mesi dopo il ritiro delle forze statunitensi dal paese centroasiatico, Mosca lanciava l’invasione su larga scala dell’Ucraina. 

Proprio l’espansionismo militarista del regime russo, e la possibilità sempre più concreta di un’Europa “circondata”, hanno spinto dal 2014 in poi, dopo l’invasione russa della Crimea, alcuni governi europei al riarmo: nordici, polacchi e baltici. La Svezia e la Finlandia sono addirittura entrate nella NATO, una decisione storica (e anche traumatica) per entrambi i paesi. 

Nel 2024 tutti i paesi della regione nordico-baltica hanno speso in difesa più del 2% del PIL, a differenza di Italia, Spagna e altri stati geograficamente lontani dal Fianco Est; Polonia ed Estonia (entrambi in prima linea qualora la Russia decidesse di attaccare uno stato membro della UE) hanno persino già raggiunto la soglia del 3,5% decisa all’Aia pochi giorni fa. Tra il 2015 e il 2024, secondo il SIPRI di Stoccolma, la spesa militare svedese è più che raddoppiata.

Al vertice dell’Aia nordici, polacchi e baltici hanno brillato per attivismo. La preoccupazione che la Russia in qualche modo vinca la guerra in Ucraina è palpabile, a Varsavia come a Riga, a Stoccolma come a Helsinki (ma anche a Londra e Berlino). E benché l’entrata dell’Ucraina nella NATO non sia più un tema all’ordine del giorno, con buona pace di quanto si dichiarava al vertice NATO di Vilnius del 2023 sul ”futuro dell’Ucraina nella NATO”, è stato ribadito l’impegno a “fornire sostegno all’Ucraina, la cui sicurezza contribuisce alla nostra”.

A differenza del vertice di Vilnius, all’Aia si è parlato poco di Medio ed Estremo Oriente. Nella dichiarazione dei capi di Stato e di governo non si cita la Repubblica Popolare Cinese, ed è presente solo un breve riferimento al terrorismo. Sembra che gli Stati Uniti vogliano che gli europei si concentrino principalmente sull’Europa, lasciando il Medio Oriente ad altri (ad esempio a sauditi e israeliani, sotto la supervisione di Washington?), e l’Asia agli Stati Uniti e ai suoi alleati indo-pacifici.

Per l’Europa più Marte e meno Venere?

Il riarmo europeo è in corso, ed è stato causato dal neoimperialismo del regime russo. Con la fine della Guerra Fredda la spesa militare aveva cessato di essere una priorità per i governi europei. Prima dell’invasione russa dell’Ucraina la Bundeswehr aveva solo otto brigate con una readiness al 65%; l’invio di armi, munizioni ed equipaggiamento a Kyïv ha ulteriormente deteriorato la prontezza dell’esercito tedesco. Ed era dai tempi delle guerre napoleoniche che l’esercito britannico non era così piccolo: la BBC ha riferito stime di esperti secondo i quali l’esercito finirebbe le munizioni in due settimane di guerra convenzionale “all’ucraina”.

Certo, senza il pivot to Asia di Obama, e con un presidente un po’ meno volubile di Trump, il 5% non si sarebbe mai concretizzato. Polacchi, lituani e finlandesi non dimenticano quanto dichiarava nel febbraio del 2024 il leader repubblicano: avrebbe incoraggiato la Russia “a fare quel che cavolo voleva” con i paesi NATO che non raggiungevano le soglie di spesa per la difesa.

Ovviamente il riarmo europeo sarà un’enorme opportunità per le aziende statunitensi attive nel settore difesa: non solo player storici, come la Lockheed Martin e la Northrop Grumman, ma per i potentati economici della Silicon Valley. I campi di battaglia dell’Ucraina dimostrano che IA e sistemi di comunicazione satellitare sono fondamentali.

Nell’ambito degli armamenti pesanti l’esempio polacco è illuminante. La Polonia, che confina con la Bielorussia (da tempo un satellite militare di Mosca) e con l’oblast’ russo di Kaliningrad, e che ancora nel 2015 spendeva “appena” il 2,1% del PIL in difesa, ha deciso di acquistare 250 nuovi carri armati Abrams M1A2, 26 ARV, 116 Abrams usati e molto altro, per una spesa totale di oltre sei miliardi di dollari (in parte coperti da prestiti statunitensi). Il “pugno di ferro” dell’esercito polacco, come dicono a Varsavia, non è mai stato così armato.

Non solo: la Polonia ha deciso di comprare dagli statunitensi aerei multiruolo F-35, elicotteri d’attacco Apache e altro ancora, e sta acquistando armi, carri armati e aerei dalla Corea del Sud, che a causa della perdurante minaccia nordcoreana ha sviluppato un complesso militare-industriale degno di nota. Seul sta diventando per i polacchi un partner cruciale

Ma a beneficiare del riarmo continentale saranno anche le aziende europee maggiormente in grado di soddisfare le necessità militari emerse dalla lunga guerra in Ucraina: produttori di carri armati e blindati, munizioni, droni e sistemi di difesa aerea. La Germania dispone del complesso militare-industriale più attrezzato del continente (si pensi solo ai carri armati Leopard, che anche l’Italia sta acquistando, e ai missili aria-superficie a lungo raggio stealth Taurus). 

E dopo anni di cautele e ambiguità verso il regime putiniano, Berlino ha varato un riarmo massiccio e inusitato: prima con una certa timidezza, nella cornice della Zeitenwende del cancelliere socialdemocratico Olaf Scholz, poi in modo esplicito e muscolare in virtù della promessa del nuovo cancelliere della CDU Friedrich Merz di rendere la Bundeswehr ”il più forte esercito convenzionale in Europa”

Come è stato rilevato dal SIPRI, “[n]el 2024 la spesa militare tedesca è cresciuta per il terzo anno consecutivo raggiungendo gli 88,5 miliardi di dollari, cioè l’1,9% del PIL, facendo [della Germania] il quarto paese che più spende [in difesa] a livello globale, e il più grande in Europa centrale e occidentale per la prima volta dalla riunificazione. La spesa militare tedesca è salita del 28% rispetto al 2023 e dell’89% rispetto al 2015”.

Sempre secondo il SIPRI, “nel 2024 la spesa militare totale in Europa è aumentata del 17% sino a 693 miliardi, con un aumento dell’83% rispetto al 2015”. A spingerla, nota l’autorevole istituto, è la guerra russo-ucraina. Nel Regno Unito ha superato gli 80 miliardi di dollari, in Francia ha sfiorato i 65, in Polonia ha toccato i 38 e in Svezia i 12.

Il riarmo può, a determinate condizioni e in certi casi, sostenere l’industria manifatturiera del continente, in affanno di fronte all’incalzare della concorrenza cinese e statunitense nelle auto elettriche, nell’aerospaziale, nel solare e nella robotica. Ma a parte il fatto che la realizzazione (o conversione) di stabilimenti produttivi e l’acquisizione di specifico know-how hanno tempi lunghi, resta il problema di come finanziare il riarmo, specie considerando che in base alle stime della Commissione Europea la UE dovrebbe crescere di appena l’1,1% nel 2025 e dello 1,5% nel 2026, e che molte materie prime necessarie all’industria militare devono essere importate: dall’alluminio alle cosiddette terre rare, oggi assai costose. 

Senza dubbio il riarmo avrà un impatto sull’affidabilità finanziaria di molti Stati europei. Per l’agenzia di rating tedesca Scope Ratings “i membri UE della NATO dovranno allocare, in media, un ulteriore 1,3% del PIL ogni anno per raggiungere la nuova soglia di spesa nella difesa del 3,5% del PIL, innalzando la spesa annuale a più di 600 miliardi di dollari (dai 360 miliardi attuali)”. 

Se si esclude il ReArm Europe Plan/Readiness 2030 presentato dalla Commissione Europea, ogni paese europeo (UE o non-UE) ha la sua strategia di finanziamento: a causa del cospicuo debito pubblico Parigi punta sulla mobilitazione del risparmio privato e dei venture capitals; Berlino conta sulla lungimiranza delle imprese (come Rheinmetall) e può permettersi di fare deficit; Londra ha già iniziato a ridurre gli aiuti allo sviluppo. 

Non tutti i paesi europei mostrano per il riarmo la stessa (comprensibile) determinazione di nordici, baltici e polacchi. Per ragioni finanziarie e di politica interna Madrid è fermamente contraria al 5% deciso al vertice dell’Aia, tanto da aver strappato una sorta di clausola di opt out; per il governo guidato dal socialista Pedro Sánchez le forze armate spagnole riusciranno a raggiungere i capability targets della NATO spendendo solo il 2,1% (cosa che avrebbe già destato forti perplessità nell’Alleanza Atlantica). La presa di posizione di Madrid ha scatenato l’ira di Trump, ma non è da escludersi che il capo del governo spagnolo punti proprio a uno scontro con la Casa Bianca per rivitalizzare una coalizione fragilissima.

Madrid sembra credere in un riarmo trainato dalla cooperazione continentale, a partire dallo European Defence Industrial Programme (EDIP) e dalla Security Assistance Facility for Europe (SAFE). Non solo: promette di spendere in Spagna la maggior parte delle risorse extra destinate alla difesa, stimolando il manifatturiero avanzato nazionale e generando nuovi posti di lavoro di qualità. Per Sánchez «l’obiettivo è trasformare questa crisi in un nuovo stimolo economico per la Spagna, basato su industria, formazione e sviluppo di tecnologie a duplice uso necessarie nel campo della sicurezza e della difesa, ma che possano essere utilizzate anche per applicazioni e opportunità in ambito civile».

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Il governo italiano, per quanto politicamente all’opposto di quello spagnolo, farebbe bene a ispirarsi all’esempio di Madrid. L’enorme debito pubblico è un freno al riarmo nazionale, e l’opinione pubblica italiana è nel complesso contraria a un serio aumento della spesa militare. L’Italia si è già impegnata a dedicare entro il 2028 il 2% del PIL alla difesa, un obiettivo in sé ambizioso, a fronte della crescita anemica della nostra economia. 

Oltre a sfruttare la «flessibilità» assicurata al vertice dell’Aia, l’unica possibilità per l’Italia (e altri paesi europei) di tenere la spesa sotto controllo è sperare che dopo Trump arrivi alla Casa Bianca un democratico, e soprattutto aumentare il sostegno militare all’Ucraina. La resistenza di Kyïv alla Russia, e in futuro l’ingresso dell’Ucraina nella UE, sono la migliore garanzia contro un attacco di Mosca alla Lituania o all’Estonia. Se l’Ucraina fosse uno Stato membro, Bruxelles si ritroverebbe con le migliori forze armate del continente, temprate da anni di durissimi combattimenti con gli invasori russi.

Immagine in anteprima: Ministerie van Buitenlandse Zaken, CC BY-SA 4.0, via Wikimedia Commons

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