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Uccisa dal marito dopo anni di terribili violenze. Il fallimento del “Codice rosso”

6 Settembre 2019 7 min lettura

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Uccisa dal marito dopo anni di terribili violenze. Il fallimento del “Codice rosso”

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Adriana Signorelli è morta nella notte tra sabato 31 agosto e domenica 1 settembre nella sua casa alla periferia di Milano. A ucciderla con almeno cinque coltellate alla schiena è stato l’uomo che aveva sposato qualche anno fa, Aurelio Galluccio, di 65 anni, sei più di lei, un uomo con problemi di droga e dipendenze, e diversi precedenti penali. La figlia di Adriana – nata dal precedente matrimonio della donna - non riusciva a mettersi in contatto con la madre, così, verso l’1 e 30 di notte, ha chiamato la polizia. Quando i vigili del fuoco hanno sfondato la porta l’hanno trovata riversa in cucina. Galluccio, che dopo averla uccisa era fuggito, intanto era tornato sotto lo stabile e ha tentato prima di essere arrestato di investire gli agenti e la figlia della donna con la sua macchina. L’uomo si trova ora in carcere, descritto nell’ordinanza della gip come un “soggetto di elevatissima pericolosità sociale”.

Pochi giorni prima, la notte del 27 agosto, Adriana aveva denunciato un’aggressione da parte di Galluccio. Aveva attivato il cosiddetto “Codice Rosso”, la legge proposta dal governo precedente che modifica il codice di procedura penale sulla tutela delle vittime di violenza domestica entrata in vigore lo scorso 9 agosto. Una legge criticata dagli operatori del settore e dai centri anti violenza ma che, secondo i promotori, avrebbe dovuto tutelare maggiormente le vittime di violenza. Che non è però servita a salvare la vita di Adriana, nonostante la mattina del 28 agosto la polizia avesse trasmesso l’annotazione dell’intervento in Procura. Ma non sono state chieste immediatamente misure restrittive.

Prima che i poliziotti intervenissero, Galluccio, sotto effetto di una dose massiccia di psicofarmaci, aveva sfondato a pugni il vetro della porta del bagno della casa della donna, dove lei si era rifugiata. Adriana, spaventata, era poi riuscita a fuggire e intorno alle 5 del mattino aveva chiamato la polizia, che aveva atteso in strada dopo essere stata inseguita con la macchina da Galluccio. Quando gli agenti sono arrivati l’uomo non c’era più.

La morte di Adriana è stata il culmine di violenze che andavano avanti da diversi anni, durante i quali Galluccio è stato più volte in carcere, con precedenti rapina, spaccio, maltrattamenti e altri reati. Mentre era detenuto, ha raccontato la figlia alla polizia, qualche anno fa Adriana aveva deciso di sposarlo in carcere, nonostante il rapporto violento. Nel 2014 Galluccio era uscito di prigione, prima di essere arrestato nuovamente dopo qualche mese per aver colpito a un fianco con un coltello l’altro figlio di Adriana, che era intervenuto in seguito a una richiesta d’aiuto della madre. Arrivato a casa di Adriana, l’aveva trovata a terra, mentre il marito ancora la picchiava.

In seguito alle denunce e agli arresti, Galluccio era andato a vivere in un altro appartamento, ma gli episodi violenti sono proseguiti. Nel novembre del 2018 aveva tentato di dare fuoco alla porta d’ingresso di casa di Adriana, minacciando la donna di sfregiarle il viso con un coltello e un contenitore pieno di candeggina mista a benzina. L’uomo è stata arrestato, ma scarcerato dopo due mesi e sottoposto solo all’obbligo di firma e nessun divieto di avvicinarsi ad Adriana.

Anche i residenti del palazzo avevano paura di lui, tanto che, ricostruisce MilanoToday, avevano una chat su Whatsapp per aggiornarsi sui movimenti dell’uomo. «Dopo novembre, era tornato nel condominio come se nulla fosse e tutti i residenti eravamo entrati nello sconforto e nella paura», ha raccontato un vicino alla testata locale. «Nonostante avessero conoscenza di chi fosse il soggetto le istituzioni ci hanno lasciati soli».

Dopo l’aggressione e la denuncia del 27 agosto, la polizia giudiziaria aveva consigliato ad Adriana di cambiare casa. Lei aveva detto che sarebbe andata a dormire per un po’ nell’appartamento della figlia, a Rozzano, dove però non ha mai fatto ingresso.

La Gip scrive nell’ordinanza di custodia cautelare di Galluccio che Adriana “non si recò mai presso l’abitazione della figlia, continuando invece, come già aveva fatto tantissime volte in passato, a intrattenere rapporti con il Galluccio, a recarsi a casa sua e ad accoglierlo nella propria abitazione, da ultima in data 31 agosto”. La giudice dice anche che “la disponibilità estrema” di Adriana “ad aiutare l’odierno indagato le è stata purtroppo fatale”.

La vicenda di Adriana però non va letta come la morte di una donna “troppo disponibile” ad aiutare l’uomo che l’ha poi uccisa o che ha mentito alle forze dell’ordine e non si è allontanata da casa. La sua storia ha una lettura molto più semplice e banale: è la morte di una donna – l’ennesima – che aveva chiesto aiuto. Come ha scritto Luisa Rizzitelli su LetteraDonna, “in un Paese civile che abbia davvero adottato adeguate politiche di prevenzione agli efferati reati della violenza maschile contro le donne, non sono le vittime a dover ‘agire o non agire’, ma lo Stato che deve proteggerle ed essere in grado di riconoscere la pericolosità dei persecutori, rendendoli immediatamente inoffensivi”.

Dunque il sistema non funziona e continua a non funzionare, nonostante l’approvazione del Codice Rosso.

I problemi del “Codice Rosso”

Tra le novità introdotte dal “Codice Rosso” c’è l’inasprimento delle pene per violenza sessuale, stalking e maltrattamenti contro familiari e conviventi, e l’inserimento di tre nuovi reati riguardanti gli sfregi, ossia i casi di aggressione con lesioni permanenti al viso fino a deformarne l'aspetto, le nozze forzate e il revenge porn (l’atto di inviare, pubblicare o diffondere immagini a contenuto sessualmente esplicito di una persona senza il suo consenso).

C’è poi la previsione di un “Codice Rosso”, sulla falsariga di quello che vige nei Pronto Soccorso: è previsto che la polizia giudiziaria debba comunicare al magistrato le notizie di reato di maltrattamenti, violenza sessuale, atti persecutori e lesioni aggravate avvenute in famiglia o tra conviventi, mentre la vittima dovrà essere sentita dal pubblico ministero entro tre giorni dall’iscrizione della notizia di reato.

Quest’ultima norma aveva destato diverse perplessità tra gli addetti ai lavori. Ad esempio, secondo Elena Biaggioni, avvocata penalista e coordinatrice del Gruppo avvocate della rete nazionale dei Centri anti violenza Di.Re, i tre giorni previsti da quando una donna vittima di violenza sporge denuncia a quando verrà ascoltata da un magistrato «costituiscono un margine pericoloso o inutile. Pericoloso, perché non è detto che la donna sia in sicurezza. Inutile, perché se la donna non è pronta e non è sicura, non racconterà nulla o minimizzerà». Inoltre, per Biaggioni c’è anche un altro problema: «Nelle piccole procure, dove il personale è più ridotto, imporre i tre giorni vuol dire in tanti casi perdere la specializzazione del pm». Durante le audizioni in Senato, D.i.Re aveva proposto di sentire la donna entro tre giorni solo nel caso fosse richiesta l’applicazione della misura di protezione e nel caso in cui l’audizione fosse richiesta dalla donna o dai suoi legali “per evitare la continua ripetizione del racconto che si configura come rivittimizzazione secondaria”.

C’è poi un problema di numeri. Dall’entrata in vigore del Codice Rosso lo scorso 9 agosto, c’è stato un forte incremento delle denunce di violenza. Parlando a proposito del femminicidio di Adriana Signorelli, il capo della Procura di Milano Francesco Greco ha definito il Codice Rosso uno strumento utile, ma di difficile gestione perché si rischia di «non riuscire a estrapolare i casi più gravi» anche perché «tutti quanti i casi per legge devono essere trattati con urgenza».

Greco ha spiegato come la Procura di Milano abbia gestito nel 2018 5.395 procedimenti per reati da Codice Rosso, quando non era ancora in vigore: 2.121 per maltrattamenti, 1.151 per stalking, 574 per violenza sessuale e 34 per violenze su minori. «Se quest’anno si ripetessero quei numeri - ha aggiunto - avremmo, come l’anno scorso, 15 ‘Codici rossi’ al giorno». A un mese dall’entrata in vigore della legge, però, «già si viaggia sui 30 allarmi al giorno e ciò impedisce di estrapolare i casi più gravi».

Secondo la giudice Paola Di Nicola, per i mezzi esistenti «e il personale ridotto non sarà possibile in concreto» poter rispettare la regola dei tre giorni. «Sul tavolo di ogni pm – ha aggiunto - quotidianamente arrivano decine di queste denunce: una corretta e seria gestione dell’ascolto delle vittime richiede competenza, professionalità e conoscenza del fenomeno. Noi faremo il possibile per attuare questa norma ma temo che se non ci verranno date delle risorse rimarrà inattuata».

La legge è però a “invarianza finanziaria”, ossia non prevede ulteriori fondi. Va fatto tutto con le risorse che già ci sono – e che, la realtà ha dimostrato, non bastano. Non sono previste risorse per permettere alle procure di fare fronte ai tempi e ai numeri; non ci sono fondi per potenziare i Centri anti violenza, né per la formazione del personale che si ritrova a raccogliere la denuncia delle donna.

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Viene previsto un generico obbligo formativo per polizia, carabinieri e polizia penitenziaria, ma nulla è indicato su chi sarà incaricato di farla – e con quali soldi. Questo, secondo Di Nicola, è un nodo importante: «La questione non è solo giuridica ma culturale: nelle aule di giustizia alle donne non sempre si crede, la loro parola viene sminuita e ridimensionata, le denunce sono prese in considerazione ridotta». È un rilievo fatto anche dalla presidente di Di.Re., Lella Palladino, che ha sottolineato come ci siano troppi problemi insoluti: «Non si investe un euro per la formazione di forze dell’ordine e personale giudiziario, terribilmente necessaria perché la violenza contro le donne, di cui tutti parlano è un fenomeno che in realtà pochi conoscono davvero».

Come fa notare Nadia Somma sul Fatto Quotidiano, inoltre, “non sono previsti interventi per accorciare i tempi del processo penale, che in media dura sette-otto anni, talvolta di più, e una sentenza definitiva dopo dieci anni (schivando la prescrizione) non dà giustizia a nessuno. È fondamentale mettere in campo interventi integrati e a più livelli, allontanando le donne dai violenti insieme ai figli, sostenendole nei percorsi di autonomia economica”.

Nella legge, infine, manca del tutto una parte sulla prevenzione del fenomeno, sull’educazione a partire dalle scuole e dai più giovani. Tutte le norme si muovono esclusivamente su un piano punitivo/emergenziale, che non affronta – ancora una volta – il problema alla sua radice.

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