Kenya e Togo: i giovani vincono la paura e sfidano le vecchie dittature
5 min letturaGas lacrimogeni, cordoni di polizia armata e pronta a manganellare o anche a sparare, rifiuto del dialogo. Sono i vecchi sistemi dei vecchi leader che si rivelano però in tutta la loro inappropriatezza contro la determinazione di una popolazione giovane decisa a sfidarli. È una regola della storia che in Africa sta mostrando ora la sua fondatezza. Ad affrontare il potere sono loro, i giovani della Generazione Z. Più di due terzi della popolazione del Continente ha meno di trent’anni. Una popolazione che non è disposta a subire in silenzio la disillusione provocata da governi accusati di aver fallito nel compito di costruire comunità basate sulla giustizia e sul benessere per tutti.
Nelle ultime settimane la protesta è scoppiata in Kenya e in Togo, Africa orientale l’uno, Africa occidentale l’altro; in comune il disagio di popolazioni schiacciate da prevaricazioni, abusi di potere, disoccupazione e, in molti casi, miseria.
Per i giovani del Kenya si è trattato di un ritorno in piazza. A scatenare quella che si è rivelata una vera e propria rivolta, è stato l’arresto – e poi la morte in carcere – del blogger e insegnante trentunenne Albert Omondi Ojwang che aveva criticato in un post l’operato di un vice ispettore di polizia. Inizialmente, il capo della polizia aveva cercato di far passare quella morte come suicidio ma l’autopsia ha rivelato i traumi violenti che hanno provocato la morte dell’uomo e lo stesso presidente, William Ruto, è stato costretto ad ammettere che “Ojwang è morto per mano della polizia", definendo l’accaduto "straziante e inaccettabile". Ma per i kenyani si tratta di lacrime di coccodrillo e il caso del blogger è stata l’ulteriore dimostrazione della brutalità della polizia, troppe volte denunciata, e la prova che in realtà nulla è cambiato rispetto allo scorso anno.
I fatti sono avvenuti proprio alla vigilia delle commemorazioni decise per ricordare i ragazzi rimasti uccisi nelle proteste del 2024. Allora ci si opponeva ad una manovra finanziaria iniqua le cui conseguenze si sarebbero fatte sentire sulle fasce più deboli della popolazione. Manovra che tra l’altro imponeva nuove tasse e aumenti enormi sui beni di prima necessità, come il cibo. In qualche modo, quelle proteste che videro sulle strade giovani di differenti contee, etnie, strati sociali, furono un successo. La manovra finanziaria venne ritirata. Il prezzo però fu altissimo. Alla fine si contarono 60 morti, centinaia i feriti e di arresti. E abbiamo visto cosa può accadere quando si finisce in prigione.
Le proteste di queste ultime settimane non hanno sortito una reazione diversa da parte delle forze inviate a sopprimere lo scontento. Il bilancio è di 16 morti e almeno 400 feriti. E anche questa volta il governo ha provato a limitare la diffusione di notizie degli eventi vietando le trasmissioni live alle emittenti nazionali. E se pian piano le proteste sono andate diminuendo non si può dire lo stesso per gli arresti e le sparizioni di critici ed oppositori. Secondo l’organizzazione kenyota Missing Voices dal 2019 al 2024 sono sparite forzatamente 167 persone – 55 solo nel 2024 – mentre, nello stesso periodo, ci sono registrate 803 esecuzioni extragiudiziali - 104 nel 2024. E per il 2025 già si parla di una ventina di persone di cui familiari e amici non hanno più notizie.
L’uso fuori misura della forza è stato tra l’altro criticato dall’OHCHR (Ufficio per i diritti umani delle Nazioni Unite). Un appello che non ha sortito grandi effetti. Né in Kenya, né in Togo. La Generazione Z in questo paese non ha conosciuto che un solo leader, Faure Gnassingbé. Così per i loro padri e i loro nonni. Lui è al potere dal 2005. Prima di lui il padre, Eyadéma Gnassingbé, che rimase presidente per 38 anni. Una dinastia al potere, dunque, da oltre mezzo secolo. Di fatto, una dittatura.
L’opposizione in questo piccolo paese sulla costa atlantica, che conta poco più di 9 milioni di abitanti, seppure agguerrita, è sempre stata un elemento di facciata per coloro che hanno interesse a definire democratico un governo che ha invece tutte le caratteristiche dell’autocrazia. Basti dire che dei 113 rappresentanti parlamentari 108 sono dell’UNIR (Unione per la Repubblica), partito di maggioranza dal 1967, e solo 5 dell’opposizione. Non è che non ci abbiano provato. Soprattutto i due principali partiti che da tempo chiedono le dimissioni di Faure Gnassingbé: l'Alleanza Nazionale per il Cambiamento (ANC) e le Forze Democratiche per la Repubblica (FDR). Ma le elezioni sono sempre finite con una maggioranza bulgara a favore del presidente in carica.
A consentire “legalmente” il perpetuarsi della dinastia Gnassingbé sono state una serie di modifiche costituzionali. Prima per rimuovere il limite di anni di ricandidatura per il presidente, poi per aumentare gli anni del mandato che da cinque sono passati a sette. Nuove norme incluse nella Costituzione nel 2019. Ma la mossa più spudorata è stata l’ultima riforma che ha eliminato il voto diretto del presidente da parte dei cittadini trasformando il paese in un sistema parlamentare (che abbiamo visto essere dominato da decenni dal partito “dei Gnassingbé”). Così, nel maggio scorso, il capo di Stato ha giurato come presidente del Consiglio dei Ministri, assumendo, quindi, il doppio incarico. Un sistema che, secondo l’opposizione, ha aperto la strada per una presidenza a vita. Un “golpe costituzionale”, così è stato definito.
È contro questo “golpe” che la popolazione è scesa in piazza. Guidata, in particolare, da una coalizione nota come "Giù le mani dalla mia Costituzione". Ma le richieste riguardano anche il rilascio dei prigionieri politici, almeno cento, e l’adozione di misure urgenti per ripristinare il potere d’acquisto della popolazione. Tra l’altro questo paese ha un alto tasso di povertà, il 45% (dati World Bank), e il reddito medio pro capite è di circa 900 dollari all’anno.
Le forze di sicurezza hanno reagito alle proteste come al solito, con le maniere forti. Centinaia gli arresti, non calcolato il numero dei feriti. Ci vuole coraggio per scendere in piazza, e questi ragazzi lo hanno dimostrato, anche se sanno bene quale sarà la risposta.
Le manifestazioni in Togo sono tra l’altro rare. Soprattutto dal 2022, quando le proteste sono state vietate dopo un attacco mortale al mercato centrale di Lomé. I giovani però sono stanchi di questa “dittatura militare” e frustrati perché un cambiamento sembra quasi irrealizzabile, un’utopia. Chi ci prova finisce nei guai. Come il rapper e attivista Aamron arrestato e detenuto in un istituto psichiatrico per quasi un mese per aver esortato i giovani alla protesta, attraverso Tik Tok. Pare che l’artista abbia poi chiesto scusa al presidente. Scuse chissà quanto sentite e spontanee.
Ma c'è un'altra domanda più interessante da porsi. E cioè quanto il coraggio di questi giovani, dal Kenya al Togo, finirà per fornire un esempio e uno stimolo a quelli di altri paesi i cui governi sono noti per il grado di autoritarismo e di repressione del dissenso.
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