L’attacco di Trump e la diplomazia iraniana “tradita”
9 min letturaTraditi da Donald Trump, almeno tre volte, su accordi e negoziati, e ingannati fino all’ultimo anche sui tempi di un possibile attacco statunitense: quello che l’altra notte ha forse aperto l’inferno non solo nella regione mediorientale, ma anche sotto i nostri piedi. Agli occhi dell’Iran, gli Stati Uniti si sono mostrati ancora una volta una potenza di cui non ci si può fidare.
La prima volta è stata nel 2018, quando la prima amministrazione Trump abbandonò unilateralmente l’accordo multilaterale del 2015 sul nucleare iraniano (JCPOA), mentre Teheran – come più volte verificato dall’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA) - lo stava rispettando alla lettera. La seconda, il 13 giugno scorso, quando il primo attacco missilistico di Israele è scattato proprio due giorni prima del sesto round dei negoziati Iran-Usa previsti in Oman, e centrati proprio sui termini in cui Teheran avrebbe dovuto ridimensionare il suo programma nucleare. La terza, infine, nella notte di domenica 22, con le sei bombe bunker-buster da 14 tonnellate lanciate dagli Stealth americani sull’impianto nucleare di Fordow, scavato sotto un centinaio di metri di montagna – e questo solo due giorni dopo che un incontro che si era svolto a Ginevra tra i diplomatici iraniani e quelli europei di Francia, Germania e Gran Bretagna.
E dunque, si chiedono ora gli iraniani, perché tornare a quei negoziati che il presidente USA e il suo alleato israeliano, il premier Benjamin Netanyahu, invocano ora, ma solo dopo aver esercitato, dichiarandolo unico mezzo per ottenere la pace, l’uso della forza?
Male mai non fa mettersi nei panni della controparte, ossia della Repubblica Islamica - per quanto odiata da milioni di iraniani in Iran e della diaspora. E, in particolare, nei panni della sua ala dialogante – a partire dal presidente riformista Masoud Pezeshkian – che, in questi mesi, aveva ribadito il suo intento di cercare un accordo con Trump per ottenere la revoca di quelle nuove sanzioni statunitensi che pesano da otto anni sull’economia del paese. Se le ragioni di chi le ha dichiarato guerra sono davvero più forti, non abbiamo nulla da temere. E allora proviamoci, a guardare questa guerra, in cui sono appena entrati anche gli USA, dal punto di vista di chi governa la Repubblica Islamica e, nello specifico, di chi ha sempre preferito la via diplomatica appunto, in perenne dialettica con quanti hanno invece sempre detto che gli Stati Uniti sono infidi e l’unico modo per contrastare le minacce era essere pronti alla guerra – e condurne una asimmetrica, tramite le milizie filoiraniane nella regione, nel frattempo. Con la Guida Ali Khamenei tendenzialmente nel mezzo: sempre molto duro nei toni e nella retorica anti-americana, ma nei fatti spesso disposto a dare il via libera, sotto traccia, ai negoziati.
Dal grande smacco di Rouhani e Zarif a quello di Araqchi
Hassan RouhanI e Javad Zarif sono il presidente e il ministro degli Esteri che puntarono tutto sull’accordo nucleare del 14 luglio 2015, concluso dopo anni di colloqui tra USA, Russia, Cina, Gran Bretagna, Francia e Germania: un accordo che per tutti i firmatari era il migliore possibile nelle condizioni date. Ma che persero la scommessa, perché Trump pensò bene di ritirarsene – spinto a questo dal premier israeliano Netanyahu - perché lo riteneva pessimo. Salvo poi, negli ultimi mesi, far tornare al tavolo i suoi negoziatori riproponendo termini tecnicamente simili a quelli sui quali aveva chiuso l’allora presidente Obama: cioè la possibilità per Teheran di continuare ad arricchire l’uranio fino al 3,67%. E poi cambiando le carte in tavola, cioè chiedendo che ogni capacità di arricchimento da parte iraniana fosse smantellata. Un cambio di rotta in senso massimalista dietro al quale non è difficile vedere ancora una volta la mano di Israele, che come si è visto preparava da mesi la guerra aperta sferrata il 13 giugno.
Il ritiro di Trump del 2018 - che mandò a monte piani di investimento stranieri multimiliardari in Iran, anche dell’Italia – lasciò sulla graticola il governo presieduto da Rouhani, ed espose alle critiche più impietoso il ministro degli Esteri Zarif, il volto più occidentalizzato fra quanti governavano la Repubblica Islamica. La graticola per Zarif in realtà non è mai finita, visto che i suoi detrattori lo costrinsero per ben due volte (la seconda in modo definitivo) a lasciare l’incarico di vicepresidente per gli Affari strategici che il nuovo presidente Pezeshkian gli aveva assegnato.
Il risultato complessivo è stato che il ritiro di Trump ha segnato la sconfitta politica dell’ala moderato-riformista rispetto all’ala ultraconservatrice, militarista e bellicista. Ma anche questo ribilanciamento di forze nel sistema politico iraniano non ha impedito una ripresa dei negoziati, per il ripristino dell’accordo saltato, tra la presidenza del Democratico, Joe Biden, e quella del conservatore, Ebrahim Raisi: negoziati, tuttavia, arrivati a un punto morto nell’estate del 2022, mentre Raisi morì in un misterioso incidente aereo due anni dopo, insieme al suo ministro degli Esteri, Hossein Amir-Abdollahian. Intanto, le tiepide reazioni al movimento Donna Vita Libertà dei riformisti, che pur si distanziavano da quelle dell’ala dura, non erano riuscite a riscattare la loro immagine nemmeno agli occhi degli oppositori interni moderati, ormai convinti proprio dalla dura repressione di quelle proteste che non vi erano sostanziali differenze tra le varie anime di chi deteneva il potere nella Repubblica Islamica.
Eppure, una ripresa dei moderato-riformisti si è avuta proprio con la seconda presidenza Trump, con gli iraniani ormai definitivamente convinti che solo con lui si dovesse trattare. Gli europei, infatti, si erano rivelati del tutto incapaci di rispettare gli impegni presi con l’accordo del 2015, e negli ultimi anni si erano messi di traverso anche rispetto ai nuovi negoziati, imponendo nuove sanzioni e soprattutto, alla fine dello scorso maggio, spingendo con gli USA per una risoluzione del Board of Governors dell’AIEA che poteva in pochi mesi portare al ripristino delle sanzioni ONU contro Teheran per inadempienza rispetto all’accordo del 2015. Inadempienza che consisteva appunto, in primo luogo, nella forte ripresa dell’arricchimento dell’uranio fino alla pericolosa soglia del 60%. L’accelerazione era del resto cominciata, nel 2019, proprio per reazione alle inadempienze dei partner europei, rimasti in sostanza paralizzati dal ritiro di Trump, ed era andata avanti in modo relativamente lento nei primi anni, per veleggiare fino alle riserve di 408 kg accertate dall’AIEA in questi ultimi mesi.
Insomma, anche Londra, Parigi e Berlino – soggetti alle pressioni israeliane e statunitensi, ma anche di potenti gruppi dell’opposizione iraniana all’estero - hanno forti responsabilità nel frapporsi di ulteriori ostacoli nel già difficile percorso negoziale intanto intrapreso da Trump.
E così arriviamo all’ultimo smacco subito dall’attuale ministro degli Esteri iraniano, Abbas Araqchi. Che aveva condotto cinque round negoziali con l’inviato di Trump, Steve Witkoff, e si preparava a partire per il sesto, a Mascate, in Oman, quando Israele gli ha fatto scoppiare la guerra in casa. E si era anche recato a Ginevra per un incontro con gli europei, il 20 giugno, convocato all’ultimo minuto per scongiurare una escalation della guerra e un allora ancora possibile intervento americano, ma che si era concluso con poco o nulla di fatto.
Quanto ai risultati concreti del bombardamento americano di Fordow, sembrano del resto piuttosto dubbi e limitati come da ammissione della stessa Casa Bianca: oltre ai danni effettivi alla struttura ancora poco chiari, nessuno sa dove siano finite quelle famose scorte di uranio altamente arricchito, probabilmente già trasferite altrove prima dell’attacco. Proprio nei giorni scorsi del resto, in reazione agli attacchi israeliani su altri suoi impianti nucleari (tra cui quelli di Natanz e Isfahan, nuovamente attaccati dagli USA la notte scorso), Teheran aveva annunciato di avere un nuovo impianto per l’arricchimento, di cui resta per ora ignota la localizzazione. Nel frattempo, Trump ha preso per il naso non solo i negoziatori iraniani, ma anche tutti noi: mentre annunciava che avrebbe deciso entro due settimane un eventuale ingresso USA nella guerra di Israele contro la Repubblica Islamica, stava già mandando i suoi bombardieri verso l’Iran e ordinava anche ai suoi sommergibili di colpire. Dando ragione a Khamenei e all’ala dura: mai fidarsi degli americani.
Teheran è in guerra ma chiede ancora il rispetto del diritto
Khamenei oggi è tornato a parlare dopo giorni di silenzio – seguiti al suo ritiro in un bunker, secondo il New York Times, e alla scelta di non comunicare con mezzi elettronici che potrebbero rivelarsi trappole mortali – ribadendo quanto già detto, ossia che “il nemico sionista avrebbe continuato a pagare per i suoi errori”.
Molto più articolata la reazione giunta nel frattempo dal ministro Araqchi, il quale per prima cosa ha osservato: “La settimana scorsa eravamo in trattative con gli Stati Uniti quando Israele ha deciso di far saltare quella diplomazia. Questa settimana abbiamo avuto colloqui con l'E3/UE, quando gli Stati Uniti hanno deciso di far saltare quella diplomazia. Quale conclusione trarne? Per la Gran Bretagna e l'Alto Rappresentante dell'Unione Europea, è l'Iran che deve ‘tornare’ al tavolo delle trattative. Ma come può l'Iran tornare a qualcosa che non ha mai lasciato, e tanto meno ha fatto saltare in aria?”.
Successivamente, in una conferenza stampa a Istanbul, da dove è partito per incontrare il presidente russo, Vladimir Putin, Araqchi ha aggiunto altri argomenti: ha definito l’attacco statunitense su Fordow “un’oltraggiosa violazione del diritto internazionale” – riprendiamo le citazione dalla diretta tv - ai danni di un paese membro dell’ONU; con questo attacco, ha sottolineato, gli Stati Uniti non solo “hanno tradito” l’Iran ma anche i suoi elettori che avevano creduto nella sua volontà di porre a tutte le guerre; infine, ha chiesto una riunione del Consiglio di sicurezza dell’ONU e dell’AIEA che, ha aggiunto Araqchi, “deve riconoscere le sue responsabilità”, dato che aveva ispezionato i siti iraniani – e poi in effetti, aggiungiamo noi, escluso che l’Iran si stesse armando di ordigni nucleari nonostante una preoccupante presenza di uranio altamente arricchito.
“L’Iran si riserva tutte le opzioni per difendere la sua sicurezza e quella del suo popolo”, ha proseguito Araqchi, sottolineando “il diritto dell’Iran all’autodifesa” fin quando necessario. “Non è stato l’Iran ma sono stati gli USA a tradire la diplomazia quando hanno dato luce verde a Israele e attaccato i nostri impianti nucleari. Non c’è linea rossa che gli Stati Uniti non abbiano superato: hanno attaccato anche il regime di non proliferazione nucleare”. Il quale – ha concluso – non è servito a proteggere dagli attacchi il paese e gli iraniani. Un’affermazione, quest’ultima, che lascia trapelare come l’Iran sia ora più vicino al ritiro da quel Trattato di non proliferazione al quale aderisce – a differenza di Israele, che infatti è dotato di un ordigno atomico. Uno scenario confermato anche dall’annuncio che il parlamento iraniano discuterà un disegno di legge sulla “sospensione” e non l’annullamento – la scelta delle parole conta - della cooperazione con l’AIEA.
Gli scenari militari destinati a mettere i moderati all'angolo
Come ampiamente previsto, dunque, sta prendendo forma – accanto ai contrattacchi missilistici – uno degli scenari che Trump doveva ben conoscere prima di prendere la sua ultima decisione: scenario che potrebbe presto condurre alla scelta della Repubblica Islamica di dotarsi di un arsenale nucleare, superando la ‘fatwa’ di Khamenei che la proibiva e riparando anche i danni materiali sicuramente inferti, anche se non ne conosciamo la portata, alle sue strutture. Esattamente quello che molti – i sostenitori della linea dura verso l’Occidente – , e non solo nell’area più oltranzista del sistema iraniano, auspicavano sempre più apertamente da tempo e che ora, alla prova conclamata dei fatti, possono dire che attenersi ai patti e agli accordi non è servito a difendere il paese dagli attacchi di USA e Israele.
E per ora a questi fatti anche noi ci atteniamo, rinviando a più avanti l’approfondimento di altri scenari contestuali, come i probabili attacchi alle basi USA da parte di milizie filo-iraniane nella regione o un possibile blocco al traffico petrolifero nello stretto di Hormuz. Oppure l’ipotesi che, all’ordine istituzionale ancora legato alla figura della Guida suprema, possa subentrare un nuovo regime autoritario instaurato – sempre però nel solco della Repubblica Islamica – con un organo di governo dominato dai militari. Quanto al famoso “regime change” non escluso da Trump e di cui apertamente parlano oppositori all’estero, come il principe Reza Pahlavi, vedremo se si farà realtà. Intanto, i fatti raccontano di una diplomazia iraniana ancora pervicacemente impegnata a fare appello all’ONU e al diritto internazionale. Ma che nel contempo sembra sempre più destinata, nella spirale della guerra, a essere messa all'angolo.
Immagine in anteprima: frame video RaiNews via YouTube
