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Come Internet e le AI stanno ridisegnando il divario digitale

18 Maggio 2025 7 min lettura

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Come Internet e le AI stanno ridisegnando il divario digitale

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Internet e l'accesso alle informazioni

Con l’avvento di Internet abbiamo assistito a una democratizzazione dell’informazione senza precedenti. Il costo marginale dell’accesso alle informazioni è quasi zero, una volta online tutto o quasi è più o meno accessibile, da Wikipedia all’enciclopedia Treccani o ai corsi del MIT. Gli argomenti di nicchia (effetto long tail) che prima non rientravano nei manuali scolastici ora sono disponibili per gli autodidatti motivati (anche se qui occorrerebbe includere un discorso sulla disinformazione, che però esula dal contesto). I blog, i video e i social consentono a chiunque di contribuire al discorso pubblico, non solo di fruirne passivamente, a differenza di quanto accade con i media tradizionali (TV e giornali) ad accesso ristretto.

Se l’accesso è democratizzato, l’attraversamento di quella porta dipende da una serie di fattori. Internet ha anche introdotto una frattura tra chi sfrutta attivamente questa risorsa per approfondire le conoscenze e chi, per scelta o per altri motivi, rimane ai margini. Il digital divide moderno si struttura in tre livelli. Il primo livello (studio OCSE) è l’accesso fisico: chi ha un dispositivo di connessione e una connessione stabile. Il secondo riguarda le competenze e la motivazione: chi sa usare in modo critico i motori di ricerca, i social media e in genere le fonti online. Infine abbiamo il terzo livello, quello del ritorno economico e sociale: l’uso che faccio di internet produce benefici concreti in termini di lavoro, capitale culturale o reti relazionali? Ciò evidenzia che le disuguaglianze preesistenti possano essere replicate o addirittura amplificate nel contesto digitale se non si interviene attivamente.

La frattura si alimenta in base a una serie di fattori. I feed premiano i contenuti veloci ed emozionali, il titolo urlato. Chi non sa cercare rimane nella sua bolla informativa chiusa a contaminazioni esterne, quindi relegato ad amplificare i propri bias e ad alimentare la propria polarizzazione. Il sovraccarico informativo è un fattore di rilievo: trovare un articolo scientifico affidabile in mezzo a milioni di pagine, richiede alfabetizzazione informativa. La quantità di informazioni disponibili può essere paralizzante senza le competenze per navigarle criticamente. Infine le condizioni economiche, il tempo libero, il livello di istruzione pregresso e l’ambiente familiare, incidono su come si sfrutta la rete, innestando un circolo vizioso che alimenta il divario.

Ma la frattura non è un destino ineluttabile bensì una disuguaglianza che possiamo ridurre con politiche mirate e un investimento sistematico nell’educazione al pensiero critico e digitale. Un tale intervento dovrebbe essere coordinato a livello statale, al fine di migliorare la cittadinanza, creando degli individui consapevoli, capaci di partecipare attivamente e produttivamente alla gestione della cosa pubblica. Occorrerebbe investire nelle infrastrutture, in particolare spazi pubblici; nell’educazione continuativa per alimentare il pensiero critico già dalle scuole primarie; negli incentivi sociali e culturali, premiando l’uso arricchente di internet e non solo la mera presenza online, valorizzando ruoli di utilizzo della rete a fini di apprendimento. Sarebbe importante anche imporre design responsabili alle piattaforme, che le rendano più trasparenti sugli algoritmi e le AI utilizzate.

A livello personale, invece, è fondamentale imparare a curare le dieta informativa, chiedersi chi pubblica e per quale motivo, condividere le buone pratiche, una sorta di cassetta degli attrezzi con chi ha meno familiarità con le tecnologie.

La promessa di democratizzazione di internet è reale, ma non automaticamente garantita. Richiede uno sforzo consapevole e continuo da parte delle istituzioni, degli educatori, delle piattaforme tecnologiche e dei singoli cittadini per mitigare le disuguaglianze e coltivare un ambiente digitale che favorisca la crescita individuale e collettiva.

AI generative e divide cognitivo

Allo stesso modo le AI generative stanno acuendo il distacco tra chi le sa usare e chi no. Chi le comprende e le utilizza in modo consapevole, ottiene uno strumento che amplia le capacità di apprendimento, creatività e problem solving. Di contro, chi non ha familiarità con queste tecnologie o non vi ha accesso, rischia di essere lasciato indietro sia in termini di competenze che di opportunità.

Le AI generative sembrano, quindi, seguire lo stesso schema, ma forse con un’accelerazione ancora maggiore. La barriera tecnica all’ingresso è più bassa, ma le barriere cognitive sono più alte. Con le AI generative basta il linguaggio naturale, non serve altro, ma occorrono competenze ulteriori: capacità di problem framing, prompt engineering, spirito critico per valutare l’output e, ovviamente, conoscenza del dominio. Si tratta di competenze che non si improvvisano.

Inoltre, la velocità di adozione di questa nuova tecnologia è senza precedenti. Se per arrivare a 1 miliardo di utenti su internet ci sono voluti 15 anni, per le AI generative i tempi si contano in pochi anni. Questo aumenta il vantaggio di chi sperimenta per primo. Chi ha già delle competenze, ad esempio sa scrivere, programmare, analizzare dati, ottiene un aumento di capacità notevole, oltre ad aumentare la propria occupabilità, laddove chi parte da zero necessita di tempi più lunghi per acquisire le capacità di base. Insomma, il possesso di competenze digitali di base è ormai una precondizione. Gli utenti più avanzati - ma questo è comune un po’ a tutti i settori - possono capitalizzare sugli early adopter, tramite corsi, consulenze, prodotti.

Infine, le competenze digitali sono concentrate nelle fasce di reddito più alte, e le offerte che richiedono AI literacy pagano in media di più. Insomma, la selezione favorisce chi possiede già titoli e soft-skill, come abbiamo, purtroppo, potuto ben vedere nel periodo del Covid. È l’effetto “San Matteo” (ai ricchi sarà dato): chi possiede capitale culturale e relazionale sfrutta subito la novità tecnologica; il ritorno extra alimenta ulteriori investimenti in formazione, strumenti, network. Invece chi parte svantaggiato ha meno tempo, denaro e contatti per sperimentare. In una spirale, la forbice si allarga.

Anche qui si tratta di un gap che può essere colmato (vedi il report pubblicato del Joint Research Centre sulle politiche di sostegno). Occorrono corsi di base per un’educazione mirata (come la Finlandia con Elements of AI), prompt design, statistica di base, logica e fact-checking, da avviare nelle scuole (in Italia abbiamo Edvance) e nelle aziende. Occorre anche incentivare gli sviluppatori a creare interfacce visuali. Non devono mancare le politiche pubbliche per la formazione, le biblioteche digitali. A livello personale è essenziale coltivare soft skill: problema solving, pensiero critico, capacità di porre domande chiare.

Le AI generative accentuano il divario tra chi sa usarle e chi no, ma allo stesso tempo offrono un’occasione storica per ridisegnare i percorsi di apprendimento. Se riusciamo a rendere le competenze di prompt-thinking e di valutazione critica parte del bagaglio di base, il divario si può ridurre sul lungo periodo, trasformando un rischio di esclusione in un motore di inclusione. Tutto dipenderà dalle scelte formative, istituzionali e culturali che facciamo.

https://assets.anthropic.com/m/2e23255f1e84ca97/original/Economic_Tasks_AI_Paper.pdf

Disuguaglianze vecchie e nuove

Il rapporto Digital Decade della Commissione europea uscito nel 2024 evidenzia che l’Italia, ma anche in generale l’Europa, è indietro riguardo le competenze digitali. Ciò che emerge è un problema di infrastrutture, che va a penalizzare la popolazione che vive nelle aree rurali, ma anche una questione di livello di istruzione, di cultura generale e di competenze. Lo dimostrano le disparità nelle competenze digitali almeno di base tra gli individui con un livello elevato di istruzione formale (79,8%) e quelli con un livello di istruzione formale basso o assente (33,6%). Si tratta di dati confermati dall’OCSE che fanno emergere un quadro preoccupante e non ben governato.

Le competenze digitali sono sempre più una condizioni essenziale per il lavoro, ma rischiano di provocare nuove disuguaglianze sociali. Se un tempo il digital divide consisteva nella frattura tra chi ha un dispositivo digitale e chi no, le nuove tecnologie stanno reiterando le disuguaglianze, spostando solo l’asticella. Il rischio è che si crei un nuovo tipo di disuguaglianza basata non tanto sull’accesso alla tecnologia, ma sulla capacità di utilizzarla strategicamente. Come con internet, probabilmente assisteremo a una fase di adattamento sociale e culturale, con tentativi di colmare questo divario attraverso l'educazione e la diffusione di competenze.

Le nuove tecnologie non sono neutre: amplificano vantaggi pre-esistenti se lasciate a se stesse. Il passaggio cruciale è trasformare l’accesso fisico in accesso strategico, altrimenti la democratizzazione resta sulla carta. Intervenire ora, con formazione mirata e politiche redistributive di competenze, può far sì che l’AI e le altre tecnologie diventino un leva di mobilità sociale, anziché un acceleratore di disuguaglianze. È fondamentale che impariamo a gestire la transizione tecnologica per massimizzare i benefici collettivi riducendo le disuguaglianze. Altrimenti il vero pericolo è che chi ha le competenze finirà per decidere della vita di tutti coloro che sono ai margini della tecnologia.

In questo quadro, si potrebbe anche pensare che determinate inerzie possano essere strumentali. In questo modo si mantiene, o cerca di mantenere, il controllo del discorso pubblico, si alimentano rendite sui servizi intermediatori (banche, burocrazia, privati privilegiati), si creano barriere d’ingresso (a competenze rare corrispondono salari più alti per i già formati o i figli dell’élite).

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Una quota di “analfabetismo digitale” (Digital Skills and Jobs UE) è certamente frutto di fattori strutturali (povertà, istruzione di base, età). Ma esiste anche una componente politica: alcune istituzioni o élite possono ritenere preferibile una popolazione che usi la tecnologia in modo passivo piuttosto che creativo-critico. La storia mostra però che nel lungo periodo il sapere tende a circolare, alimentato da esigenze economiche, pressioni sociali e innovazioni tecniche difficili da arginare. Il punto non è se la conoscenza verrà diffusa, ma con quale velocità e con quali distorsioni.

Ma alla lunga il costo per lo Stato di non alfabetizzare la popolazione potrebbe essere altissimo, in termini di crescita economica ridotta (il capitale umano è la “macchina” che trasforma l’ICT in produttività, vedi studio OCSE), di competitività internazionale (se gli altri Paesi colmano il gap, attraggono investimenti e talenti) e rischio instabilità nel lungo termine: una popolazione esclusa dall’innovazione diventa terreno fertile per proteste sociali. Del resto, le economie a bassa crescita hanno bisogno di spinta tecnologica per mantenere welfare e consenso elettorale.

Immagine in anteprima: prompt o3, image: DeepDreamGenerator

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