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Tra propaganda e realtà: cosa sta davvero accadendo in Iran

19 Giugno 2025 10 min lettura

Tra propaganda e realtà: cosa sta davvero accadendo in Iran

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L’ultimo grande azzardo di Donald Trump sembra arrivato, con il suo ultimatum della scorsa notte: resa incondizionata o sarà guerra, stavolta anche dagli Usa. E così Netanyahu non solo avrà avuto la sua guerra, ma potrà contare anche sul potente alleato statunitense direttamente al suo fianco. E questo proprio mentre fonti della stessa intelligence statunitense smentiscono nuovamente la fondatezza del casus belli, cioè una presunta immediata volontà di Teheran di dotarsi di un’arma nucleare. 

L’azzardo di Trump sta nel ritenere che i vertici della Repubblica Islamica siano disposti alla “resa incondizionata” davanti ai missili di Israele e alle sue minacce, e che il conflitto si possa personalizzare nella figura della Guida, Ali Khamenei - figura che assicura però di non voler uccidere, almeno per ora. In realtà, oltre certe semplificazioni, secondo le quali Khamenei è “un dittatore”, l’anziano leader al vertice della piramide del potere ha sempre agito come elemento di bilanciamento tra le diverse forze che controllano il sistema. 

Un sistema che si prepara da anni non solo alla successione di Khamenei, ma anche ai peggiori scenari di guerra. Un sistema che si dibatte da decenni tra le diverse anime che lo compongono, e in particolare tra gli elementi militaristi e quelli più propensi alla diplomazia, i quali ancora fino a ieri discutevano fra loro sulla strada migliore per rispondere all’offensiva israeliana; i “duri e puri” della ideologia rivoluzionaria islamica e quelli fedeli alla vocazione religiosa sciita per una resistenza fino al martirio; i più pragmatici e occidentalizzati, molti dei quali seduti al ministero degli Esteri, e  infine quelli che, fra i Pasdaran, hanno fatto di bellicismo e sanzioni le occasioni per accumulare non solo potere politico e pervasivo controllo dell’economia interna, ma anche - accusa l’opposizione – capitali personali trasferiti all’estero. Un sistema, infine, che ormai la guerra totale scatenata il 13 giugno dal premier israeliano Benjamin Netanyahu sembra avere definitivamente messo all’angolo, tanto che oggi Khamenei ha annunciato: “Dobbiamo dare una risposta forte al regime terrorista sionista. Non mostreremo alcuna pietà con i sionisti”. 

D’altronde, è opinione ormai diffusa in Iran che quello dei negoziati di questi mesi - tesi proprio a scongiurare con un accordo il rischio che Teheran si dotasse effettivamente di un’arma atomica – fossero solo una trappola per preparare intanto l’attacco militare, trappola in cui far cadere non solo i fautori del dialogo in Iran, ma anche gli osservatori occidentali. E invece anche stavolta i fatti hanno dimostrato quello che Khamenei aveva sempre detto: che degli Stati Uniti non ci si può fidare. Come d’altronde lo stesso Trump aveva già dimostrato l’8 maggio 2018, abbandonando unilateralmente l’accordo multilaterale del 14 luglio 2015, che Teheran stava rispettando alla lettera, e impartendo una sconfitta politica interna ai moderati iraniani che in quell’accordo avevano creduto. 

Verso una guerra sempre più totale, quali scenari? 

Premesso questo, cosa ci si può attendere da questi scenari di guerra che molti non avrebbero mai voluto vedere? Ci sarà davvero quel “cambio di regime” che subito si è rivelato il vero obiettivo dell’offensiva di Netanyahu, e che anche i nostri media sono da giorni impegnati a preconizzare? E se dovesse davvero crollare, la Repubblica Islamica, cosa potrebbe sorgere dalle sue macerie, a loro volta macchiate dal sangue della repressione del dissenso interno  di questi decenni? 

Premessa necessaria: siamo immersi da giorni in un’atmosfera mediatica che fa pensare a un’imminente caduta della Repubblica Islamica. Anche se, considerato che buona parte delle fonti di informazione viene dagli Usa e dalla stessa Israele, è verosimile pensare che ci troviamo nel mezzo di una vera e propria propaganda di guerra, che appunto esalta i successi e le potenzialità militari di una delle due parti e minimizza le capacità dell’altra. Ma l’ormai concreta eventualità di un intervento americano con le bombe “bunker buster” da 3.000 libbre – le sole capaci di colpire in profondità, sotto una montagna, l’impianto sotterraneo di Fordow – è destinata a sancire definitivamente l’inferiorità militare di Teheran rispetto ai suoi avversari. Fino a oggi tale inferiorità non era scontata, perlomeno sul breve periodo, vista la capacità di reazione dimostrata da Teheran con i suoi missili su Tel Aviv - i cui effetti sono stati molto meno letali dei missili e dei droni israeliani in Iran – e considerato che, probabilmente, i vertici militari iraniani si sono tenuti da parte le armi più avanzate proprio nella prospettiva di un intervento Usa. 

In ogni caso, è probabile che la reazione iraniana sia pronta a scattare anche contro gli Usa: “secondo funzionari americani che hanno esaminato i rapporti di intelligence - scrive il New York Times -  l'Iran ha preparato missili e altri equipaggiamenti militari per attacchi alle basi statunitensi in Medio Oriente, nel caso in cui gli Stati Uniti si unissero alla guerra di Israele contro il paese”. 

A meno dunque di ravvedimenti dell’ultimo minuto da entrambe le parti, i Pasdaran e le forze armate iraniane si preparano a vendere cara la pelle, e questo è destinato a sacrificare vite umane anche tra i militari statunitensi. Da mettere in conto anche gli interventi delle milizie filoiraniane in Libano, Iraq e Yemen - quel cordone di sicurezza che Teheran aveva costruito anche a tutela del proprio territorio, e tuttora operativo nonostante i colpi inferti dal 7 ottobre dalle forze israeliane – nonché un blocco del traffico petrolifero nello stretto di Hormuz. Insomma, le forze armate di Teheran hanno ancora parecchi colpi in canna, prima di una probabile resa definitiva. 

Cosa potrebbe accadere intanto sul piano politico? 

Come si diceva all’inizio, sarebbe sbagliato pensare che la dirigenza politica e militare della Repubblica Islamica si esaurisca nella figura di Khamenei e ne segua i destini. Possiamo certo pensare che, in uno scenario di guerra, la morte o un passo indietro di Khamenei non farebbero scattare il meccanismo previsto dalla Costituzione della Repubblica Islamica: una sorta di triumvirato in attesa che l’Assemblea degli esperti elegga un nuovo leader. Piuttosto, è probabile che la situazione venga presa in mano dai Pasdaran con una successione o un colpo di Stato militare, i cui vertici continuerebbero senza alcuna mediazione politica la guerra contro Israele. E proprio a questo nuovo organo militare al governo spetterebbe appunto stabilire se e quando dichiarare la resa, o meglio: quando fermare il bagno di sangue su scala potenzialmente regionale che ci attende. 

Secondo le fosche previsioni dell’analista di origine iraniana Trita Parsi, “la capitolazione molto probabilmente non è un'opzione per l'Iran, per una serie di ragioni”. La prima sarebbe appunto l’ormai assoluta mancanza di fiducia in Trump, che pregiudica la disponibilità iraniana a fare un passo indietro sull’arricchimento, ma anche a credere nella sua reale volontà di fermare Israele. “Senza missili, aviazione e deterrenza nucleare, l'Iran sarebbe completamente esposto e indifeso. Una volta raggiunto questo obiettivo, gli israeliani spingerebbero per un cambio di regime o per il suo collasso. E dopo, come hanno fatto in Siria dopo la caduta di Assad, spingerebbero per distruggere il resto delle forze armate convenzionali dell'Iran, in modo che l'Iran non possa sfidare l'emergente egemonia militare regionale di Israele per i decenni a venire. Anche l'integrità territoriale dell'Iran sarebbe messa a rischio”. 

Inevitabile dunque per Teheran, ora, la scelta di contrattaccare. “L'Iran pagherà un prezzo incommensurabile. Così come la regione. Ma anche gli Stati Uniti pagheranno un prezzo altissimo. Decine di soldati americani potrebbero essere uccisi. I prezzi del petrolio saliranno alle stelle, e anche i prezzi della benzina nei mesi estivi negli Stati Uniti saliranno alle stelle. L'inflazione salirà. La guerra di Trump contro l'Iran potrebbe distruggere la sua presidenza, così come l'invasione dell'Iraq ha distrutto quella di Bush. L'Iran perderà. Ma anche gli Stati Uniti. Israele è forse l'unico paese che trarrà beneficio da questa guerra scelta”. 

“Non sappiamo se la Repubblica Islamica resisterà, in ogni caso non sarà una passeggiata nemmeno per gli Usa”, conferma dall’Italia a Valigia Blu un altro osservatore in costante contatto con varie fonti interne iraniane, ma che preferisce restare anonimo. Mentre su Foreign Policy un lungo e circostanziato articolo del politologo americano Robert Anthony Pape avverte: “i raid aerei di precisione di Israele non bastano a distruggere il programma nucleare iraniano, e nemmeno il suo governo”. E non hanno disincentivato le sue ambizioni nucleari, anzi potrebbero spingere a un'accelerazione, osserva un articolo sul Guardian, secondo il quale gli attacchi finora non avranno fatto guadagnare molto tempo e Israele potrebbe non essere in grado di infliggere danni più duraturi senza l'aiuto degli Stati Uniti. Inevitabile, dunque, mettere in conto anche interventi diretti sul terreno.  

E se infine la Repubblica Islamica cadesse, what’s next? 

Un’altra, indispensabile premessa: prima di passare alla prossima casella di questo tragico gioco di previsioni, dedichiamo mentalmente un minuto di silenzio all’orrore che ci saremo lasciati dietro. Pensiamo agli anni di guerra e di guerra civile vissuti di recente dall’Iraq e dalla Siria, solo per nominare due paesi geograficamente vicini, e alle centinaia di migliaia di morti che hanno provocato. Pensiamo alla tragedia dello sterminio dei palestinesi di Gaza, da dove anche quest’ultima guerra è cominciata. 

E ora torniamo a pensare a tavolino al futuro politico che attende gli stessi iraniani che ora sono sotto le bombe, già contano centinaia di morti e sono bloccati in interminabili code nel tentativo di fuggire dalla capitale per raggiungere amici e parenti in zone meno toccate dal conflitto. Persone per le quali forse già si prepara l’incubo di condividere il destino dei milioni di profughi da cui il nostro mondo è popolato. Ma facciamolo guardando ai fatti, e non ai sogni che certa diaspora ha trionfalmente tirato fuori dal cassetto attendendo – dalle comode abitazioni in America e in Europa – la “spallata al regime” che Israele sta preparando. Ossia quel “lavoro sporco” che, secondo il cancelliere tedesco Friedrich Merz,  Netanyahu starebbe facendo per noi. 

In precedenti articoli (qui il più recente) su Valigia Blu sono stati analizzati più nel dettaglio i profili dei leader delle diverse opposizioni che si preparano al cambio di regime, in particolare da quando si è pensato che il movimento Donna Vita Libertà del 2022 potesse essere l’anticamera di una “rivoluzione” da sfruttare per le diverse agende politiche di un’opposizione all’estero variamente divisa e frammentata. In questa sede ci limitiamo a registrare le ultime dichiarazioni di Reza Pahlavi, il figlio ed erede dell’ultimo scià, che vive negli Usa e la cui prima visita all’estero, dopo la nascita di quel movimento, era stata proprio in Israele. 

“La Repubblica Islamica è giunta alla sua fine – ha dichiarato nel suo discorso virtuale più recente ai connazionali - ed è in procinto di crollare. Khamenei, come un topo spaventato, si è nascosto sottoterra e ha perso il controllo della situazione. Ciò che è iniziato è irreversibile. Il futuro è luminoso e, insieme, supereremo questa brusca svolta della storia”. “Per anni ho cercato di impedire che la nostra patria fosse consumata dal fuoco della guerra”, ha proseguito, ma ora che “l'apparato repressivo del regime sta cadendo a pezzi, tutto ciò che serve è una rivolta nazionale per porre fine a questo incubo una volta per tutte. Ora è il momento di sollevarsi; il momento di riprendersi l'Iran”. “L'Iran – assicura ancora - non sprofonderà nella guerra civile o nell'instabilità. Abbiamo un piano per il futuro dell'Iran e per la sua prosperità. Siamo preparati per i primi cento giorni dopo la caduta, per il periodo di transizione e per l'istituzione di un governo nazionale e democratico”. Infine, l’invito alle forze armate e di sicurezza non contro ma con il popolo iraniano. 

Insomma, un vero proclama di auto-investitura, nel solco di quel programma, da tempo annunciato, di essere tramite per la transizione democratica, sia essa per una Repubblica o per la ripresa della monarchia. Un proclama certo fondato su quella nuova base di simpatizzanti guadagnata in questi tre anni dal suo partito, nella diaspora come all’interno del paese, ma che ancora una volta bypassa lo snodo fondamentale: cosa potrebbe spingere la Repubblica a cadere? Mentre quell’accento di Pahlavi sui “cento giorni” sembra confermare che anche lui partecipi attivamente al piano israeliano per un “regime change”, i fatti dimostrano che per ora, dall’interno, sono solo elementi iraniani addestrati dai servizi israeliani ad agire: in particolare azionando dal territorio quella raffica letale di droni, oltre che di attacchi con autobombe, che sembra rappresentare in buona parte l’arsenale dell’offensiva israeliana. Per ora insomma di rivolte di popolo non abbiamo notizia. 

Appare invece molto più probabile che, come già accaduto dopo l’invasione irachena del 1980, anche chi non ama la Repubblica Islamica si ricompatti nella difesa nazionalistica del proprio paese contro la minaccia esterna. Inoltre, non sono poche del resto le voci, anche su quei social media percorsi da messaggi di iraniani che plaudono alla guerra come anticamera della liberazione dal “regime”, di persone ostili alla Repubblica Islamica ma che si oppongono a una liberazione guidata dallo stesso governo che ha distrutto e massacrato a Gaza, e che ora sembra pronto a fare altrettanto in Iran. 

È dunque doveroso ricordare la voce di Narges Mohammadi, dissidente che ha ricevuto il premio Nobel per la Pace mentre si trovava in carcere, e che con altre figure di rilievo come la Nobel Shirin Ebadi e i registi Jafar Panahi e Mohammad Rasoulof, ha scritto: “Noi, attivisti della società civile iraniana e firmatari di questa dichiarazione, chiediamo l'immediata cessazione dell'arricchimento dell'uranio da parte della Repubblica islamica, la cessazione delle ostilità militari, la fine degli attacchi alle infrastrutture vitali sia in Iran che in Israele e la cessazione dei massacri di civili in entrambi i paesi". 

“Profondamente rispettosi dell'integrità territoriale dell'Iran e del diritto inalienabile del suo popolo all'autodeterminazione nel contesto di una reale sovranità – prosegue -, crediamo che il continuo arricchimento dell'uranio e la devastante guerra tra la Repubblica Islamica e Israele non siano di alcun beneficio per il popolo iraniano né per l'umanità in generale". “L'unica via credibile per preservare questo paese e il suo popolo è che le autorità attuali si dimettano e facilitino una transizione pacifica verso una democrazia autentica". 

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Sulla stessa linea una raccolta di firme online avviata in questi giorni da iraniani che vivono in Italia, e che lancia un appello affinché la comunità internazionale fermi l’attacco di Israele.”L’Iran sarà libero – vi si legge -. Ma sarà libero grazie alle sue figlie e ai suoi figli. Non con la violenza esterna, ma con la forza di una società civile che continua a resistere”.

Chissà se c’è ancora qualcuno, in Europa e negli Usa, disposto ad ascoltare.

 

3 Commenti
  1. Giuseppe

    Ci sono troppi interessi in gioco e non è solo una questione di governo.L'America sta continuando a portare avanti la sua politica egemonica e sembra ogni giorno più vicinja alla deriva democratica. Suo destino dell'Iran qualcosa da dire ce l'ha la Russi di Putini e la Cina di Xi. Nessuno è in grado di predire cosa avverrà nei prossimi giorni, ma certamente nulla di positivo per la pace in Medio Oriente

  2. Giuseppe

    Ci sono troppi interessi in gioco e non è solo una questione di governo. L'America sta continuando a portare avanti la sua politica egemonica e sembra ogni giorno più vicina alla deriva democratica. Sul destino dell'Iran qualcosa da dire ce l'ha la Russia di Putin e la Cina di Xi. Nessuno è in grado di predire cosa avverrà nei prossimi giorni, ma certamente nulla di positivo per la pace in Medio Oriente

  3. romke

    La scusa del pericolo nucleare iraniano è l'occasione per Israele, ora o mai più, di distruggere le retrovie della lotta palestinese per i prossimi venti o trent'anni disarmando così i palestinesi stessi. Non rimangono più altri "amici" al popolo palestinese. Il tempo che Israele guadagnerà con la sovversione dell'Iran lo userà per ridurre ulteriormente le enclaves palestinesi e rendere omogeneo il territorio dello stato. Almeno i balbettii sulla panzana di "due popoli due stati", tanto esibiti da politicanti di ogni razza, non avranno più ragione di essere. Auguri e forza ai popoli che sono già dentro e agli altri che saranno trascinati nel calderone della guerra.

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