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Cosa sappiamo dei 60 palestinesi uccisi in coda per il cibo a Gaza?

6 Giugno 2025 6 min lettura

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Cosa sappiamo dei 60 palestinesi uccisi in coda per il cibo a Gaza?

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Tra l’1 e il 3 giugno almeno 60 palestinesi sono stati uccisi dopo che le forze israeliane hanno aperto il fuoco in un centro un centro di distribuzione alimentare a Gaza, secondo quanto riferito da alcuni testimoni. 31 persone sono state uccise domenica 1 giugno, tre lunedì 2 e altre 27 martedì scorso. 

Le uccisioni di questi giorni non fanno altro che aumentare le critiche al nuovo sistema di distribuzione dei rifornimenti nella Striscia di Gaza, gestito dalla Gaza Humanitarian Foundation (GHF), sostenuta da Israele e dagli Stati Uniti. L’Alto Commissario per i diritti umani dell'ONU, Volker Türk, ha sintetizzato con queste parole il dilemma di fronte al quale si trovano gli abitanti di Gaza: “Morire di fame o rischiare di essere uccisi mentre cercano di accedere al poco cibo che viene messo a disposizione”. Gli attacchi contro i civili, ha aggiunto, sono il risultato di “scelte deliberate” volte a privarli dei beni di prima necessità e costituiscono un crimine di guerra. 

Un approfondimento del Guardian fa il punto sul funzionamento del sistema di distribuzione degli aiuti umanitari a Gaza.

Cosa sappiamo sulle uccisioni di questi giorni?

Le uccisioni tra l’1 e il 3 giugno sono avvenute tutte nella stessa zona, vicino alla rotatoria di al-Alam, a circa 1 km dal centro di distribuzione della GHF a Rafah. L'esercito israeliano non è presente sul posto, dove sono di competenza gli appaltatori americani armati, ma controlla le zone circostanti.

L’1 giugno, soccorritori e testimoni hanno riferito che le forze israeliane hanno aperto il fuoco mentre le persone si radunavano prima di andare a ritirare i pacchi di cibo. Israele ha negato di aver sparato “vicino o all'interno” del sito, ma una fonte militare israeliana ha successivamente ammesso che “sono stati sparati colpi di avvertimento verso diversi sospetti” a circa 1 km di distanza. Il GHF ha negato che ci siano stati “feriti, morti o incidenti” durante le sue operazioni. L'agenzia di protezione civile di Gaza ha riferito che 31 persone sono state uccise e altre 176 ferite.

Il 2 giugno, l'esercito israeliano ha nuovamente ammesso di aver sparato colpi di avvertimento contro “sospetti che avanzavano verso le truppe e rappresentavano una minaccia per loro”. Tre persone sono state uccise, secondo il Comitato internazionale della Croce Rossa (CICR), e decine sono rimaste ferite.

Il 3 giugno, testimoni hanno riferito che gli spari sono iniziati alle 4 del mattino, quando la folla ha iniziato a radunarsi nel tentativo di ottenere cibo prima che il centro esaurisse le scorte giornaliere. “L'esercito israeliano ha sparato in aria, poi ha iniziato a sparare direttamente sulla gente”, con un elicottero e dei droni presenti mentre la folla si avvicinava a una barriera che la separava dalle forze israeliane, ha affermato un testimone ad AFP.

L'IDF ha affermato che i “sospetti” non si sono ritirati dopo i colpi di avvertimento e che “ulteriori colpi sono stati diretti contro alcuni sospetti che avanzavano verso le truppe”. Secondo quanto dichiarato dall’esercito, le persone nella cui direzione è stato aperto il fuoco non stavano seguendo le “vie di accesso designate” al sito del GHF, una strada costiera che, secondo un esperto intervistato dalla BBC, non è né “sicura né efficace”.

I funzionari sanitari locali hanno stimato che il bilancio delle vittime è di 27 morti, tra cui almeno tre bambini. Mohammed Saqr, capo infermiere dell'ospedale Nasser, che ha accolto i corpi, ha detto al Guardian che presentavano ferite da schegge che sembravano compatibili con il fuoco di carri armati o artiglieria.

Cosa suggeriscono le testimonianze sulla gestione della distribuzione da parte di GHF?

Le testimonianze suggeriscono che, oltre alla condotta delle forze israeliane, ci sono altri fattori che aggravano la situazione. Secondo quanto riferito al Guardian, le scorte di cibo si esauriscono molto presto ogni giorno, aumentando il caos mentre le persone cercano disperatamente di procurarsi provviste per sé e le loro famiglie. Già se fossero aperti tutti i centri GHF, un gran numero di persone bisognose di assistenza sarebbe costretto a concentrarsi in pochissimi luoghi; con un solo centro operativo aperto e una sola via di accesso consentita, la situazione è ancora peggiore.

A ciò si aggiunge la difficoltà fisica del viaggio per chi vive più lontano. “Ci vogliono tre o quattro ore per raggiungere il punto di distribuzione da qui”, spiega Amjad al-Shawa, direttore della Rete delle organizzazioni non governative palestinesi nella città di Gaza. “Ci sono decine di migliaia di persone in attesa di ricevere una quantità molto limitata di pacchi alimentari, quindi c'è una grande affluenza. Non c'è alcuna organizzazione: aprono semplicemente il cancello e dicono alla gente di entrare. Questo meccanismo esclude gli anziani, le donne con bambini, i malati e le persone con disabilità”.

La quantità di cibo distribuita è adeguata?

Il GHF afferma di aver distribuito finora poco più di sette milioni di pasti e che aumenterà le scorte nei prossimi giorni. Ma il 4 giugno i centri di distribuzione sono stati chiusi per “lavori di aggiornamento, organizzazione e miglioramento dell'efficienza” e l'esercito israeliano ha detto che, mentre i siti erano chiusi, le aree che conducevano ad essi sarebbero state considerate “zone di combattimento”.

Il fatto che il cibo finisca così presto ogni giorno testimonia quanto la domanda disperata superi di gran lunga l'offerta. Secondo l'Unicef, al 12 maggio quasi tutta la popolazione di circa 2,1 milioni di persone viveva in una condizione di carestia, una persona su cinque era a rischio di morte per fame e circa 71.000 bambini e 17.000 madri avevano bisogno di cure urgenti per malnutrizione acuta.

Nulla lascia presagire che la situazione possa migliorare

Sebbene il GHF abbia cercato di sottolineare la quantità di cibo distribuito finora, ci sono motivi per dubitare che sarà in grado di gestire i siti in modo più ordinato in tempi brevi.

Il direttore esecutivo, Jake Wood, si è dimesso la scorsa settimana, affermando che non era possibile operare in modo conforme ai “principi umanitari”; il 3 giugno è stato sostituito dal reverendo Johnnie Moore. Donald Trump ha nominato Moore commissario per la libertà religiosa internazionale, ma Moore non ha alcuna esperienza apparente in operazioni di aiuto complesse. 

Nel frattempo, secondo quanto riportato dal Washington Post, il Boston Consulting Group, che ha contribuito a progettare il programma, ha ritirato il suo team che lavorava a Tel Aviv. Fonti vicine all'operazione hanno dichiarato che “sarebbe difficile per la fondazione continuare a operare senza i consulenti che hanno contribuito a crearla”.

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Con il peggiorare della situazione, aumentano le pressioni diplomatiche nei confronti di Israele, dopo le prese di posizione di Regno Unito, altri paesi europei e Canada. Tuttavia, rimane saldo il sostegno dell'amministrazione Trump.

Il 4 giugno gli Stati Uniti hanno posto il veto su una risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che chiedeva un “cessate il fuoco immediato, incondizionato e permanente” a Gaza. Gli altri 14 paesi membri del Consiglio hanno invece votato a favore. La risoluzione bocciata definiva “catastrofica” la situazione a Gaza e chiedeva “la revoca immediata e incondizionata di tutte le restrizioni all'ingresso degli aiuti umanitari a Gaza e la loro distribuzione sicura e senza ostacoli su larga scala, anche da parte dell'ONU e dei partner umanitari”. È la quinta volta che gli Stati Uniti pongono il veto su una bozza di risoluzione del Consiglio di sicurezza riguardante Israele. 

Immagine in anteprima: frame video YouTube

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