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Il dollaro americano reggerà a Trump?

28 Aprile 2025 11 min lettura

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Il dollaro americano reggerà a Trump?

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In questi mesi si è discusso molto del potenziale impatto delle politiche e dell’incertezza dell’amministrazione Trump sull’economia americana e globale. Vari istituti specializzati hanno aggiornato al rialzo le probabilità di una recessione per l’anno corrente. Lo stesso Presidente degli Stati Uniti ha sostenuto che le sue politiche avranno bisogno di un tempo di assestamento, un prezzo da pagare per cambiare la composizione economica del paese. Proprio quest’ultimo aspetto è stato meno discusso dai commentatori. La parola “crisi” (o “recessione”) porta con sé un significato temporaneo, nonostante gli strascichi. Al contrario, parlare in termini di trasformazione indica un cambiamento più profondo e duraturo nel tempo. Non si applica soltanto ai piani dell’amministrazione Trump: sfuggendo al loro controllo, le mosse della Casa Bianca stanno già innescando un cambiamento nel comportamento, nei rapporti di forza e nelle scelte strategiche sia degli investitori sia degli Stati. 

La fine del privilegio esorbitante?

Uno degli effetti delle politiche dell’amministrazione Trump riguarda l’importanza del dollaro (e dei titoli di Stato americani) come valuta di riserva. Che cosa significa tutto ciò? 

Quando si afferma che il dollaro è la principale valuta di riserva mondiale significa che è la moneta più utilizzata a livello globale per conservare valore e regolare transazioni internazionali: ad esempio nel mercato delle materie prime, come gas e petrolio, la maggior parte delle transazioni sono effettuate proprio in dollari. Il motivo è che gli Stati Uniti, a seguito della Seconda Guerra Mondiale, sono stati considerati come il paese più stabile e prospero. 

Il fatto che il dollaro sia utilizzato come valuta di riserva ha due conseguenze, una positiva e - almeno nella visione di Trump - una negativa. Partiamo da quest’ultima: proprio perché gli altri paesi e le imprese richiedono dollari come salvaguardia della loro liquidità e per fare transazioni, ciò porta a un apprezzamento del dollaro e quindi a un maggior costo delle esportazioni dei beni americani. Per questo motivo, nel corso degli anni, la posizione commerciale sul lato dei beni degli Stati Uniti è stata pesantemente negativa, accumulando vari deficit commerciali. Una delle conseguenze è che il paese si è specializzato nel settore dei servizi, in cui hanno un vantaggio considerevole nei confronti del resto del mondo. 

C’è poi l’aspetto positivo. Poiché i dollari sono così richiesti in quanto asset sicuri, gli Stati Uniti possono indebitarsi, emettendo titoli di Stato, a un costo molto basso. Infatti gli investitori, data la natura sicura dei treasury (titoli di Stato americano), sono disposti ad acquistarli anche con rendimenti più bassi rispetto ad altri: gli economisti lo chiamano convenience yield. Questo fatto ha garantito agli Stati Uniti la possibilità di indebitarsi senza offrire rendimenti elevati anche in momenti di crisi, garantendo quindi un maggior spazio fiscale per politiche espansive, come successe durante la crisi del 2008. Ciò prende il nome di “privilegio esorbitante”. 

L’aspetto negativo gioca oggi un ruolo cruciale, come ha spiegato in un articolo su LaVoce.Info Tommaso Monacelli, professore di macroeconomia all’Università Bocconi. Una parte considerevole dell’amministrazione Trump, compreso il Presidente, ritiene infatti che la forza del dollaro sia una delle cause della crisi del settore manifatturiero americano e quindi del disequilibrio della bilancia commerciale, un fenomeno che ha portato al depauperamento di varie zone degli Stati Uniti (come la Rust belt). L’idea di Trump e dei falchi della sua amministrazione, continua Monacelli, è che il resto del mondo debba compensare per l’utilizzo del dollaro come valuta di riserva. La strategia dei dazi di Trump nasce proprio da queste convinzioni. 

Come detto, le politiche commerciali e la loro attuazione hanno portato a un calo del mercato azionario. Questo avrebbe dovuto spostare l’interesse degli investitori verso beni più solidi come i titoli di Stato americani. Ma, proprio a causa delle erraticità dell’amministrazione, gli Stati Uniti vengono oggi percepiti come un paese meno solido e affidabile rispetto al passato. Perciò, oltre al calo azionario, si è visto un aumento dei rendimenti sui titoli di Stato e un indebolimento del dollaro, segnale che l’intera economia americana. Come spiegato dal giornalista del Financial Times John Burn-Murdoch, questo si traduce in un maggior costo per l’americano medio. Con il calo del dollaro, sarà ancora più gravoso l’acquisto di beni importati e l’aumento dei rendimenti lascia meno spazio fiscale e una maggior pressione sul debito degli Stati Uniti. 

Questa situazione è resa ancora più complessa dalle minacce di Trump all’indipendenza della Federal Reserve (FED), cioè la Banca Centrale Americana, e al suo Presidente Jerome Powell. Negli ultimi tempi si sono intensificati gli attacchi di Trump a Powell, che secondo il Presidente non fa abbastanza per sostenere l’economia americana. Uno degli economisti della Casa Bianca ha recentemente dichiarato che l’amministrazione sta cercando di comprendere come rimuovere Powell dal suo ruolo, qualora non venisse incontro alle richieste di Trump. 

L’indipendenza delle banche centrali: perché è importante

Nelle economie moderne, le banche centrali e la loro indipendenza rivestono un ruolo cruciale in diversi ambiti, ma quello fondamentale riguarda la gestione dell’offerta di moneta. Gli strumenti principali sono i tassi di interesse settati dalle banche centrali. In breve, questi tassi determinano quanto sia conveniente per le banche commerciali detenere liquidità oppure immetterla nell’economia, ad esempio concedendo prestiti. Più elevato sono elevati i tassi, maggiore è l’incentivo a trattenere la liquidità, riducendo così l’offerta di moneta.

Secondo buona parte degli economisti, i tassi di interesse non influenzano significativamente la crescita economica di lungo periodo, che dipende principalmente da fattori strutturali come l’innovazione tecnologica. Tuttavia, assumono un'importanza cruciale nel breve periodo per contrastare recessioni o contenere l’inflazione.

Per stimolare l’economia in una fase recessiva, la banca centrale può ridurre i tassi di interesse. In questo modo, le banche sono incentivate a erogare credito, favorendo investimenti da parte delle imprese, creazione di posti di lavoro, aumento dei consumi e, in ultima analisi, una ripresa della domanda aggregata. Al contrario, quando l’economia è in una fase di surriscaldamento e l’inflazione accelera, la banca centrale può aumentare i tassi di interesse, restringendo l’offerta di moneta e frenando così la domanda per contenere l’aumento dei prezzi.

Questi due regimi- quello recessivo e quello inflazionistico- mostrano l’importanza che giocano le banche centrali nella stabilizzazione di un’economia. Il problema è in che modo vengono prese le scelte di politica monetaria, e qui entra il gioco l’indipendenza delle banche centrali. Il rischio, infatti, è che i governi intervengano sulla scelta degli strumenti della politica monetaria per garantire una buona performance dell’economia nel breve periodo, in modo tale da avere un ritorno dal punto di vista elettorale. 

C’è però la possibilità che l’emissione di moneta da parte della banca centrale porti sì a un’espansione economica nel breve periodo, ma che il sistema economico non sia in grado di assorbirla portando così sul medio periodo a un aumento dell’inflazione. Non solo: un secondo rischio, legato all’inflazione, deriva dalla trasparenza della banca centrale. Qualora gli investitori percepissero che la Banca Centrale non risponde a obiettivi come la stabilizzazione dei prezzi, ma a volontà politiche, potrebbero perdere fiducia nella sua indipendenza, innescando un aumento dei premi al rischio, una maggiore volatilità dei mercati e pressioni al rialzo sull’inflazione stessa.

Questo è stato uno dei principali problemi che si sono trovati ad affrontare le economie  negli anni ‘60 e ‘70. A quel tempo le banche centrali erano strettamente collegate al potere esecutivo e la loro politica monetaria accomodava il potere politico di turno come successe, appunto, negli Stati Uniti. La banca centrale addirittura acquistava i titoli di debito per finanziare lo Stato e aumentava la base monetaria, ovvero la moneta circolante e i depositi finanziari. Questo, più che stimolare l’economia, portò a un aumento dell’inflazione- assieme a fattori esogeni come la crisi petrolifera. 

Proprio quel periodo ha fatto comprendere la necessità dell'indipendenza della banca centrale dal potere politico. In particolare, le decisioni di politica monetaria sono lasciate alle Banche Centrali che devono perseguire obiettivi fissati dalla politica. Negli Stati Uniti, in particolare, la FED persegue le sue scelte in base a quello che viene chiamato “doppio mandato”: le sue decisioni devono essere orientate sia alla stabilità dei prezzi sia alla tenuta dell’occupazione.

Come fece notare in un suo discorso Ben Bernanke, Premio Nobel per l’Economia nonché Presidente della FED durante la crisi del 2008, l’indipendenza delle banche centrali ha garantito una maggior stabilità sul fronte inflazionistico, senza tuttavia compromettere la crescita economica. 

Quello che ha manifestato Trump nei suoi attacchi a Jerome Powell è proprio un attacco frontale all’indipendenza della banca centrale. Il Presidente Americano è consapevole degli effetti negativi che avranno le sue politiche commerciali e il modo incerto in cui le sta portando avanti. Per questo Trump, dietro alla critica a Powell che non starebbe facendo abbastanza per l’economia, cela la volontà di un controllo da parte del potere esecutivo della banca centrale. 

In particolare, come ha fatto notare in un suo articolo su Substack Fabio Sabatini, professore di economia alla Sapienza, Trump agirebbe su due fronti. Innanzitutto costringendo la FED ad abbassare i tassi di interesse per evitare gli effetti inflazionistici dei dazi. Allo stesso tempo,  dovrebbe sostenere la domanda di titoli di stato, per evitare effetti sul mercato. Questo però, sottolinea sempre Sabatini, porterebbe a una maggiore preoccupazione da parte degli investitori e a una fuga di capitali che andrebbe quindi a peggiorare proprio la situazione sul fronte del dollaro, come spiegato nel paragrafo precedente. 

Le opportunità per l’Euro

In una situazione come quella che si è delineata, è naturale che gli investitori cerchino un’altra valuta di riserva. Come sottolineato da un recente lavoro che utilizza i dati a elevata frequenza per comprendere la situazione nel suo sviluppo, questa potrebbe essere proprio l’Euro. Infatti, gli autori del lavoro evidenziano come gli investitori hanno cominciato a vedere di buon occhio asset come i Bund tedeschi. Ciò è dovuto a quello che gli autori chiamano “Treasury basis. Questo termine misura la differenza di rendimento tra un titolo USA e quello di un altro paese, in questo caso Germania, coperto contro il rischio di cambio per essere equivalente a un investimento in dollari. O, per dirla con parole più semplici, sempre degli autori: permette di comparare mele con le mele. 

In passato, questo differenziale era positivo. Questo significava che gli investitori erano disposti ad accettare un rendimento inferiore data la sicurezza dei titoli americani. Quel valore oggi è negativo, ovvero gli investitori percepiscono una maggiore sicurezza negli asset sicuri in Euro rispetto a quelli in dollari. Come conseguenza il rendimento dei titoli americani aumenta, portando a un maggior esborso per gli Stati Uniti per piazzare i propri titoli di debito sul mercato. 

Gli investitori quindi già oggi manifestano un maggior interesse nei confronti dell’euro come valuta di riserva. La strada però può essere molto complicata, oltre che lunga. In primo luogo, e questo è l’aspetto meno problematico, ci sarà da capire il comportamento della Banca Centrale Europea (BCE). Fino a oggi, la BCE ha mantenuto la sua indipendenza e il suo impegno per la stabilità dei prezzi, senza cedere a provocazioni venute dai governi- si pensi al caso del governo Meloni. 

La credibilità della banca centrale quindi è fondamentale affinché gli investitori vedano nei titoli di stato europei un asset sicuro. 

E qui entra in gioco il primo aspetto problematico: asset europei di quali paesi? Uno degli ostacoli affinché l'Euro venga percepito come valuta di riserva deriva proprio dall’elevata frammentazione dell’eurozona e da una politica fiscale comune che si è manifestata solo saltuariamente- con il Next Generation EU (NGEU) ad esempio. Qualora infatti venissero emessi titoli europei in maniera strutturale, il rischio sarebbe sensibilmente più basso rispetto a quelli emessi dai singoli paesi- pensiamo di nuovo all’Italia che per via del suo elevato debito e dei problemi strutturali che la affliggono presenta dei rendimenti per i titoli di stato più elevati rispetto ad altri. La strada è quindi quella di una maggiore unione anche sul piano fiscale, in grado di soddisfare l’esigenza degli investitori di titoli di stato sicuri. 

Il secondo nodo cruciale riguarda la situazione economica dell’Europa. Si è detto che il dollaro è stato utilizzato per settant’anni come valuta di riserva proprio in virtù del fatto che gli Stati Uniti rappresentavano un paese solido economicamente. Si può dire lo stesso dell’Europa di oggi? Più volte si è sottolineato quanto l’Europa abbia perso competitività rispetto ai competitor globali come Cina e Stati Uniti. Affinché l’euro possa ambire allo status di valuta di riserva è necessario che l’Europa colmi il suo gap d’innovazione e quindi di crescita con i suoi partner. 

Ovviamente l’operazione non sarebbe indolore. Se da una parte permetterebbe rendimenti minori in quanto safe asset, l’euro come valuta di riserva comporterebbe gli stessi effetti che ha sugli Stati Uniti. Si assisterebbe a un apprezzamento dell’Euro, che andrebbe a penalizzare le esportazioni di beni. A esserne avvantaggiati sarebbero le esportazioni di altri paesi come la Cina, ma i contraccolpi politici potrebbero non essere di poco conto: un cambiamento di questo tipo andrebbe a colpire i lavoratori del settore manifatturiero. Nel caso in cui portasse a un calo massiccio dell’occupazione nel settore, i cittadini che hanno perso il lavoro potrebbero sposare visioni di tipo populista, come dimostra la ricerca in merito negli Stati Uniti riguardo la competizione cinese. 

A questo si aggiunge proprio la volontà della Cina di giocare un ruolo cruciale nel nuovo assetto internazionale. Già in precedenza insieme ai BRICS aveva avanzato l’ipotesi di affidarsi sempre meno al dollaro, senza tuttavia proporre una valuta di riserva. Davanti alla guerra commerciale intentata dagli Stati Uniti, la Cina si sta cercando di ritagliare un ruolo complementare a quello degli Stati Uniti, a tal punto da minacciare i paesi che faranno accordi con l’amministrazione Trump che passeranno dal danneggiare la Cina. Questo fa presagire che oltre al comportamento degli USA, un aspetto fondamentale della trasformazione del commercio mondiale passerà dai rapporti tra Europa e Cina. 

Il Dollaro è in difficoltà, ma la strada è lunga

Abbiamo visto che negli ultimi tempi si è assistito a una fuga del dollaro da parte degli investitori, con un aumento dei rendimenti sui titoli di stato americani. Questo mostra le prime crepe in un sistema che aveva retto almeno dagli accordi di Bretton Woods del 1944: quello della dominanza del dollaro sulle altre valute e quindi la centralità degli Stati Uniti nel commercio globale. 

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L’amministrazione Trump sta erodendo lo status di potenza affidabile che gli Stati Uniti si sono costruiti. La guerra commerciale da una parte e l’incertezza con cui vara o sospende i provvedimenti stanno via via alienando i favori degli investitori e degli altri agenti di mercato. 

Tuttavia, l’alternativa non è così semplice. Un euro come valuta sovrana, come ha suggerito il Presidente della Repubblica francese Emmanuel Macron nelle settimane precedenti, ha sicuramente i suoi lati positivi. Tra questi, vale la pena citare il costo minore di indebitamento che affronterebbero gli Stati- o l’Europa unita. Ma allo stesso tempo va inserito in un contesto più ampio che passa, tra le altre cose, proprio dal rilancio della domanda aggregata interna nell’Eurozona per far fronte a un potenziale apprezzamento dell’euro, le cui conseguenze sarebbero una minore competitività sulle esportazioni. 

L’aspetto da sottolineare è che, se è vero che si sono aperte le prime crepe al dollaro come valuta di riserva, un suo tramonto non è ipotizzabile nel prossimo futuro. Quanto velocemente avverrà dipenderà da vari fattori, tra cui le scelte dell’amministrazione Trump riguardo l’indipendenza della banca centrale e le sue politiche commerciali, in particolare sui dazi, ma anche dalla reazione di altri paesi come quelli afferenti ai BRICS e alla volontà della politica europea di correggere le storture dell’Unione e rilanciare la crescita in Europa. 

(Immagine anteprima via rawpixel) 

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