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“Il virus circola nell’aria”: da dove nasce la notizia, cosa dicono gli studi e la posizione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità

4 Aprile 2020 12 min lettura

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“Il virus circola nell’aria”: da dove nasce la notizia, cosa dicono gli studi e la posizione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità

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Il nuovo coronavirus circola libero nell’aria e rischiamo di essere contagiati anche solo camminando mentre andiamo a fare la spesa? In tal caso, come possiamo evitarlo? Cosa fare se lungo i nostri tragitti a piedi incrociamo sul marciapiede un’altra persona? Quali precauzioni adottare? Dobbiamo indossare tutti le mascherine? Non si era detto che il virus si diffonde per contatto stretto?

Sono queste le domande che molti si stanno ponendo dopo che in questi giorni testate giornalistiche di tutto il mondo hanno ripreso alcune ricerche pubblicate nell’ultimo mese che ipotizzano la possibilità che il virus possa circolare nell’aria e trasmettersi non necessariamente attraverso contatti stretti con persone che hanno contratto COVID-19. La questione centrale è: il virus viaggia nell’aria? Ci si può contagiare attraverso l’aria che respiriamo? E cosa significa circolare nell’aria?

Finora, secondo le indicazioni fornite dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, sappiamo che il nuovo coronavirus “SARS-CoV-2” è un virus respiratorio che si diffonde principalmente attraverso il contatto stretto con una persona malata (un operatore sanitario, una persona con cui si è stati a contatto faccia a faccia, qualcuno con cui si convive, compagni di viaggio seduti nella stessa fila o nelle due file antecedenti, ad esempio in aereo) entro un periodo di 14 giorni prima o dopo la manifestazione della malattia. 

La via primaria di contagio sono le goccioline del respiro delle persone infette, ad esempio quando tossiscono o starnutiscono, attraverso contatti diretti personali, toccando con le mani contaminate (non ancora lavate) la bocca, il naso o gli occhi. In rari casi il contagio può avvenire tramite contaminazione fecale.

In ogni caso, si legge sul sito dell’OMS, sono in corso ulteriori studi per comprendere meglio le modalità di trasmissione del virus.

La questione della possibilità che il virus possa diffondersi nell’aria è tornata d’attualità alcuni giorni fa negli Stati Uniti per poi essere ripresa praticamente dappertutto. Lo scorso primo aprile la National Academy of Sciences (NAS) ha inviato una lettera a Kelvin Droegemeier, capo dell'Ufficio della politica scientifica e tecnologica della Casa Bianca, sostenendo che, per quanto gli studi attuali non siano definitivi, alcuni risultati possono far pensare che il nuovo coronavirus possa trasmettersi non solo attraverso le grandi goccioline emesse con un colpo di tosse o con uno starnuto, ma anche attraverso la respirazione o parlando.

Dopo questa lettera, riporta Science, i Centri statunitensi per il controllo e la prevenzione delle malattie (CDC) – che finora avevano seguito le indicazioni dell’OMS sulle modalità di trasmissione di “SARS-CoV-2” – starebbero per cambiare la propria posizione sulla questione e suggerire ai cittadini americani di indossare le mascherine quando sono in luoghi pubblici per ridurre la diffusione del virus.

A far propendere per questa nuova ipotesi c’è stata anche la notizia dei 45 membri di un coro di 60 persone nello Stato di Washington che si sono ammalate dopo aver provato insieme nonostante avessero evitato di stare a stretto contatto. 

Tuttavia, come riporta la CNN, anche il primo firmatario della lettera, Harvey Fineberg, ex rettore della Harvard School of Public Health e presidente del comitato permanente della NAS sulle malattie infettive, ha precisato che per quanto “sia ipotizzabile che si possa restare contagiati se si genera un aerosol del virus in un ambiente chiuso, all’esterno è molto probabile che venga disperso dal vento”. 

Di quale aria parliamo?

I timori e la confusione sono stati generati dall’affermare genericamente che “il virus circola nell’aria”, come hanno fatto alcuni media anche in Italia. Tuttavia, come spiega Ed Young su The Atlantic, parlare di trasmissione nell’aria di un virus, in termini tecnici, ha un significato molto specifico. 

Quando le persone sono infette da un virus respiratorio emettono particelle virali ogni volta che parlano, respirano, tossiscono o starnutiscono. Queste particelle sono racchiuse in goccioline (“droplet”) di muco, saliva e acqua. Le goccioline più grandi sono più pesanti e cadono a una distanza ravvicinata (e per questo motivo è stata data l’indicazione di mantenere la distanza di almeno 1 metro dalle persone a noi vicine). I globi più piccoli evaporano, lasciando virus secchi in sospensione nell’aria, e si spostano più lontano: questi sono chiamati “aerosol”. Produciamo aerosol quando espiriamo l’aria dai polmoni o quando parliamo.

Quando i ricercatori affermano che un virus “è disperso nell’aria”, come nel caso del morbillo o della varicella, significa che si muove come aerosol, cioè nuvole di sostanze invisibili a occhio nudo che, in presenza di moti turbolenti, possono spostarsi molto lontano. 

Ma è questo il caso del nuovo coronavirus? È un virus che infetta coprendo grandi distanze nell’aria aperta?

Le ricerche pubblicate finora suggeriscono che il virus resta nell’aria circostante i pazienti ricoverati negli ospedali, sembra posarsi sugli impianti di aerazione, nei bagni, sui pavimenti sotto i letti dei degenti, ma non ci sono evidenze che dimostrano che queste particelle siano contagiose. In un articolo pubblicato la scorsa settimana, Lydia Bourouiba del MIT, ad esempio, è giunta alla conclusione che esalazioni, starnuti e tosse scatenano nuvole vorticose e in rapido movimento di goccioline e aerosol oltre il metro di distanza finora raccomandato. Tuttavia, la ricercatrice ha commentato che “non è noto se ci siano implicazioni cliniche rispetto a COVID-19”.

La domanda da fare, quindi, non è se “SARS-CoV-2” resti nell’aria, ma: fino a che punto si sposta il virus? Ed è abbastanza stabile e concentrato da poter essere contagioso nel suo spostamento? E resiste all’aria aperta?

La maggior parte della trasmissione, spiega a Nature Ben Cowling, epidemiologo dell’Università di Hong Kong, avviene a distanza ravvicinata. L’idea di nuvole di virus che si muovono nell’aria e ci inseguono è fuorviante, aggiunge a The Atlantic Linsey Marr, esperta di trasmissione di malattie trasportate dall'aria alla Virginia Tech: «Il rischio di [infezione] è maggiore se sei più vicino a chi è contagiato e si è in luoghi affollati, ma se si è a distanza di sicurezza, stare all’aria aperta fa bene alla salute ed è fantastico».

A febbraio, gli scienziati di Wuhan, in Cina, dove ha avuto origine la pandemia, hanno raccolto campioni d’aria di diverse aree pubbliche all’aperto e hanno dimostrato che il virus non era rilevabile o era presente in concentrazioni estremamente basse, fatta eccezione per due luoghi molto affollati: di fronte a un grande magazzino e nei pressi di un ospedale. Tuttavia, per ogni metro cubo d’aria è stata rilevata meno di una decina di particelle virali. Non si sa ancora quante particelle virali siano necessarie per dare origine a un contagio, nel caso di SARS, per fare una comparazione, uno studio aveva stimato tra le 43 e 280, un numero molto maggiore rispetto a quelle rinvenute a Wuhan.

Probabilmente, ha detto a The Atlantic Joshua Santarpia, uno degli autori delle ricerche fin qui fatte sulla presenza nell’aria del nuovo coronavirus, col tempo «scopriremo che come molti altri virus, [SARS-CoV-2] non è particolarmente stabile in condizioni esterne come la luce solare o le temperature calde». 

In altre parole, ci troviamo davanti a un virus che potrebbe – ma non ci sono evidenze ancora tali per sostenerlo con certezza – diffondersi attraverso l’aria che respiriamo in ambienti chiusi per distanze superiori a 1 metro (ma non si sa ancora quanto grandi), non di fronte a un gas libero di contagiarci in spazi aperti.

Cosa dicono le ricerche finora

Nature, Science e The Atlantic hanno fatto il punto della situazione sugli studi finora a disposizione. Si tratta di ricerche ancora preliminari, spesso in attesa di valutazione, o addirittura pubblicate come pre-stampa.

Il 10 marzo, in uno studio in pre-stampa, non soggetto a peer-review, il virologo Ke Lan dell’Università di Wuhan ha raccolto campioni di aria all’interno e intorno agli ospedali della metropoli dove erano ricoverati persone affette da COVID-19 nel culmine dell’epidemia e nei pressi di due grandi magazzini. La ricerca non è stata in grado di dimostrare la contagiosità delle particelle virali presenti nell’aria, ma ha rilevato che man mano che i pazienti venivano dimessi la concentrazione di particelle diminuiva. Lan è giunto alla conclusione che “la sanificazione degli ambienti è fondamentale per limitare la trasmissione del virus via aerosol negli spazi chiusi”.

Un altro studio ha campionato l’aria delle stanze di un centro COVID a Singapore dove erano ricoverati tre pazienti in isolamento. Nel caso di un paziente, sono state rilevate particelle virali nell’aria della stanza nel bagno (probabilmente provenienti dalle feci della persona contagiata) e sui condizionatori. Questo potrebbe suggerire che in un ambiente chiuso la malattia può trasmettersi anche respirando la stessa aria in cui si trova un malato. Tuttavia, i due autori della ricerca – Kalisvar Marimuthu e Oon Tek Ng del National Center for Infectious Diseases di Singapore – hanno precisato nelle conclusioni che lo studio necessita di ulteriori approfondimenti e aggiornamenti perché limitato nelle dimensioni del campione analizzato e nelle condizioni in cui sono stati raccolti i dati.

Un team di ricercatori degli Stati Uniti ha sparato fluidi carichi di virus in un cilindro rotante per creare una nuvola di aerosol. Attraverso questo esperimento, gli studiosi hanno scoperto che un virus può sopravvivere e rimanere infettivo per almeno 3 ore. Ma, come spiegato a Nature anche da uno degli autori della ricerca, Jamie Lloyd-Smith, studioso di malattie infettive all'Università della California a Los Angeles, si tratta di una sperimentazione fatta in condizioni “altamente artificiali” che non riflette ciò che accade mentre cammini per strada. Quello sperimentato dagli scienziati USA è più simile a ciò che accade in contesti ospedalieri, durante procedure simili a quelle di intubazione dei pazienti quando si corre il rischio di aerosolizzazione del virus. È questa, tra l’altro, una delle situazioni più rischiose evidenziate anche dall’Istituto Superiore di Sanità nel protocollo pubblicato lo scorso 30 marzo sulle procedure di sicurezza di tutti gli operatori sanitari.

Lo studio più recente è quello pubblicato il 26 marzo da un gruppo di ricercatori del Nebraska, guidato da Joshua Santarpia. Il team di ricerca ha trovato tracce di RNA del virus nelle stanze occupate da 13 pazienti affetti da COVID-19, la maggior parte dei quali presentavano sintomi lievi. RNA virale è stato rinvenuto sulle spondine del letto, in bagno, ma anche su punti più difficili da raggiungere come le griglie dei condizionatori, i davanzali delle finestre e il pavimento sotto i letti. La concentrazione più alta è stata registrata vicino ai pazienti che venivano aiutati con cannule di ossigeno. I test di campionamento dell’aria hanno consentito, inoltre, di rilevare particelle virali fluttuanti a un metro dai pazienti, nei corridoi delle stanze dove erano ricoverati e appena fuori le porte.

Questo dimostrerebbe che il virus permane nell’aria sottoforma di aerosol e "le particelle virali sono prodotte da individui affetti da COVID-19, anche in assenza di tosse”, ma non rappresenta nulla di allarmante, spiegano gli autori della ricerca. Rilevare RNA virale nell’aria è come trovare le impronte sulla scena del crimine: il colpevole era lì ma potrebbe essere scomparso nel tempo. Le particelle rinvenute nei campioni d’aria campionati, spiega Santarpia a The Atlantic, non erano infettive. Presto, ha proseguito il ricercatore, saranno pubblicati i risultati di nuovi test: la presenza di particelle infettive sarebbe la prova che il virus può coprire anche lunghe distanze in una stanza di ospedale, ma anche in questo caso mancherebbero dei dati per provare che quelle particelle siano sufficienti per dare origine a un contagio.

La questione non è se il virus è nell’aria, come detto, ma quanto devono essere concentrate le particelle virali sottoforma di aerosol per infettare altre persone presenti nella stessa stanza? Quante particelle ci vogliono per generare un contagio? Quali distanze può coprire il virus mantenendosi stabile e infettivo? 

Sono tutte domande ancora senza risposta e che necessitano di esperimenti a lungo termine. «Per ottenere queste risposte, dovremmo esporre gli animali a diverse quantità di virus nell'aria, vedere se vengono infettati e comparare i dati raccolti con quelli del virus rilevati nei luoghi dove ci sono le persone infette», spiega a The Atlantic Bill Hanage, epidemiologo ad Harvard. «Ci vogliono anni per scoperte del genere».

Che fare?

Come detto, la questione della trasmissione del virus nell’aria per ora riguarda gli ambienti al chiuso. In particolare, commentano Santarpia e Marr a The Atlantic, i luoghi più rischiosi sono i supermercati, le stanze di ospedale, gli ascensori, tutti quegli ambienti dove è facile che ci siano assembramenti di persone in spazi ristretti. Gli esperti sentiti da Nature e The Atlantic consigliano di seguire le indicazioni suggerite dall’OMS e dai governi: lavarsi le mani frequentemente, evitare gli assembramenti, mantenere un metro almeno di distanza dagli altri, areare i locali più volte al giorno.

«È molto più rischioso toccare superfici condivise che respirare la stessa aria in poco tempo», spiega ancora Joshua Santarpia, uno degli autori delle ricerche sulla contagiosità degli aerosol del virus prodotti dai pazienti colpiti da COVID-19. Più che le mascherine, suggerisce il ricercatore dell’Università del Nebraska, occorrerebbe usare guanti quando si va a fare la spesa e disinfettare le mani prima di uscire.

Tuttavia, proprio il ricorso alle mascherine è diventato uno degli argomenti più dibattuti dopo l’ipotesi che il virus possa trasmettersi anche parlando ed espirando dai polmoni. Finora, l’OMS aveva consigliato di indossarla se ci sono dei sintomi respiratori, anche comuni, come tosse e difficoltà a respirare, se si è a stretto contatto con persone con questi sintomi e se si lavora come operatore sanitario. Non è necessaria invece a chi non ha sintomi respiratori, anche perché indossarla non protegge al 100% da un possibile contagio.

Successivamente, è stato raccomandato di non acquistare mascherine per evitare che gli operatori sanitari ne restino sprovvisti. Tuttavia, sempre più, col diffondersi dell’epidemia in tutto il mondo, opinionisti, rappresentanti delle istituzioni, persino riviste scientifiche hanno esortato i paesi occidentali a usare le mascherine seguendo l’esempio di quanto accade in Asia orientale. L’idea che si sta facendo strada è che, anche se non proteggono dal rischio di essere contagiati, indossare le mascherine chirurgiche possa impedire a qualcun altro di essere infettato nel caso in cui si sia portatori asintomatici del virus.

La maggior parte delle mascherine sono usa-e-getta, il loro impiego dura poche ore e devono essere sostituite dopo ogni utilizzo. Invece, molte persone tendono a usare sempre le stesse per molte ore o per più giorni. In questi casi, commenta Santarpia, le maschere rischiano di produrre l’effetto opposto: «Pochi le indossano correttamente e invece di proteggere diventano possibili agenti di infezione, perché hai messo qualcosa sul tuo viso che ti fa venire voglia di toccarti di più, o toccare l'esterno della maschera, che è contagiosa».

Cosa dicono l’OMS e l’Istituto Superiore di Sanità?

Il 29 marzo l’OMS ha pubblicato un documento che fa un nuovo punto su COVID-19. L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha spiegato che, allo stato attuale, le modalità di trasmissione della malattia sono ancora quelle indicate in precedenza e, cioè, attraverso goccioline del diametro tra 5-10 μm, emesse attraverso tosse o starnuti, mediante il contatto stretto con persone infette e contatto indiretto con superfici o con oggetti toccati dai malati. 

La trasmissione aerea, invece, può essere possibile solo in circostanze e contesti specifici in cui vengono eseguite procedure o trattamenti di supporto che generano aerosol, come l’intubazione endotracheale, la broncoscopia, la somministrazione di trattamento nebulizzato, la ventilazione manuale prima dell'intubazione, rotazione del paziente in posizione prona, disconnessione del paziente dal ventilatore, ecc. 

Sulla base delle prove disponibili, comprese le recenti pubblicazioni, l'OMS continua a suggerire le precauzioni indicate finora per evitare il contagio. Tuttavia, per quanto riguarda l’utilizzo dei dispositivi di protezione come le mascherine, l’Organizzazione si dice pronta a eventuali aggiornamenti nel caso in cui emergeranno nuove evidenze.

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Sulla questione è intervenuto anche l’Istituto Superiore di Sanità. Nel corso della conferenza stampa del venerdì, il presidente Silvio Brusaferro ha spiegato che «non ci sono al momento evidenze che il virus circoli nell'aria. (...) Questa via era nota in determinati contesti, come quelli sanitari, ma al momento - ha precisato - la letteratura scientifica indica che le principali vie di diffusione del virus sono quelle per droplet e per contatto».

Infine, intervistato durante la trasmissione Ombinus su La7, l’epidemiologo Pierluigi Lopalco, a capo della task force della Regione Puglia su COVID-19, ha precisato che la persistenza nell’aria di «goccioline più leggere, che rimangono sospese magari un po’ di più nell’aria, che possono avere un ruolo nella trasmissione» riguarda «chi lavora in ambienti chiusi e chi lavora dove ci sono dei casi e, quindi, è importante soprattutto per gli operatori sanitari». Per questo motivo, l’epidemiologo ha ribadito che «se si fa una passeggiata non ha senso indossare la mascherina se siamo da soli. La mascherina è importante quando ci troviamo insieme ad altre persone. Che non ci venga la paranoia che nell’aria delle città circoli questo virus che ci possa infettare semplicemente camminando all’aperto».

Immagine in anteprima via blogsicilia.it

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