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I droni ucraini smascherano la debolezza di Putin

3 Giugno 2025 4 min lettura

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I droni ucraini smascherano la debolezza di Putin

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L’attacco massiccio di droni attuato nel corso dell’operazione “Pautina” (ragnatela) da parte dell’intelligence ucraina domenica 1 giugno, un giorno prima del secondo round di colloqui a Istanbul, mette in evidenza un elemento a prima vista paradossale: la totale impreparazione dell’apparato di sicurezza russo, che ha raggiunto dimensioni colossali – nel 2020 il Centro “Dos’e” calcolava in circa duecentomila gli agenti dell’Fsb, erede del Kgb sovietico, invece da fonti ufficiali sappiamo che la Rosgvardiya, la Guardia nazionale russa, ha 370.000 effettivi – con una enorme capacità di repressione del dissenso, eppure incapace di poter far fronte alle azioni di sabotaggio organizzate da Kyiv. 

Le critiche agli apparati di sicurezza dopo la giornata di domenica sono state forti tra i sostenitori della guerra a oltranza, quando quattro basi aeree, dislocate in varie regioni della Russia, dall’Artico alla Siberia, sono state preda di ben 117 apparecchi, partiti da container azionati a distanza e all’insaputa degli autisti: un inganno degno del cavallo di Troia (come è stato definito persino dagli analisti russi più ultranazionalisti) e un ulteriore colpo all’immagine di quei siloviki, gli “uomini della forza”, ovvero gli agenti delle varie strutture di intelligence e sicurezza, ritenuti uno dei pilastri del regime di Vladimir Putin. 

Vero, immediatamente dopo l’inizio dell’operazione vi son state perquisizioni nel deposito da dove sarebbero partiti i camion, a Chelyabinsk, e non è stato così difficile per gli uomini dell’FSB locale arrivarci, era a poco più di quattro chilometri di distanza dall’ufficio regionale dell’intelligence, praticamente sotto gli occhi, di solito ben vigili, su chi protesta contro la guerra o pubblica libri o post ritenuti di propaganda LGBT+ o ha donato qualche centinaio di rubli alle campagne in sostegno dei media indipendenti e delle organizzazioni politiche proibite, ma in questa occasione distratti. 

D’altronde, l’impegno indefesso per prevenire le minacce di sovversione nelle scorse settimane ha portato in galera un giovane studente dell’Università statale di San Pietroburgo, Garri Azaryan, colpevole di aver parlato di “rivoluzione” in una riunione del gruppo studentesco “Potere operaio”; assieme ad Azaryan altri pericolosi ribelli si son macchiati di reati in grado di minacciare la solidità del regime del Cremlino, come Artem Pronko, accusato di aver affisso un cartello con la scritta “la scienza è morta” al collo della statua della Minerva davanti all’edificio centrale dell’ateneo pietroburghese. E che dire di un altro pericolo pubblico, Nikolay Dmitruk, che a Tula il 9 maggio ha assistito alla parata in occasione del Giorno della Vittoria indossando una maglietta con una Z (simbolo dei sostenitori dell’aggressione all’Ucraina) sbarrata e la scritta “pace al mondo, no alla guerra”? Denunciato dai solerti attivisti ultranazionalisti, l’anziano uomo è stato multato per 45.000 rubli, pari a 496,33, in una regione dove la pensione media è di 22.744 rubli (250,85 euro): d’altronde l’ascensore sociale è per chi si arruola, non per chi contesta pacificamente il conflitto… E mentre i droni si alzavano in volo per colpire i caccia bombardieri strategici, gli agenti arrestavano a Ekaterinburg Dmitry Novikov, sceso in piazza con un cartello in solidarietà ai prigionieri politici, per poi rilasciarlo: l’uomo è recidivo, già in altre cinque occasioni è stato fermato per aver protestato contro la guerra e le repressioni.

Si tratta solo di un breve estratto della lunga lista di arresti, condanne, fermi effettuati ogni giorno dall’FSB, dalla Rosgvardiya e dalle forze dell’ordine, impegnate a sorvegliare la tranquillità del regime nelle strade, sui social, nelle università e sui luoghi di lavoro. Un carico enorme di controllo che ha impedito di sventare questa giornata comparata, da qualche osservatore a digiuno di storia ma affamato di analogie e dai voenkory – i blogger ultranazionalisti al fronte – a Pearl Harbour, eppure Leonid Volkov ha ragione a sottolineare come non vi sia nulla in comune con l’attacco preventivo lanciato dal Giappone contro la base americana nelle Hawaii: la Russia è in guerra ormai da tre anni, le perdite statunitensi potevano essere compensate mentre i Tu-95 e Tu-22, gioielli dell’aviazione militare sovietica destinati al lancio di ordigni nucleari, e di cui ne sarebbero stati distrutti quattro nel corso dell’attacco, non vengono più prodotti dall’inizio degli anni Novanta. 

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No, l’operazione Pautina non è Pearl Harbour, e nonostante il suo carattere eclatante potrebbe non arrestare le mire del Cremlino, eppure è riuscita in qualcosa di ben più importante dal punto di vista politico, in un periodo di prove tecniche di negoziato: mostrare come sia possibile continuare a infliggere perdite devastanti alle forze armate russe e al tempo stesso umiliare l’FSB e il suo ex direttore, da venticinque anni a capo del paese. 

Inoltre, nonostante l’attacco sia stato pianificato da tempo, appare simbolico che abbia preceduto il secondo vertice russo-ucraino a Istanbul, dove ancora una volta la distanza tra le parti è apparsa totale. I due documenti consegnati dalle delegazioni ribadiscono le proprie posizioni: da un lato, Mosca rivendica l’annessione delle regioni del sud-est ucraino – includendo anche i territori non occupati – la demilitarizzazione e la richiesta di elezioni presidenziali e legislative; Kyiv, invece, non arretra sull’integrità territoriale, sull’adesione alla NATO e sulle riparazioni di guerra. Appare chiaro che gli incontri servono a dimostrare a Donald Trump la volontà di trattare, ma in verità una ulteriore escalation sembra essere più di una ipotesi e potrebbe avvenire in contemporanea con i colloqui, senza alcun passo in avanti verso una pace giusta e duratura.

Immagine in anteprima via Radio Free Europe

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