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Qual è il prezzo che ognuno di noi, come lettore, è disposto a pagare?

27 Luglio 2013 6 min lettura

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Qual è il prezzo che ognuno di noi, come lettore, è disposto a pagare?

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di Q Code Mag
Mensile di informazione

Siamo un gruppo di free-lance. E oggi siamo editori.
Siamo Q Code Mag, un sito in rete e un’idea di mensile nativo per tablet. Crediamo in un giornalismo profondo, a volte anche lento, narrativo. E i nostri temi naturali sono gli esteri, la geopolitica, i diritti e la cultura.

In un mese di vita, sulla rete, abbiamo già raccolto reazioni di entusiasmo, una piccola comunità di lettori, in crescita costante. Ma ci inseriamo nel dibattito di Valigia Blu per fornire un nuovo spunto che ha a che vedere con editori, professione, denaro e pubblico.

Siamo nudi, vestiti solo di un’idea: riscoprire il fascino della lettura e di argomenti ostici agli analytics, andando a scavare la nicchia del nostro pubblico con l’esatto contrario delle regole della divinità globale Google. I nostri articoli sono spesso lunghi, non osservano nessuna regola del Seo (Search Engine Optimization). Per noi una ripetizione fra titolo, occhiello, sommario e attacco del pezzo rimane ancora da matita rossa e non una regola per indicizzarci.

Siamo scientemente fuori mercato, ma cerchiamo di utilizzare i social media al meglio per creare comunità.

Non abbiamo budget: l’idea è nata dopo un licenziamento collettivo a E – Il Mensile, PeaceReporter un anno fa. Siamo rimasti a casa in una ventina. Unica prospettiva il sussidio, la cassaintegrazione, un mercato morto, impossibile vivere di collaborazioni a pezzo e nello stesso tempo proseguire sulla strada del nostro interesse per un giornalismo che verifica, che scava, che racconta. Ed è quello che un drappello di ex colleghi ha iniziato a immaginare.

Non abbiamo una redazione fisica. Qualcuno può sorridere di questo. Eppure ci manca, perché la redazione è il luogo del dibattito del giornale, la stanza si ferma, le opinioni si scontrano, si scherza, si litiga.

Non abbiamo un modello di sviluppo che ci lasci sereni sull’esito di questa impresa: saremo associazione, gireremo nelle comunità di riferimento, sui social media nel crowfunding, fisicamente nelle città, stiamo studiando una collana di ebook, stiamo disegnando strategie per arrivare al demo del mensile per tablet, quindi al denaro necessario per tradurre i nostri articoli in inglese e spagnolo e finalmente provarci, come editori, sul mercato del download o del revenue sharing.

Noi non ci paghiamo. E a chi vuole collaborare, i messaggi sono molti e continuano ad arrivare, rispondiamo con una mail: “Grazie della tua proposta. Non abbiamo un budget, per ora. Ti consigliamo di provare a vendere questa tua idea sul mercato prima di pubblicarla su Q Code. Se ritiri la proposta saremo i primi a capirti”.

Perché questa dinamica si propone innanzi tutto a noi che lo abbiamo fondato, il giornale. Una questione di normale sopravvivenza.

Ma le risposte che riceviamo ci dicono alcune cose: molti collaboratori (parliamo anche di corrispondenti brizzolati o colleghi che occupano funzioni di comando in altre testate) vogliono scrivere su Q Code Mag. E accettano la gratuità in nome del fatto che molti argomenti, così come lo stile di scrittura, non trova patria in gran parte dei soggetti che ‘fanno’ il mercato oggi.

Invertire una tendenza consolidata senza una corazzata economica alle spalle equivale a farsi dare del Don Quijote. Abbiamo ricevuto alcune critiche, in verità poche, che ci accusavano di aver creato l’ennesimo prodotto editoriale in cui non si onora il lavoro con una somma di denaro, facendo leva solo sulla gratuità.

È così vero che i primi a non percepire denaro sono gli editori, che sono redattori, che sottraggono il tempo alla notte, perché di giorno – per fare il giornale – si deve badare al primo lavoro.

L’utopia, che contrariamente al senso comune non è mai impossibile, è crescere insieme ai lettori e ai collaboratori per arrivare a sperimentarci sul mercato. Non siamo ingenui: abbiamo tentato bandi, cercato di farci aiutare dagli esperti di start-up – molto in voga nei mesi scorsi -. Ma il punto centrale rimane sempre quello: se non puoi levarti una parte del Tfr, o del sussidio per chi ce l’ha, o una quota percentuale del salario di chi ha trovato altri lavori per costruire un capitale iniziale dovresti rinunciare a tentare l’impresa?

Per noi no. Non è solo una questione personale, che appaga e vogliamo dirlo perché vedere lo slancio e la ricchezza di argomenti che ci vengono proposti è emozionante, è una questione che attiene i lettori. Una parte di questi viene bersagliata dall’informazione mordi e fuggi, dallo stimolo del click, finisce nelle trappole delle colonnine a destra dei big, quelle del castoro che piange, il delfino parlante e l’ultima sfilata di lingerie al Polo.

Il mercato è dopato: quella massa di click che raccogli attraverso un giornale e che riguardano temi non giornalistici – altro che caldi! – drogano costantemente il mercato e spingono le asticelle e le classifiche dei più cliccati in una dimensione di evidente e globale menzogna.

Togliete le colonne a destra, parlate di esteri e cultura, oltre che del gossip di palazzo, levate le tette e le vip in spiaggia, inserite del vero entertainement, vera multimedialità e misuriamoci su quello che siamo chiamati, per mestiere, vocazione o dovere, a fare davvero: informare.
Senza essere esterofili, fatevi un giro su The Guardian, Le Monde, El Pais. Siamo su altri standard.

Ma torniamo a Q Code Mag. Se non fossimo in rete a queste condizioni, non avremmo nulla da far vedere a chi vorrà investire su di noi. Non avremmo iniziato il corteggiamento dei futuri lettori, avremmo perso tutta la ricchezza di pensiero e idee che si sta srotolando quotidianamente nelle mail, nei troppi caffè al bar, nelle chat notturne con altre latitudini.

Questa esperienza nasce da una drammatica chiusura di un giornale, quindi non da una spinta emotiva fresca di un gruppo di professionisti a mente sgombra, ma dalla cupa impotenza di chi si ritrova a cercar lavoro e per di più senza un luogo che sia piattaforma per esprimersi, per scrivere, per partecipare a creare consapevolezza sulle cose del mondo.  Crediamo, senza particolare vanto, che sia anche questa nostra condizione a invogliare i nostri collaboratori, quest’ansia di spazi aperti, di libertà e di una curiosità che riguarda il futuro: sapremo essere sostenibili?

Infine. La grande battaglia culturale che ci riguarda, tutti. Siamo convinti che l’informazione sulla rete possa essere gratuita, così come siamo altrettanto convinti che un prodotto editoriale, studiato con cura, che richiede lavoro e professionalità, debba essere pagato.

Scontiamo l’essere italiani. Un panorama asfittico e concentrato nelle mani di pochi, di sostanziale monopolio, una visione miope sugli investimenti per la Rete, vecchie dinamiche di finanziamento, appiccicose aderenze fra il sottobosco di chi comanda ed editori che ascoltano la Borsa e il marketing, non per investire sul prodotto, ma per replicare modelli di massa, al ribasso, che portino altro denaro.
Scontiamo, nel gotha dei direttori che giocano ai quattro cantoni, lo scarso coraggio di provare a bestemmiare il marketing.

Di questa battaglia culturale noi, come altri che sono già presenti in Rete, possiamo essere ambasciatori. Gli esempi fulgidi che ci vengono da tante esperienze internazionali non riguardano solo le condizioni di mercato, ma anche la sobrietà e la forma che il medium sceglie, per rivendicare autorevolezza.

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Siamo un giornale che non dovrebbe esistere. Ma che c’è. La scommessa, a questo punto, non riguarda solo i nostri destini redazionali, ma anche una domanda che ci piacerebbe rimanesse a dibattito: qual è il prezzo che ognuno di noi, come lettore, è disposto a pagare?

Da lì, per una editoria come la nostra, discende la dignità di quello che si potrà offrire ai collaboratori, a noi stessi.

(foto via)

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