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Ministero, Inps e Istat: la guerra di cifre sul lavoro che non serve ai cittadini

12 Maggio 2015 4 min lettura

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Ministero, Inps e Istat: la guerra di cifre sul lavoro che non serve ai cittadini

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Sul mercato è in atto una guerra di cifre, spesso usate per sbandierare risultati del programma di governo. Ma sono battaglie che hanno spesso smentito sia i titoloni dei grandi quotidiani, sia le parole del governo stesso.

Dopo i dati pubblicati dal ministero del Lavoro e quelli dell’Istat, ieri l’Inps (Istituto Nazionale di Previdenza Sociale) ha reso pubblici quelli dell’"Osservatorio sul precariato" per il trimestre gennaio-marzo 2015. Come prima cosa, occorre ricordare che i dati Inps riguardano solo il lavoro subordinato, quindi non comprendono le tipologie contrattuali “atipiche”: collaboratori, intermittenti e neppure il “pubblico impiego gestione ex Inpdap, lavoratori domestici e operai agricoli”.

Chiarito questo aspetto, secondo i dati del'Inps il numero di nuovi posti di lavoro a tempo indeterminato tra gennaio e marzo 2015 è 54.110, cioè il saldo tra le 470.785 attivazioni di nuovi rapporti e le 416.675 cessazioni. Alle nuove assunzioni non bisogna aggiungere il numero di trasformazioni di contratti in quanto queste ultime rappresentano rapporti di lavoro già in essere. Ignorando questo aspetto, infatti, il saldo tra attivazioni e cessazioni risulterebbe pari a  203.151, drogando non poco il dato effettivo sui nuovi posti di lavoro.

Facendo un po’ di luce sulle variazioni mensili, se il dato di gennaio e febbraio esprime un saldo di 45.703, ciò vuol dire che a marzo il numero di posi di lavoro in più è di 8.407, differenza tra il saldo di gennaio e febbraio e quello di marzo (54.110).

A trainare l’incremento trimestrale dei posti di lavoro è stato lo sgravio contributivo alle imprese dato che l’84% dei nuovi contratti sono stati stipulati tra gennaio e febbraio quando era ancora vigente il vecchio statuto dei lavoratori. Mentre il connubio tra incentivi alle imprese e tutele crescenti sembra stimolare solo esiguamente i nuovi contratti di lavoro. Un dato trimestrale che non ha nulla di sorprendente.

Perché allora gli ultimi dati Istat mostrano un calo dell’occupazione e un aumento della disoccupazione?
A differenza dei dati amministrativi forniti dall’Inps e dal ministero del Lavoro, i numeri dell'Istituto nazionale di statistica dicono quanti occupati e disoccupati ci sono in Italia in un dato momento (ad esempio marzo 2015) tenendo conto di tutte le tipologie contrattuali: quel che in economia viene definita una grandezza stock.
Dati che derivano da un’indagine fatta su un campione rappresentativo della popolazione.

Quelli forniti da Inps e Ministero, invece, sono dei dati di flusso. Registrano, cioè, quanti soggetti entrano ed escono da un rapporto contrattuale tra l’inizio e la fine di un determinato periodo di tempo (ad esempio tra il primo e il 31 marzo). Così come i dati dell’Istat sono campionari, quelli del ministero e dell’Inps sono parziali riguardo i settori di attività considerati, quindi nessuna delle tre banche dati è esaustiva e ognuna ci indica qualcosa di cui tenere conto con la dovuta onestà intellettuale.

È possibile quindi che un soggetto intervistato a metà marzo fosse disoccupato al momento in cui ha risposto all’indagine Istat ed è stato assunto qualche giorno dopo, facendo registrare un aumento nel numero dei contratti riportati dal ministero del Lavoro e Inps. Allo stesso tempo, è possibile che un altro individuo sia stato licenziato a marzo e risulti disoccupato al momento dell’intervista Istat, ma il datore di lavoro non ha comunicato entro la fine del mese la cessazione del rapporto e di conseguenza Ministero e Inps non catturano la variazione negativa che emerge nel numero di disoccupati Istat.

Quindi se da un lato nessun vero exploit arriva dal mercato del lavoro, se non quanto già previsto, dati gli sgravi alle imprese, dall’altro, la qualità del lavoro salariato in Italia sembra in continuo peggioramento. Come per gennaio e febbraio le retribuzioni contrattuali dei neo assunti diminuiscono rispetto ai neo assunti del primo trimestre 2014, soprattutto nel caso di trasformazioni di contratti a tempo determinato in indeterminato (60 euro mensili in meno), come registra l'Inps.

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I proclami del presidente del Consiglio, Matteo Renzi, secondo cui «dopo cinque anni di crollo costante, tornano a crescere gli occupati» rimangono dunque propaganda: bisognerà attendere infatti i dati definitivi per valutare se queste esigue variazioni positive dei contratti valgono anche per la miriade di quelli atipici, cioè se si sta parlando di un aumento dell'occupazione e non già della sostituzione di contratti atipici con contratti a tutele crescenti, diversamente atipici anch'essi.

Dovremo anche aspettare i dati definitivi dell'indagine sulle forze lavoro dell'Istat per capire se i nuovi contratti a tempo indeterminato sono a tempo pieno o vanno a rimpolpare la massa di lavoratori con contratti part-time involontari, se i nuovi lavoratori sono giovani in cerca di primo impiego o pensionati che provano a sfuggire alla povertà. Ma soprattutto, è necessario attendere ancora qualche trimestre per capire in che modo il mercato del lavoro italiano uscirà, se lo farà, dalla palude degli ultimi decenni.

Quindi in conclusione:
1) Bisogna aspettare almeno 6 mesi per ragionare su dati (più o meno) consolidati

2) È troppo chiedere un coordinamento tra i soggetti che rilasciano questi dati per permettere ai cittadini di capire?
3) Il tema del lavoro è fondamentale: è possibile avere un confronto, un dibattito pubblico all'altezza?

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