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In difesa dell’hashtag e dell’attivismo digitale

18 Agosto 2014 10 min lettura

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In difesa dell’hashtag e dell’attivismo digitale

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L'attivismo digitale che valore ha? Un hashtag, una campagna online può davvero cambiare le cose? È un tema complesso e affascinante. Con tutti i suoi limiti e le sue criticità l'hashtag activism è un fenomeno da prendere sul serio, è una spinta alla partecipazione da parte dei cittadini, una modalità per contribuire (ancor di più) a spezzare il monopolio delle notizia, a fare "agenda" su temi e vicende ignorate (a volte anche volutamente) dai media mainstream e dalla politica. Può essere criticato appunto nelle sue debolezze, fragilità e contraddizioni, ma quello che non si può fare - a mio avviso - è banalizzarlo e ridicolizzarlo, soprattutto se a farlo sono testate "tradizionali".

In difesa dell'hashtag activism

Non si dovrebbe partire dagli aneddoti o da case history, ha ragione Mary Joyce - esperta di attivismo digitale, fondatrice di Meta-activism, responsabile per i new media della Campagna per Obama 2008 e curatrice del libro Digital Activism Decode: nel valutare e studiare un fenomeno come l'attivismo digitale non bisogna partire dai casi di successo o insuccesso, anche perché in ogni caso misurare l'impatto di una mobilitazione o di una campagna è qualcosa di estremamente soggettivo.

The measuring of impact thus becomes extremely subjective. Digital activism proponents want to count mobilization as success even when the goal is not achieved, while skeptics and pessimists point out that, by traditional measures, most digital activism campaigns are failures.  Though I am certainly a proponent of digital activism, I would actually side with the skeptics here.  In order to really push the field forward, we need to set high standards for digital activism success and not be satisfied with half-measures.

In una intervista del 2010 dice:

Uno degli argomenti del libro è proprio la necessità da parte nostra di smetterla con l'approccio all'attivismo fondato sull'aneddoto. L'abbondanza di aneddoti non fa che frammentare la nostra comprensione e fornisce sia agli ottimisti che ai pessimisti le munizioni con cui si combattono in dibattiti inestricabili circa il valore dell'attivismo digitale, ciascuno forte del proprio cumulo di aneddoti. Abbiamo bisogno di iniziare a valutare assunti e teorie con un'analisi e dei dati rigorosi.

Però è di questi giorni il caso #Ferguson, (l'hashtag non è casuale, scrivo volutamente così perché la storia di questa vicenda è strettamente connessa alle dinamiche dei social media e dell'hashtag activism - in questo caso tra l'altro l'attivismo digitale si fonde e confonde virtuosamente con il citizen journalism), nel Missouri dove un ragazzo di colore disarmato è stato ucciso dalla polizia. Vale la pena mettere in evidenza alcuni aspetti della storia, che, nell'analisi e valutazione dell'hashtag activism - e journalism - presenta caratteristiche esemplari.

#IfTheyGunnedMeDown e come un hashtag può cambiare le cose

Michal Brown, un ragazzo afro-americano di 18 anni, viene colpito a morte dalla polizia di Ferguson nel Missouri. Molti media danno la notizia usando una foto di Brown pregiudizievole: il ragazzo non sorride e fa un segno con le mani che potrebbe significare appartenenza a una gang. Una scelta precisa di immagine che quasi subito viene contestata su Twitter con l'hashtag #IfTheyGunnedMeDown (se mi uccidessero quale foto usererebbero i media?). Alla proteste per le strade di Ferguson si associa così una meta-protesta sui social. Come spiega molto bene questo articolo del Time, l'attivismo digitale può avere i suoi limiti e le sue contraddizioni, e a riguardo la testata riporta l'esempio - fallimentare se l'obiettivo era la cattura del criminale Kony in Uganda - della campagna Kony2012 (qui una critica argomentata e fra le più interessante alla campagna nello specifico). Su una cosa però l'attivismo digitale può funzionare davvero bene: la critica ai media. Con la scelta di quell'hashtag, brillante, potente, pieno di significato e la mobilitazione che ne è seguita si è messo in evidenza il pregiudizio dei media e l'uso di stereotipi che possono "inquinare" il modo di dare (e ricevere) una notizia.

Ecco alcuni tweet #IfTheyGunnedDownMe

Buzzfeed ha ricostruito come il movimento intorno a questo hashtag ha avuto un tale impatto da cambiare la conversazione e il dibattito intorno alla morte di Michael Brown. La vicenda di #Ferguson è notevole anche per altri aspetti, visto che porta con sé ulteriori implicazioni. Il Washington Post racconta come i social media hanno contribuito alla liberazione dei due giornalisti arrestati durante le proteste.

Il momento dell'arresto ha contribuito tra l'altro a far esplodere la storia sui social media e da lì sui media tradizionali, come mette in evidenza Politico:

Social media interest in the event peaked on the night the reporters were arrested and other journalists were denied access to the site, threatened with arrest or chased off the scene by tear gas and riot police. According to Twitter analytics engine Topsy, the search term “Ferguson” got about 200,000 mentions Tuesday night. Wednesday night, there were nearly 700,000 mentions.

Mathew Ingram di GigaOm riflette su come la protesta di Ferguson sia un esempio perfetto della potenza del citizen jouralism - "crowd-powered journalism" - soprattutto quando compensa l'assenza di copertura da parte dei media tradizionali:

Amid all the trolling and celebrity hoo-ha that takes place on Twitter and other social-media platforms, occasionally there are events that remind us just how transformative a real-time, crowdsourced information platform can be, and the violent response by local police to civil protests in Ferguson, Missouri on Wednesday is a great example. Just as the world was able to see the impact of riots in Tahrir Square in Egypt during the Arab Spring, or military action against civilians in Ukraine, so Twitter provided a gripping window into the events in Ferguson as they were occurring, like a citizen-powered version of CNN.

Tornando alla questione iniziale, uno dei più grandi effetti dell'hashtag activism nel caso di Ferguson è stato estendere la diffusione della notizia a livelli inimmaginabili. Questo, insieme allo svolgimento dei fatti, tra proteste per strada, azioni violente della polizia, arresto di giornalisti, ha portato alla copertura da parte del mainstream, e da qui anche alla pressione sulla politica che ha visto l'intervento di Obama e del Governatore del Missouri.

Notevole la mappa che illustra come è esplosa e si è propagata la notizia attraverso Twitter

Hashtag activism e hashtag journalism

La riflessione sull'attivismo digitale implica anche una riflessione sul giornalismo che segue le storie sui social. In questo articolo molto interessante, pubblicato della Columbia Journalism Review, Ann Friedman si interroga sui pro e contro della copertura da parte dei giornalisti degli hashtag che emergono su Twitter da #YesAllWomen, che ha contribuito al dibattito pubblico su nuove forme di femminismo (le donne minacciate dalla violenza maschile hanno condiviso la loro esperienza in seguito alla sparatoria di Isla Vista), imponendosi sui media tradizionali, a #BringBackOurGirls.

In some ways, journalists should be grateful for hashtag activism. The trending hashtag is a way to figure out what the public wants to discuss and learn more about—with the added bonus that when journalists add more reporting and perspective to the conversation, their work gets duly hashtagged and receives an added boost. But in other ways, it’s just white noise. After all, you’re just as likely to see racist-joke hashtags trending on Twitter as you are to see under-covered, hugely important news stories like the disappearance of hundreds of Nigerian girls. And Twitter itself is an incomplete picture of the public’s interests: As of last year, only 18 percent of online adults were using it, but 58 percent of journalists were. For activists who want to demand journalists’ attention en masse, Twitter is far and away the best forum.

Ecco perché è con amarezza che dobbiamo constatare che per il giornalismo italiano l'hashtag journalism si riduce troppo spesso in "la satira del web" e "l'ironia di Twitter" o nell'inseguimento dell'ultimo hashtag del premier che usa con grande sapienza il mezzo per dettare l'agenda sui media. E fa sinceramente tristezza continuare a leggere su carta derisioni sull'attivismo digitale o di ambiente cupo e irresponsabilità del web...

In conclusione

Ci sono cause che vanno combattute a prescindere dal risultato. E questo vale per l'attivismo in genere (al di là se digitale o non digitale). Forse uno dei limiti della valutazione dell'impatto di questo tipo di movimento è applicare le categorie dell'attivismo "tradizionale" all'attivismo digitale. Un hashtag crea comunità, coscienza critica intorno a un tema, mobilita le persone non nel senso classico (anche se ci sono esempi di attivismo digitale che si affianca anche alla mobilitazione off-line). L'hashtag activism contribuisce al processo di agenda setting che guida i mezzi di informazione.

True, hashtag activism is not magic pixie dust that can rescue these young women, democratize governments, or decisively alter complex social events all by itself. But that is a false standard to use in measuring its value. The social media mobilization around #bringbackourgirls has reset the agenda of Western media. Attention is on Africa. And in the sentiments, articles, and discussion flowering around the hashtag is a picture of the social and cultural conflicts in Nigeria: the wide inequalities of the region, the brutal form of terrorism practiced by Boko Haram, corrupt and incompetent government, and the agonizing plight of women caught in these struggles. The measure of this campaign’s importance will be whether these lessons stick and we continue to pay attention to Nigeria in the future. The #Kony2012 campaign did not result in the capture of Joseph Kony. But it did inform millions of people about violence in Central Africa...

È anche vero, come mi ha fatto notare Fabio Chiusi, che

è difficilissimo tenere traccia dei tanti episodi di hashtag activism che accadono continuamente: e se i più efficaci non fossero quelli giunti all'attenzione dei mainstream media ma rimanessero confinati nelle comunità locali - producendo però effetti concreti?

Sempre Fabio, tra l'altro, su Twitter ha segnalato il caso "ice-bucket challenge"

Tempo fa ci occupammo su Valigia Blu del caso della senatrice democratica Wendy Davis che annunciò su Twitter che avrebbe fatto ostruzionismo per bloccare l’approvazione della legge SB5 promossa dai repubblicani, che tra i vari provvedimenti avrebbe impedito l’interruzione di gravidanza dopo le 20 settimane nello Stato del Texas. Grazie a quel tweet e all'hashtag #standwithwendy  le persone si mobilitarono e i cittadini si presentarono fisicamente al Senato per sostenere la senatrice.

Penso, guardando al nostro Paese, alla mobilitazione #noleggebavaglio e recentemente a una vicenda che ha coinvolto la città dove vivo e che ho seguito da vicino e vissuto in prima persona (partecipando alla fiaccolata di protesta): a Perugia un gruppo di cittadini organizzato su Facebook si è mobilitato per fermare la costruzione di un alloggio universitario in una zona di pregio agricolo e storico-architettonico. Alla protesta online, accompagnata dalla ricerca e circolazione di informazioni sulla legge, sulla situazione dei permessi e delle autorizzazioni, è seguita la mobilitazione fisica, l'attenzione dei media locali e la risposta della politica e delle istituzioni, che per ora hanno fermato i lavori.

Le critiche all'hahstag activism serie e ben argomentate - come quella di David Carr del NYT - che vanno oltre i soliti pregiudizi e le inutili e dannose semplificazioni possono contribuire a migliorare e arricchire queste dinamiche sempre più presenti nella nostra vita (digitale e non). Riporto qui la bella conclusione di Carr: gli hashtag vanno e vengono, i movimenti digitali non sono paragonabili all'attivismo nel mondo reale, ma probabilmente rendono il mondo un posto migliore.

Sure, hashtags come and go, and the so-called weak ties of digital movements are no match for real world engagement. But they are not only better than nothing, they probably make the world, the one beyond the keyboard, a better place.

Aggiornamento sul caso #Ferguson 18/8/2014 > Vale la pena riportare due articoli che mettono in evidenza il ruolo fondamentale di Twitter e social media nella vicenda della morte del giovane Michael Brown:

How social media changed conversation on #Ferguson

Hashtag activism” is often derided, but without it, Ferguson police might have been able to sweep Michael Brown's death under the proverbial rug; they could have found a way to charge him with property damage for getting blood on an officer's shoes, for example, as happened in the case of Henry Davis.

View of #Ferguson Thrust Michael Brown Shooting to National Attention

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“This story was put on the map, driven and followed on social media more so than any story I can remember since the Arab Spring,” he said in a phone interview on Saturday. “On Wednesday night, when things went down, we were putting together live feeds and Twitter reports. Good luck running around there with a camera man and a news crew. You saw what happened to Al Jazeera’s crew.”

On Thursday, Mr. Hayes traveled to Ferguson for his show because it was clear this story was not going away, on Twitter or elsewhere. Twitter still carries a great deal of unverified and sometimes erroneous information, but for all its limitations, it has some very real strengths in today’s media climate. It is a heat map and a window, a place where sometimes the things that are “trending” offer very real insight into the current informational needs of a huge swath of news consumers, some of whom traditional outlets often miss.

While much of mainstream media leaves communities of color unmoved — these are audiences that are underrepresented in terms of broadband access as well — Twitter is a place many black users rely on for information.

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