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Marco Simoncelli: furore e grazia di un campione

8 Novembre 2013 4 min lettura

Marco Simoncelli: furore e grazia di un campione

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Emanuele Tonon, già autore del Nemico La luce prima (recensito su Valigia Blu), è tornato in libreria con I circuiti celesti. Il libro è una biografia dedicata a Marco Simoncelli, il centauro romagnolo morto a 24 anni sulla pista di Sepang. È raccontata la vita di un eroe, perché di eroico il centauro ha la capacità di mostrare traiettorie oltre i limiti dei «circuiti terrestri»:

Gli eroi che rimangono, gli eroi che incidono, gli eroi che si pietrificano nel palcoscenico segreto dei cuori sono quelli che si sono lasciati trasportare dalla vertigine, col soffio del loro talento e del loro coraggio. L’eroe non mente, l’eroe è paziente. L’eroe nella sua ingorda gloria tesse la sua veste mortale, monta il suo sudore immortale, raccoglie il suo sangue mortale e non ne fa un vanto.
Anche quando vacilla, quando sta per soccombere, l’eroe cancella il limite del tempo, rifugge l’approssimazione e si concede sanguinante. Non esistono trucchi. L’eroe è di sua natura illimitato, l’eroe è onda e verità senza limite. L’eroe dialoga con la sua ombra. L’eroe è consapevole delle sue ceneri.

Da scrittore, Tonon è interessato soprattutto alla trasfigurazione e al piano simbolico: racconta per celebrare. Nelle pagine vive una lingua che vuol dare un corpo all'adorazione suscitata dai piloti; in particolare dal pilota di moto, che alla velocità affianca gli equilibri impossibili e le traiettorie saettanti. La scrittura sottrae al silenzio l'ebbrezza trasmessa a chi segue le gesta dei centauri, a distanza, seduto su un divano, davanti a uno schermo, e che percorso dal brivido elettrico di un sorpasso si alza in piedi a esultare, pure se intorno non c'è nessuno per condividere quell'emozione. Il pilota è uno «sciamano» che varca una soglia tesa all'infinito; non è forse una «maschera» il casco che indossa prima di compiere la danza di asfalto, benzina e acciaio? E se gli sciamani da vivi sognano a occhi aperti, da morti invitano a essere sognati o, nel caso della scrittura, a essere evocati dalle parole:

Avevi allargate le braccia a rivelare una natura angelica, e quelle braccia aprivano l’aria, quelle lunghe dita tagliavano l’umido oleoso di una Malesia ormai lontana. Lì avevi vinto il tuo primo campionato del mondo, eri nato alla gloria dei circuiti terrestri. Non lo sapevi, nessuno di noi poteva saperlo, che solo tre anni dopo saresti nato di nuovo, su quello stesso asfalto, fendendo quella stessa aria umida e opprimente che ti aveva visto nascere alla vittoria gioiosa, in quella fusione di asfalto e cielo, in quella rivelazione di te come essere alato.  Ed è per questo che resti per me energia di cui necessito per continuare a vivere in questa tensione.

Per il suo «sciamano» Simoncelli, Tonon trova due simboli che sublimano il rapporto col «Sic»: il «giaguaro» e la «lepre». Il primo era stato scelto da Simoncelli stesso: è un totem di forza, anima chi va oltre la paura che arresta gli altri; è l'ambizione, la volontà di vincere che fa da carburante innato. Il secondo è preso da un ricordo dell'autore, di quando, investendo una lepre, cadde da uno scassatissimo Benelli: «la lepre rappresenta la capacità di ricevere messaggi e intuizioni di qualcosa che si trova al di là». L'intuizione in questo caso è legata alla morte, la soglia che separa i «circuiti terrestri» da quelli «celesti»:

Ogni volta che guardo il video dell’incidente di Sepang, ogni volta che vedo la moto di Marco attraversare la pista, mi torna in mente quella sera, mi torna in mente quella lepre e il mio volo. Non ho mai capito perché tutto questo accade, riesco solo a legarlo all’improvvisa apparizione di un corpo che attraversa repentinamente uno spazio; so però che dentro di me sta facendo breccia una mistica radicale.

La «vertigine estatica» verso cui tende Tonon lo porta a riversare tutto se stesso nel libro: celebra l'eroe, ma il punto di partenza della «vertigine» sono quelle sensazioni di stupore e incanto, la propria vocazione di scrittore che risuona di fronte alla storia del pilota romagnolo. Il libro viaggia così su un equilibrio assai precario, dove la sensazione personale potrebbe scadere nella ricerca a tutti i costi di un effetto emozionale. Eppure è proprio quando Tonon intinge la penna nella propria sorgente innata - la physis del Sublime- che più si libra, toccando vette altissime. Dove invece si lascia vincolare dalla cronaca e dalla fredda esposizione dei fatti, sembra muoversi a disagio. Quel procedere per figure di ripetizione, cambi di ritmo improvvisi, acrobazie tra basso e alto, talvolta s'incaglia nel dettaglio quotidiano («tribune naturali, spettacolari a vedersi», «sul circuito forse più spettacolare del mondo»). Ma è l'inciampo di chi cammina con ali da gigante e appena può ritrova lo slancio, portando con sé il lettore:

Quando sarò la polvere del mio nome, ci ritroveremo nell’oceano del cielo, nell’azzurro di nubi purissime dove l’aria accoglierà il nostro lampo, la nostra fiamma; quando sarò la polvere del mio nome ci infileremo in quel centimetro impossibile che tu avevi imparato da ragazzino, che io posso solo adorare come uno che è rapito dalla vertigine.

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La condizione naturale della bellezza vertiginosa è il silenzio. «In principio era il silenzio, non il verbo», scrive Tonon nella Luce prima, mentre nei Circuiti celesti ribadisce che «il silenzio è infinitamente più chiaro delle parole che confondono e storpiano la vita». La sua poetica prende voce da un sacro assoluto di pura contemplazione, dove il nome di ogni cosa è noto, e lì soltanto. La scrittura è continua esperienza del distacco e del desiderio di colmarlo:

Continuo a scrivere perché è come se dovessi ancora esordire, perché è come se non avessi pubblicato niente. Solo così posso continuare a stare nel fervore.

Ecco allora una regola che bisogna tener presente, nell'avvicinarsi ai Circuiti celesti: non c'è patto narrativo concesso a chi legge, al di fuori del riconoscimento di questo fervore.

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