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Giovani e lavoro: basta lamentarsi. Andate a zappare

30 Dicembre 2012 6 min lettura

Giovani e lavoro: basta lamentarsi. Andate a zappare

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I wouldn't want to be twenty-years-old now. I fear for what's coming.
Hunter S. Thompson

Essendo la prima vittima della crisi, il Giovane Perduto è un po’ stanco di questa retorica della crisi.

Una certa Alessandra - studentessa ventenne di filosofia -  ha osservato su Solferino28 (il raccoglitore delle storie dei giovani umanoidi hip-cripto-milanesi-bourgeois del Corriere della Sera) che la crisì sì «ci affama», ma che «noi un po’ la crisi la vogliamo perché siamo tanto affezionati a questa concezione cristiana del dolore, più che a una visione arcaica del concetto greco di crisi». Con una punta di stizza mariomontiana, Alessandra si chiede: «Prima di lamentarci e puntare il dito (giustamente) contro chi ci ha messo in questa situazione, siamo veramente sicuri di averle provate tutte?»

Basta lamentele. Del resto, una possibile via d’uscita l’ha recentemente indicata (proprio dalle colonne di Solferino28) una delle figure italiane più autorevoli, sagaci, provocatorie e moralmente intoccabili di questo Paese: Jovanotti. Ragionare sul fatto che le precedenti generazioni ci abbiamo vomitato addosso una montagna di debito pubblico, dice l'italo-rapper, «non porta da nessuna parte».

Siate impresari di voi stessi – non imprenditori, prendo il termine dal mondo della musica. Ragazzi, pensatevi così, sempre padroni del vostro lavoro. Dimenticate l’idea del posto fisso, non siamo più nel Dopoguerra, quel mondo è finito. Se affrontiamo il destino con un atteggiamento lamentoso, il destino ci punirà.

Giovani! Imprimetevi il sorriso rampante sulla faccia, stampate curriculum a strafottere e presentatevi all’appuntamento col destino con la cravatta buona e una conchiglia para-pube a prova di proiettile: ne avrete bisogno.

Ad ogni modo, Valigia Blu ha formulato 5 proposte concrete – basate sulle tendenze individuate nei principali quotidiani del Paese – in grado di risollevare le sorti della Choosy Nation.

1) Abbandonate l’università. Anzi, ancora meglio: non iscrivetevi nemmeno. L’Annuario dell’Istat è piuttosto chiaro in materia. Il tasso di disoccupazione tra gli under 29 laureati è più elevato rispetto a quello dei diplomati. Che delusione, vero? Inoltre, sappiamo tutti che la prospettiva di lavori sottoqualificati, sottopagati e in nero è la brutale realtà per chiunque si affacci sul Mercato Del Lavoro™. Chi ve lo fa fare, dunque, di imbarcarvi in un percorso di studi (magari fuorisede), laurearvi e poi passare il fiore della vostra gioventù a caricare su Instagram foto di pozzanghere sotto i cassonetti, prodigarvi in livetweeting delle conferenze stampa dei politici e risvegliarvi improvvisamente a 35 anni con vostra madre che vi rimbocca le coperte e intima di infilarsi le ciabatte?

2) Mettetevi a friggere le patatine da McDonald’s. C’era una volta il McJob, ossia «un lavoro malpagato e assolutamente non stimolante che offre pochissime prospettive». Ma quelli erano «gli anni della mucca pazza, del movimento no-global, della guerra in Afghanistan e del crescente antiamericanismo», come ricostruisce un junkie-gourmant sul magazine del Sole24Ore. Ora, negli anni ’10, lavorare da McDonald’s è una figata. Assunzioni a pioggia, contratti stabili e regolari, «cultura ispirata alla stabilità del lavoro» ed una «forte mobilità sociale all’interno dell’organigramma del gruppo».

Davvero: accantonate (per una volta) l’ideologia, indossate l’agognato cappellino e agitate quella cazzo di friggitrice. Ma prestate attenzione. Per diventare un perfetto sguattero crew di McDonald’s servono anche molte altre qualità: «memoria», «udito sensibile e allenato», «cuffie wireless», la capacità di compiere «acrobazie di multitasking», avere due braccia, due gambe, due (anche uno, via) occhi, respirare e dover scrivere un articolo per il magazine del Sole24Ore.

Chiudete quegli inutili manuali. Bruciateli una volta per tutte. Le cose più importanti da sapere nella vostra vita sono che il panino o si vende entro 10 minuti o viene buttato (altrimenti perde le sue «qualità organolettiche»), che il McToast «si fa col pane dell'hamburger tostato al contrario» e che «basta che ci metti sopra il bacon e vendi qualsiasi cosa».

3) Abbracciate la vita precaria con entusiasmo. E fate i venditori ambulanti. Anni di retorica & propaganda altermondialista/passatista vi hanno inculcato il concetto che essere precari fa schifo: una vita agra senza soldi, affetti, legami stabili, diritti, prospettive. Bene, scordatevelo. Alla fine, guardando un po’ più da vicino, non è poi così male.

“Cominciamo da un ragionamento”. Prego. “A me la vita precaria va benissimo”. In che senso? “Non voglio e non desidero un contratto a tempo indeterminato perché non si collima con le mie esigenze di vita e neanche con il mio desiderio di crescita professionale. L’unico vero problema è che non ho una continuità di reddito. Per il resto preferisco cercare un lavoro che mi piace, piuttosto di stare in un ufficio 8 ore, mal pagata, e odiare quello che faccio”. Choosy? “Sì, ho una vita sola e la felicità viene prima della schiavitù del lavoro”. [Lisa, 29 anni, precaria che ha «le idee chiare» su Solferino28. Corsivo mio.]

Che fare, dunque? Semplice, «ritornare alla strada da moderni venditori ambulanti». Prendete la fiaba solferiniana de «il giramondo e lo skipper». Basta «una serata galeotta» con un designer, un architetto e la «caccia all’Idea» - un vero e proprio «brainstorming di regate, diritto e progettazione». Risultato? L’«evoluzione del chioschetto di strada dove esporre prodotti di artigianato moderno». Perché, diamine, il dramma del precariato (che poi tanto dramma non è, suvvia) si batte con «un’ostinata convinzione nel fatto che il mondo toccherà cambiarlo con i piccoli gesti». E quindi, dateci dentro con i suk green e tre punto zero, schizzinosi e iperqualificati Giovani Perduti.

4) Siate degli startupperoi. Quello degli startupperoi, spiega il Corriere della Sera, è un «sostantivo intraducibile, un popolo non radiografato da mappe, analisi sociologiche e statistiche. Unica caratteristica in comune, una sorta di tessera di appartenenza al partito emotivo di Mark Zuckerberg».

Il lavoro non c’è? E sticazzi: io me lo invento. L’università è obsoleta? Certo (vedi punto 1), e me ne frego: faccio tutto sul Sacro World Wide Web. I finanziamenti non ci sono? Non ne ho bisogno: sono in grado di imbastire la Rivoluzione Digitale con un euro, un po’ di nastro adesivo sulla stanghetta degli occhiali geek, un garage pieno di bici non inquinanti, un Mac e la copertura ideologico-giornalistica dei Grandi Elzeviristi postindustrial-tecnologici. «Cultura del rischio» a spruzzo e Rivincita dei Nerd: come scritto in Orwell del 22 settembre 2012, lo startupperoe «nella miseria italiana fonda una società, anzi fonda la Società dell’Innovazione».

Occhio, però. Diventare uno startupperoe non è facile, come dimostra l’ormai celebre caso di YouTube Downloader. In questo Paese, il talento e la grinta sono osteggiati; chi ha successo viene martirizzato dai livorosi agenti della Controrivoluzione Analogica; chi crea lavoro – e non importa quanto lavoro e quanti posti di lavoro – è un egotico alla Ayn Rand; chi fa soldi è vampiro neoliberista. Il Giovane Perduto non deve deprimersi e, soprattutto, dimenticare il suo obiettivo primario: sfondare a testa bassa le porte del Paradiso Digitale – e finire ricoperto di saliva 2.0 su think tank tecnoutopisti.

5) (In caso di fallimento totale) Andate a zappare la terra. Smettete di occuparvi di credit leasing e precipitatevi ad accudire amorevolmente maiali e galline. Antonio Sgobba (nomen omen) del Corrierone ci avverte che la strada per la novella Arcadia bucolico-pastorale è lì, davanti a tutti. Basta volerla percorrere. Prendiamo la storia di Letizia:

Letizia si sveglia tutte le mattine alle 4, spesso per andare nei mercati a vendere i suoi prodotti. Non è un po’ troppo faticoso? «Ma dà grandi soddisfazioni», risponde. «E poi, con la crisi che c’è in questo periodo non c’è settore migliore. I miei coetanei che lavoravano nell’edilizia o nel commercio stanno facendo la fame. Devo riconoscere che io ho la fortuna di avere alle spalle un’azienda di famiglia, siamo i primi produttori di nespole in Italia».

Oppure quella mirabolante di Roberto Moncalvo («Alla Fiat preferisco le fragole»), laureato cum lode in ingegneria dell’autoveicolo al Politecnico di Torino:

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Finiti gli studi arrivano subito le offerte di lavoro, dalla casa automobilistica torinese e da altri gruppi. Roberto ci pensa e poi dice di no a tutti. «Ho deciso di riprendere in mano l’azienda agricola di famiglia», racconta oggi l’ingegnere, 31enne. «Sapevo anche che  avrei dovuto cambiare tutto». […] Roberto decide che è arrivato il momento di cambiare faccia all’attività di famiglia. «Adesso puntiamo sul biologico, coltiviamo soprattutto frutta e verdura che vendiamo a chilometro zero o a filiera minima».

Insomma, unirsi alla nuova leva contadina del ’12 conviene. «Non è affatto un ripiego», ammonisce Sgobba.

Un famoso canto partigiano recita: «In queste settimane, miei cari tedeschi, / maturano le nespole persino sui peschi». Mentre la Gente Che Conta «sale» in politica, i Giovani Perduti devono ficcarsi in testa che l’unico modo per sconfiggere fame e austerità teutonica è tornare a essere dei servi della gleba partigiani della zolla.

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