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Europa e copyright: indietro tutta

31 Ottobre 2016 10 min lettura

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Europa e copyright: indietro tutta

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La società moderna è una società prevalentemente costituita da consumatori. Un tempo, quando c'era una crisi, i leader politici chiedevano uno sforzo produttivo ai cittadini, oggi lo sforzo richiesto è nei negozi, acquistando il più possibile, consumando appunto, per garantire che l'economia possa crescere. Per capire cosa c’è alla base della proposta di riforma della normativa in materia di copyright, presentata a settembre dalla Commissione europea, è sufficiente questo.

Il progetto nasce con l'idea di rimodernare il quadro legislativo, realizzando una normativa flessibile e adattabile alle nuove tecnologie, in grado di garantire agli europei uguali diritti e accesso alla cultura. Una delle caratteristiche della nuova era tecnologica è la possibilità per tutti di essere produttori di contenuti, gli user generated content appunto, grazie alle opere derivate, le contaminazioni, i remix, le rielaborazioni di contenuti, e ovviamente l’accesso ai contenuti altrui e alle informazioni.

Al contrario, il quadro che ci presenta la proposta della Commissione è del tutto carente di ogni riferimento a queste novità, con poca attenzione ai diritti fondamentali dei cittadini e agli strumenti per alimentare la creatività e l’innovazione e non tutela affatto il pubblico dominio, elemento fondamentale per garantire la diffusione della cultura.

Si tratta di una proposta fortemente retrograda, che vede il cittadino nel suo esclusivo ruolo di consumatore, una proposta che considera Internet come un canale di distribuzione, più o meno come la televisione, il cui suo scopo sta nell’incanalare i contenuti dei produttori (artisti, ma principalmente editori) verso i consumatori-cittadini, attraverso i distributori (piattaforme online e provider). Il principale ruolo dei cittadini, ovviamente, è quello di consumare, pagando i distributori e i produttori di contenuti, consentendo così a questi ultimi di potersi sostenere economicamente. In tal modo, secondo la Commissione, l’intero ecosistema sopravvive.

Di conseguenza le proposte contenute nella bozza di direttiva tendono prevalentemente a tutelare i produttori di contenuti, inserendo delle limitate eccezioni per scopi specifici (istruzione, eredità culturale) e garantendo un’adeguata distribuzione attraverso l’imposizione di obblighi specifici per i distributori (provider).
La proposta della Commissione appare concentrarsi sull’obiettivo di ridurre l’impatto dei cambiamenti tecnologici apportati dalle tecnologie digitali e da Internet sui modelli di business degli editori. Con questa proposta, infatti, gli editori ottengono addirittura un nuovo diritto accessorio sulla falsariga di quanto già sperimentato in Germania e Spagna, tra l’altro con effetti tutt'altro che positivi.
Il risultato sarà imporre dei freni all’innovazione tecnologica in Europa, riducendo anche gli spazi per la libertà di parola e di informazione.

La frammentazione del mercato europeo rimane

Nonostante la Commissione europea avesse promesso di eliminare la frammentazione del mercato europeo, di fatto rimane. Il geoblocking non è stato toccato e l’accesso ai contenuti dovrà passare attraverso numerose licenze di copyright. Se le grandi aziende, come Apple, Amazon, Spotify, sono in grado di gestire i negoziati per tutti gli Stati, pagando numerosi avvocati, è ovvio che un’azienda creata da un gruppo di ragazzini in un garage oggi non avrebbe mai alcuna possibilità di partire. Si tratta di un costo enorme per l'innovazione e il Digital Single Market finisce per essere solo uno spot.

Bisogna dire che la Commissione, fallito l’approccio legislativo, ha comunque avviato un approccio di tipo politico, portando avanti azioni sulle pay-tv per possibili violazioni delle norme sulla concorrenza. Di fatto, però, al momento il geoblocking rimane.
Questo discrimina sicuramente le minoranze linguistiche e i migranti che non potranno accedere ai contenuti nella loro lingua e alla loro cultura se si spostano in altri paesi, lo stesso accade per gli studenti e gli sportivi che si spostano in altre regioni. E, ovviamente, è un danno per gli artisti che continueranno a vedersi negato una parte di pubblico europeo.

Eccezioni e limitazioni introdotte dalla Commissione europea

Dopo aver ammesso che la frammentazione delle norme sul diritto d'autore nell’Unione europea è particolarmente visibile nell’ambito delle eccezioni al copyright (qui per una mappa interattiva dell’implementazione delle eccezioni in Europa), la Commissione si è particolarmente impegnata a non fare nulla. Ha infatti presentato delle proposte di basso respiro che si limitano ad introdurre delle limitate eccezioni in materia di data mining e di istruzione e ricerca.

La direttiva Infosoc, all’articolo 5, prevede una serie di eccezioni da implementare facoltativamente, a parte l’eccezione relativa alle copie temporanee che è l’unica obbligatoria. L’aspetto positivo della proposta della Commissione è che le nuove eccezioni sono obbligatorie (shall provide) per tutti gli Stati.

L’articolo 3 prevede un'eccezione per la ricerca testi e il data mining, a beneficio delle sole organizzazioni pubbliche di ricerca a fini scientifici. In tal modo si stabilisce che l’estrazione di dati è un atto rilevante ai fini del copyright e quindi deve essere concesso in licenza, a meno che non sia effettuato da un ente pubblico a fini di ricerca. Per cui chiunque altro desidera esplorare i benefici del data mining dovrà farlo al di fuori dell’Europa. È evidente che tale limitazione farà perdere all’Europa numerose opportunità di imprese innovative e quindi posti di lavoro.

L’articolo 4 prevede un’eccezione per l’insegnamento nelle strutture educative, purché l’accesso attraverso reti elettroniche sia limitato al personale e agli studenti, sia citata la fonte e sia, ovviamente, non a fini commerciali. Gli Stati possono comunque prevedere che l’eccezione non si applichi se una licenza adeguata è facilmente disponibile sul mercato (adequate licences… are easily available in the market).
Anche qui la proposta appare estremamente riduttiva, oltre tutto anche ignorabile se i materiali sono disponibili tramite una licenza “adeguata”, senza specificare esattamente cosa voglia dire adeguata. È ovvio che fioriranno tanti diversi schemi di licenza per neutralizzare l’eccezione ed evitare che i vecchi modelli di business perdano dei ricavi.

Infine, l’articolo 5 prevede un’ulteriore eccezione per la preservazione della diversità culturale. Si tratta di un nome altisonante che in realtà nasconde un argomento a favore del mantenimento di 28 regimi diversi di copyright.
In breve si tratta di un’eccezione a favore delle istituzioni culturali gestita attraverso un meccanismo di licenze collettive. Quando un ente di gestione collettiva conclude una licenza non esclusiva per fini non commerciali con un istituto culturale, la licenza può essere estesa ai titolari dei diritti della stessa categoria di quelli oggetto della licenza che non sono rappresentati dall’ente di gestione collettiva.

Quindi il mantra della Commissione per risolvere tutti i problemi è la moltiplicazione delle licenze con un approccio burocratico lontano anni luce dalla cultura digitale, che in questo caso si tradurrà nell’aumento dei costi di transazione a favore degli enti collettivi.
Ed anche qui la Commissione perde di vista il problema, che è, invece, fornire l’accesso online alle collezioni tenute dagli enti e ormai fuori dal commercio.

Ancora, nonostante se ne fosse parlato, e la Commissione abbia avviato una consultazione pubblica, la proposta di direttiva non contiene alcun riferimento alla libertà di panorama, la cui regolamentazione rimane, quindi, frammentata per tutta l’Unione, con tutti i problemi che già abbiamo evidenziato in passato.
Farsi un selfie con la Torre Eiffel di notte continua ad essere illecito.

Infine, la proposta di direttiva non contiene alcuna eccezione per opere derivate non commerciali. Internet ha dato l’avvio a molteplici esempi di contaminazione, mix, e rielaborazioni, esempi di riutilizzo di un’opera come la satira, la parodia, i commenti, le illustrazioni, i collage, mix e mash up, ma anche i meme e i gif. Lo stato giuridico di queste contaminazioni è al momento incerto, strettamente dipendente dalle singole normative nazionali, ma nella maggior parte dei casi sono opere illecite.
È da tempo che si sostiene che occorre regolamentare questi tipi di riutilizzo non commerciali, che ripropongono materiali altrui sui quali è possibili insistano diritti autoriali ma difficilmente possono essere classificati come “copia”.

Porre al centro dell’ambiente digitale il concetto di “copia” (e quindi la sua tutela) invece che l’utilizzo, determina una notevole incertezza legislativa, in quanto qualsiasi attività compiuta in rete determina una copia. La tutela della “copia” porta inevitabilmente ad un controllo della proliferazione delle copie e quindi dell’intero fluire dei dati online, con gravi limitazioni sul diritto di comunicazione. Per controllare se una copia è illegale, infatti, occorre controllarle tutte.

Intermediari e piattaforme online

L’articolo 13 infatti obbliga gli intermediari della rete (ISP) a stringere accordi con l’industria del copyright al fine di prevenire la disponibilità (prevent the availability) di contenuti illeciti sui loro servizi. Di fatto, quindi, gli ISP diventano gli sceriffi della rete, sotto il controllo degli editori e devono scandagliarla al fine di trovare e rimuovere i contenuti piratati.

La norma fa espresso riferimento a tecnologie di identificazione, per cui gli intermediari dovranno attrezzarsi per l’utilizzo di “efficaci” software che possano riconoscere e filtrare i contenuti illeciti (effective content recognition technologies). Stiamo parlando di tecnologie simili a Content-Id utilizzato da Google sulla piattaforma YouTube, il cui costo è piuttosto elevato (ad esempio è un grosso problema per realtà come Wikipedia, che si basa totalmente sulle donazioni degli utenti).

In tal modo appare evidente che solo aziende che possono permettersi il costo di tali software potranno svolgere il ruolo di intermediari online o potranno consentire il caricamento di file da parte degli utenti. In pratica se da un lato si costringe YouTube e le altre piattaforme a fare gli sceriffi del web, dall’altro si impone un obbligo che impedirà la concorrenza nel settore delle piattaforme.

Senza contare che tali software non sono in grado di distinguere remix, meme, contaminazioni varie, parodia, satira, per cui rimuoveranno tutto quello che include frammenti di altri contenuti protetti, senza valutare nessuna delle eccezioni e limitazioni al copyright. Tra l’altro è interessante notare che in base a recenti studi la presenza di musica o video pirati su piattaforme come YouTube è bassissima (circa il 2%), mentre invece è più elevata la presenza di mash-up, remix e contaminazioni varie.

Questa norma, inoltre, appare in contrasto con le norme della direttiva Infosoc (articolo 3) e della direttiva e-commerce (articoli 14 e 15), che espressamente vietano l’imposizione agli ISP di obblighi di monitoraggio dei contenuti immessi sui loro server, e prevedono l’irresponsabilità per detti contenuti. Tale approccio incide notevolmente sulla responsabilità degli intermediari e ha gravi ricadute quindi sulla possibilità di avviare questo tipo di attività online.

L’impatto di una norma di questo tipo potrebbe essere elevatissimo, basti considerare che la decisione di una Corte di Appello americana nel caso Cablevision (Cartoon Network vs CSC Holdings Inc.) a favore degli intermediari, secondo una stima avrebbe avuto un incremento degli investimenti del 41% nel settore cloud, mentre l’approccio contrario dei tribunali europei e quindi della norma proposta dalla Commissione, che impone oneri burocratici e legali agli ISP, si è stimato determinare una riduzione degli investimenti (rispettivamente 4,6 e 2,8 milioni di euro in relazione a una pronuncia di un tribunale francese ed uno tedesco). Non è un caso che le piattaforme cloud sono praticamente tutte americane.

In sostanza l’approccio della Commissione suggerisce che tutto ciò che viene diffuso online debba ricevere prima una liberatoria da un avvocato. Piuttosto difficile oltre che ridicolo.

I diritti di pubblicazione

Sempre nell’ambito di una maggiore tutela dei diritti degli editori, la Commissione europea introduce un nuovo diritto di pubblicazione, una sorta di tassa sui link, un nuovo diritto esclusivo, diverso rispetto a quello degli artisti, che viene assegnato agli editori, con notevole estensione del quadro normativo in materia di copyright.

Di questo nuovo diritto esclusivo, praticamente un vero e proprio sussidio, previsto all’articolo 11 della bozza, ne abbiamo già parlato in un altro articolo. Occorre solo aggiungere che la sua durata è fissata in 20 anni dalla pubblicazione.
Ricordiamo altresì che una normativa simile in Germania e Spagna ha avuto un impatto negativo specialmente verso i piccoli editori. Alcuni editori spagnoli, infatti, hanno espresso la preoccupazione che tale diritto renderebbe più difficile per i fornitori di servizi veicolare il pubblico verso i siti dei giornali, riducendo così il traffico e i ricavi pubblicitari per gli editori (qui un articolo di ArsTechnica con i primi commenti alla proposta di direttiva).

L’effetto sarebbe la probabile scomparsa degli aggregatori di notizie, una minore diversità nella pubblicazione delle notizie e probabilmente remunerazioni ridotte per gli autori degli articoli, che non ne trarranno alcun beneficio. È una norma a beneficio dei grandi editori.

 

La promessa mancata di un quadro normativo più moderno

La Commissione europea aveva promesso un quadro normativo più moderno, invece si presenta con una regolamentazione che guarda al passato, senza considerare nessuna delle novità apportate dall’ambiente tecnologico attuale e senza tenere conto dei diritti fondamentali dei cittadini, un nuovo quadro normativo incentrato sulla tutela della “copia” in un ambiente digitale dove in realtà tutto è copia, e la moltiplicazione burocratica delle licenze, anche lì dove non ci sono più titolari (beni degli enti culturali).

La giustificazione è la tutela dei diritti degli artisti, ma in realtà ciò che si tutela sono i diritti degli editori. È noto, infatti, che quando si tratta dei ricavi generati dalla musica in streaming, le etichette ricevono circa il 75% degli incassi lasciando le briciole agli artisti. Confondere i diritti dell’industria del copyright con quelli degli artisti porta a notevoli aberrazioni legislative che incidono in maniera pesante sui diritti fondamentali dei cittadini stessi ed anche sulla creatività e l’innovazione, quindi anche a scapito degli artisti.

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La visione retrograda della Commissione si basa su una considerazione dell'ambiente digitale come fosse una televisione più grande e quindi riprende numerosi concetti proprio dagli editori televisivi, tutelando il loro modello di business. Nei fatti questo approccio limita l’accesso ai contenuti da parte dei cittadini se non sono presenti nei loro mercati domestici, così alimentando la moltiplicazione delle licenze, la frammentazione del mercato e, ovviamente, i ricavi degli editori.
La Commissione, inoltre, introduce obblighi di sorveglianza e nuove responsabilità per gli intermediari, che finiranno per determinare la rimozione di numerosi contenuti del tutto legali, privatizzando quindi la repressione degli illeciti e demandandola ad accordi tra aziende private.

La proposta della Commissione, quindi, oltre a lasciare per strada ogni ambizione di ammodernamento, si presenta carente sotto tutti i punti di vista, lasciando immutata l’incertezza legislativa in materia che finisce, ancora una volta, per favorire i grandi editori. La favola della tutela degli artisti ormai non regge più.

Una serie di associazioni hanno scritto una lettera alla Commissione evidenziando le criticità della proposta, alla quale il vicepresidente della Commissione ha risposto confermandone il contenuto.

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