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L’Etimacello: #Suicidio

15 Aprile 2013 2 min lettura

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L’Etimacello: #Suicidio

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Stravedo. Sono folle d’amore per le parole. Innamorata pazza, dedita, devota. Così delicate, ironiche, salate. Mi sono detta: usiamole, amiamole, impieghiamole tutte nelle loro infinite sfaccettature, ammiriamole da ogni loro scintillante angolazione, stuzzichiamole, spremiamole, mastichiamole. Piangiamole e ridiamole a crepapelle.

Interveniamo di fronte al macello dell’etimologia. Dove il giornalismo è paralitico, dove tecnicismi e inglesismi pietrificano significati e radici, giochiamole: per restituir loro fluidità, valore, potenza. Dignità.

 

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Troppi debiti e il tempo che scorre. Cifre da capogiro dovute alla vita, la morte che porge la mano. Una nuova possibilità di luce nel buio cosmico del baratro. Il calcolo delle probabilità di farcela annebbia la vista, ed ecco che arriva la morte felice. Suicidio involontario, suicidio assistito, suicidio rituale, suicidio da crisi: un incidente nell’evoluzione dell’essere umano. Impiccati, sparati, avvelenati, lanciati. Da sui caedes, uccisione di sé medesimo. Selbslmord; intentional selfkilling. Uccidere se stessi, il proprio io più profondo, assassinare la propria categoria, il proprio mestiere, le proprie idee, uccidere la società, ammazzare la propria famiglia due volte. Dopo la guerra mondiale, la guerra di religione, la guerra civile, ecco la guerra contro se stessi, l’ultima frontiera dell’inabitabile. Una lotta fratricida, pesticida, suicida: è l’omicidio del proprio essere nel mondo, la morte dignitosa per chi non vuole farsi massacrare. L’estrema risposta alla tirannia delle banche, individuale ma imitabile. Che cos’hanno di diverso gli imprenditori italiani suicidi, dai monaci tibetani che si danno fuoco per protestare contro l’occupazione cinese? L’uccisor di se stesso smette felicemente di vivere, si arrende, getta la spugna, cuocetevi nel vostro brodo, non esisto più, fermate il mondo voglio scendere. Vi sfido: la mia anima torna mia e da me non avrete più niente. Il vero protagonista allora, come per un paradosso, con il faro puntato addosso, è chi resta. Siamo degni? Siamo ancora capaci di credere nella vita, di cambiare le cose? Chi resta?

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