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Egitto, l’attentato al consolato non è un attacco all’Italia. Dubbi sulla rivendicazione dell’ISIS

13 Luglio 2015 11 min lettura

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Egitto, l’attentato al consolato non è un attacco all’Italia. Dubbi sulla rivendicazione dell’ISIS

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di Alessandro Accorsi

Aggiornamento 14 luglio:

Nel primo pomeriggio di ieri, il sito egiziano al-Mogaz ha citato un ufficiale del Ministero dell’Interno che ha dichiarato: «abbiamo identificato le persone sospettate nell’attacco al consolato, verranno arrestate a breve». Da li, è iniziata a circolare la notizia di un arresto, subito ripresa da Youm7 che ha pubblicato nomi e foto degli attentatori. La polizia avrebbe fermato due uomini di Beni Suef e un uomo di Fayoum. Al Mogaz e Youm7 sono tra i siti meno affidabili in assoluto. Youm7 pubblica spesso prima degli altri le informazioni che la polizia gli passa in anteprima, e riescono comunque a fare degli errori o ad essere smentiti puntualmente.
Dopo un paio di ore lo stesso sito al-Mogaz, però, ha negato che le persone arrestate fossero gli attentatori, citando fonti di sicurezza egiziane. Lo stesso sito che per primo ha lanciato la notizia, ha corretto il tiro e spiegato che 1) la polizia non ha arrestato gli attentatori e 2) ad essere stato fermato per essere interrogato era il proprietario della macchina usata nell’attentato.
Ora, come fatto giustamente notare su Twitter, la bomba al consolato non è stato un attacco im-provvisato. Sarebbe sciocco pianificare un attacco del genere e usare la propria auto e non una rubata.

La notizia, quindi, è stata smentita dallo stesso giornale che l’aveva pubblicata inizialmente. Dopo poco, lo stesso giornale di stato al-Ahram ha negato l’arresto dei tre attentatori e fonti di sicurezza egiziane hanno confermato a più di un corrispondente straniero al Cairo che no, gli sarebbe piaciuto arrestare i responsabili della bomba, ma non li hanno presi ancora.
In serata, la notizia si era completamente sgonfiata ed era chiaro a tutti che si era trattato di un malinteso o di una bufala. Tra i corrispondenti e giornalisti che vivono al Cairo, nessuno ne twittava, nessuno ne scriveva.
Nel frattempo, però, il primo lancio fatto da al-Mogaz è stato ripreso e tradotto dal Al-Arabiya e altri. Il fatto che lo abbiano ripubblicato, non significa che sia vero o che sia stato verificato in maniera indipendente. Non c’era una fonte nuova che confermasse quanto le stesse fonti di sicurezza avevano smentito allo stesso al-Mogaz e ad altri giornali.
La notizia non è stata neanche ripresa da Associated Press o AFP, che anzi non le hanno dato peso proprio perché non affidabile. Ma è stata ripresa dall’Ansa che ci ha fatto un lancio, uscito quando la smentita dell’arresto era stata già pubblicata.
Stessa dinamica della teoria secondo la quale sarebbe stato un attentato contro un giudice. La notizia, smentita dal giudice stesso e da fonti diplomatiche italiane, aveva smesso di circolare in Egitto quando è diventata virale in Italia.

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Aggiornamento 13 luglio: Questa mattina Paolo Gentiloni, in visita in Egitto per portare solidarietà ai dipendenti del consolato italiano, ha rilasciato nuove dichiarazioni: «l’attentato è un fatto grave, un probabile avvertimento, ma non dobbiamo interpretarlo come qualcosa di diretto verso l’Italia».

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Un rombo sordo e profondo, la terra che trema, l’impressione di trovarsi a pochi metri da un edificio risucchiato al centro della terra. Quattrocentocinquanta chilogrammi di esplosivo fatti detonare contro il consolato italiano al Cairo suonano così, anche a quasi un chilometro di distanza. L’esplosione alle 6 e 30 di mattina ha svegliato una città ancora avvolta dalla calma di un sabato di Ramadan. Nessuno nelle strade, neanche in quelle solitamente super trafficate attorno al consolato. Il vecchio edificio si trova infatti al centro di un dedalo di strade e arterie tra i più movimentati della capitale. Due strade sopraelevate ad alta percorrenza ne delimitano il perimetro, mentre camminare sotto ai due ponti diventa un’impresa. Venditori ambulanti di cibo e bevande, bancarelle di vestiti usati, macchine, pendolari, passanti, un esercito di autisti di minibus che urlano i nomi delle loro destinazioni cercando di sovrastare il già infernale rumore dei clacson. Chiunque viva al Cairo si chiede come sia possibile che il consolato italiano si trovi proprio lì, in quell’inferno di decibel e marmitte e non in una delle altre zone residenziali, verdi e tranquille dove sono situate tutte le altre ambasciate europee. La motivazione è storica, ma proprio la collocazione del consolato potrebbe essere una delle spiegazioni più semplici e allo stesso tempo convincenti del perché l’attacco ha colpito la missione diplomatica italiana.

Il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni si è subito precipitato a dichiarare che l’attentato è un attacco contro l’Italia e l’Occidente. La teoria del ministro è stata subito ripresa e ripetuta da praticamente tutti i quotidiani italiani. Quando nella serata di sabato è apparso un comunicato dello Stato Islamico - ancora da verificare - le analisi si sono appiattite ancora di più sull’idea che i terroristi volessero punire specificatamente l’Italia.

Per i rapporti con il governo Sisi, per l’importanza strategica del nostro paese nel Mediterraneo - un mito che meriterebbe un post a parte per essere sfatato - per fermare un nostro eventuale intervento in Libia o perché, semplicemente, l’obiettivo finale del califfato è quello di conquistare Roma e la sedia papale. Giornalisti ed esperti istantanei hanno dato più rilievo ad un fattore piuttosto che ad un altro, ma hanno tutti ripetuto, sostanzialmente, l’idea presentata dal ministro. Nel frattempo, noi giornalisti al Cairo che negli ultimi tre o quattro anni abbiamo lavorato sotto regimi diversi documentando ogni sorta di violazione dei diritti umani, lanciando costantemente l’allarme sulla repressione in atto e su come stia radicalizzando parte dell’opposizione, eravamo le uniche voci fuori dal coro, rifiutandoci di appiattirci su una visione italo-centrica e semplicistica di una realtà molto più complessa. Mi scuso se questo passaggio può sembrare polemico - lo è - e prometto di rivestire subito i panni dell’analista. Andiamo per ordine.

L’attentato è un attacco contro il consolato italiano. Non per questo, è un attacco contro l’Italia. La bomba è stata piazzata sotto una macchina in una via laterale del consolato e ha colpito la fiancata e l’ingresso per i visitatori. In quella zona non ci sono altri edifici, ma solo un grande parcheggio. Il consolato era chiaramente l’unico obiettivo. Un’altra teoria rimbalzata sui media egiziani sostiene che l’attacco fosse in realtà un tentato omicidio mirato contro un giudice egiziano. Da qualche settimana, alcune sigle appartenenti alla galassia dei gruppi militanti egiziani hanno lanciato una campagna di uccisioni mirate contro i giudici, sfociata con l’attentato in cui ha perso la vita il procuratore generale Hisham Barakat. Attentato, è bene ricordarlo, non ancora rivendicato. Se l’obiettivo fosse stato veramente il giudice che transitava di la, la bomba sarebbe stata piazzata sulla strada principale, di fronte al consolato e sotto al ponte del 6 Ottobre. Avrebbe anche avuto un maggiore impatto sul conto delle vittime, ma la strategia dei terroristi mira a limitare il più possibile le vittime civili per non alienare il possibile supporto della popolazione.
Stesso discorso se la bomba fosse stata piazzata sull’altro lato dell’edificio. Pare chiaro - e il comunicato dello Stato Islamico sembra confermare - che l’obiettivo fosse solamente il consolato. Ma, ripeto, non per forza l’Italia.

Da mesi al Cairo è in atto una escalation di violenza. Bombe e ordigni esplosivi improvvisati continuano ad esplodere con cadenza settimanale, al punto che gli egiziani usano Bey2ollak, una app per smartphone solitamente usata per segnalare incidenti e ingorghi stradali, per indicare invece la presenza di bombe e ordigni. Da tempo, le forze di sicurezza egiziane alzano il livello di allarme per possibili attacchi contro le missioni diplomatiche straniere. L’ambasciata canadese e quella britannica sono state chiuse per mesi, altre hanno spostato i servizi consolari in edifici sconosciuti al pubblico.

L’allarme, dunque, non riguardava solo l’Italia o “l’Occidente”, ma tutti i paesi che supportano il regime di Sisi. Inclusa l’Arabia Saudita, la cui vecchia ambasciata è stata colpita senza danni da un piccolo ordigno il 29 Giugno. Perché il consolato italiano, dunque, ma non specificatamente l’Italia? La maggior parte delle ambasciate sono raggruppate in due zone del Cairo e proprio l’alta concentrazione di missioni diplomatiche nella stessa area fa si che l’attenzione sia massima. Il consolato italiano è situato sopra in un dedalo di strade e arterie al centro del Cairo. Vero che la sicurezza è alta visto che la Corte Suprema si trova a poche centinaia di metri, ma è una delle missioni diplomatiche di un certo peso e rilievo più esposte a un possibile attacco. Insomma, è plausibile che il consolato italiano rappresentasse un buon compromesso tra fattori logistici, “di fattibilità”, strategici e politici. D’altronde, i terroristi hanno già cercato di colpire altre ambasciate e missioni diplomatiche.

L’Italia, a quanto pare, non era neanche così in alto nella lista di priorità o di nemici pubblici. Il governo Renzi è tra i maggiori alleati di al Sisi, come ripetuto dal premier dopo l’attacco. Renzi è stato tra gli unici leader europei a recarsi alla conferenza economica di Sharm El Sheikh e a ripetere in più di un’occasione che il presidente egiziano è un partner strategico. Il premier ha addirittura chiamato Sisi “un amico” nella giornata di domenica. Certo, la vicinanza tra il nostro governo e quello egiziano non aiuta certo a metterci al riparo dagli attacchi, ma altri governi non sono stati da meno. Il Canada addestra le forze di sicurezza egiziane e ha ripetutamente supportato l’azione del governo nonostante un suo cittadino - il giornalista di Al Jazeera Mohamed Fahmy - fosse implicato in un processo altamente politicizzato. La Spagna ha firmato contratti multimiliardari e rifiutato di commentare o protestare quando il corrispondente de El Pais Ricard Gonzales è stato costretto a lasciare il paese in fretta e furia. La Germania ha accolto con tutti gli onori Sisi nonostante le proteste di parte dell’opinione pubblica. Addirittura, le autorità tedesche hanno arrestato su mandato egiziano (e poi rilasciato) un altro giornalista di Al Jazeera. David Cameron ha lanciato un’offensiva contro la Fratellanza Musulmana nel Regno Unito. La Francia non è intervenuta quando una sua cittadina è stata arrestata ed espulsa due settimane fa perché stava facendo una ricerca su un movimento di opposizione secolare. La Francia ha anche venduto dei caccia bombardieri Rafale all’Egitto, collaborato per le operazioni  segrete egiziane in Libia, accolto Sisi con il tappeto rosso. L’Italia, insomma, non si è comportata diversamente da altri paesi. Né per quanto riguarda la situazione interna egiziana, né per quanto riguarda la Libia. Inoltre, la teoria delle motivazioni legate al paese dell’ex dittatore Gheddafi compaiono solamente sui media italiani. In Egitto e nel resto del Medio Oriente la stampa ignora quasi totalmente i nostri interessi a Tripoli.

Se, invece, l’attacco fosse parte di una crociata contro l’Italia perché l’obiettivo finale del califfato è di conquistare Roma, allora nel comunicato rilasciato - pare - dall’ISIS la retorica alla “Oh Rome, we are coming” avrebbe maggior rilievo. Invece, non c’è alcun riferimento all’Italia. Si parla solo della bomba al consolato italiano, ma non ci sono attacchi o dichiarazioni contro l’Italia. La bomba era sì un segnale ai governi occidentali (Italia inclusa) che sostengono il governo Sisi, ma il principale destinatario era il regime stesso. I terroristi egiziani hanno problemi più gravi e motivazioni ben più grandi che colpire gli interessi italiani o l’Italia. Quel che vogliono ottenere, con questo attentato così come con le centinaia di bombe esplose negli ultimi mesi, è dimostrare che Sisi non sta vincendo la guerra contro il terrorismo, ma che anzi possono colpire ovunque.

In secondo luogo, vogliono attirare giovani alienati e radicalizzati che non credono più alla strategia quietista e non violenta professata dai Fratelli Musulmani. “Se rischio di scomparire all’improvviso in un carcere segreto del regime, essere torturato, arrestato senza prove o accuse, essere impiccato con un processo farsa e senza che nessuno sappia nulla.. beh, allora tanto vale mettere una bomba contro i bastardi al potere”, è quello che ripetono da mesi sempre più giovani disillusi e arrabbiati. Sostenere che l’attacco al consolato fosse un attacco contro l’Italia è insomma come sostenere che l’attentato a Sousse in Tunisia fosse un attacco contro il Regno Unito perché a morire sono stati dei turisti britannici. Le due azioni, quella di Sousse e quella del Cairo, hanno però una cosa in comune.

In entrambi i comunicati, ripetiamo apparentemente rilasciati dall’ISIS, non viene indicato il nome della filiale locale del califfato, come avviene al solito, ma solo il paese teatro dell’attacco. Una differenza forse semantica, ma non da poco. Dire che l’attentato è stato eseguito dallo Stato Islamico è vero e falso allo stesso tempo. Il comunicato, infatti, nasconde fin troppi misteri.


Perché per la prima volta si parla di “soldati dello Stato Islamico” e non del “califfato”? Perché non si menziona Wilayat Sinai, l’unico gruppo affiliato per ora in Egitto?

L’operazione potrebbe essere stata ordinata, pianificata e condotta direttamente dal quartier generale dello Stato Islamico senza che la sua controparte egiziana ne fosse a conoscenza.

Potrebbe anche, però, essere stata compiuta indipendentemente da uno dei tanti gruppi che operano in Egitto e che l’ISIS lo abbia riconosciuto, “mettendoci il cappello” nel tentativo di aprire un’altra sua succursale in Egitto o attrarre il gruppo a sé. Secondo le autorità egiziane, l’esplosivo usato nell’attacco sarebbe lo stesso dell’assassinio del procuratore generale Hisham Barakat. Un omicidio mirato che non è stato ancora rivendicato, né dall’ISIS né da nessun altro gruppo.

Per ora, al comunicato non è seguito l’annuncio della nascita di un nuovo gruppo ISIS in Egitto o la dichiarazione di fedeltà di uno dei gruppi jihadisti presenti al Cairo. Il califfato, specialmente nelle sue avventure fuori dalla Siria e dall’Iraq, è tutt’altro che un monolite di facile lettura e comprensione.
Ridurre la complessità del problema, invece che spiegarla, non aiuta a comprendere o affrontare il pericolo che ci troviamo davanti.

Ho vissuto e lavorato sotto quattro governi. Sotto il Consiglio Supremo delle Forze Armate, sotto il governo islamista di Mohamed Morsi, sotto quello di Sisi. Hanno tutti cercato di spararmi o arrestarmi. Non ho mai provato simpatia per nessuno di loro.

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Vivo in una città, Il Cairo, dove le bombe esplodono in continuazione. Quando non mi preoccupo di essere arrestato dalla polizia, mi preoccupo di non morire in un attentato. Non provo certo simpatia neanche per i terroristi.

Il dibattito, però, non dovrebbe solo limitarsi alle azioni deprecabili compiute da questi criminali o a chi può salvarci da loro. Sarebbe questo il momento di allargare la discussione e cercare di comprendere perché l’Egitto ha un problema col terrorismo da dopo che il governo ha lanciato una guerra contro il terrorismo stesso. Da dove nasce il problema? È questo governo l’unica o migliore speranza per il paese?

Faccio il giornalista, non il tifoso, quindi non sta a me rispondere. Ma magari possono rispondere i più di 60.000 prigionieri politici arrestati negli ultimi due anni, i 18 giornalisti egiziani in carcere perché facevano il loro lavoro, le almeno 163 persone scomparse - e spesso riapparse in cella o tribunale senza ufficialità dell’arresto - da aprile a inizio giugno, le decine di persone uccise da un proiettile di un poliziotto in strada, in casa o nella stanza di un ospedale, le migliaia di rifugiati che si imbarcano verso l’Italia perché, scappati dalla guerra, sono stati incarcerati o abusati dal governo, le centinaia… Fidatevi, non sono tutti terroristi.

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