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La Russia che si ribella: storie di resistenza quotidiane in un paese in cui fare opposizione è impossibile

20 Aprile 2024 6 min lettura

La Russia che si ribella: storie di resistenza quotidiane in un paese in cui fare opposizione è impossibile

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I dissidenti in Russia non hanno vita facile, e la situazione sembra solo peggiorare. Il 22 marzo scorso, la Russia è stata vittima di un feroce attacco terroristico. L’attacco, durato in totale 18 minuti, ha causato 139 vittime. Nonostante la rivendicazione dell’attacco da parte dell’ISIS-Khorasan, il ramo dell'organizzazione terroristica attivo principalmente in Afghanistan e nel Caucaso, il presidente russo Vladimir Putin non ha esitato a strumentalizzare quanto accaduto alludendo a possibili responsabilità da parte ucraina. Per quanto riguarda la politica interna, conseguenza immediata dell'attentato è l'inasprimento del governo russo nei confronti delle questioni relative alla sicurezza.

Attentato di Mosca: perché il Cremlino accusa l’Ucraina

Le leggi russe relative al terrorismo sono state a lungo un’arma efficace contro il dissenso. Infatti, la legge sul terrorismo varata nel 2006, così come quella sull’estremismo, è stata spesso strumentalizzata per sopprimere il dissenso e controllare il dibattito pubblico, lasciando poco spazio a istanze di opposizione. 

Sono 3.738 le persone condannate ai sensi della legge contro il terrorismo nel periodo che va dal 2013 al 2023. Ma tanti sono anche i casi antecedenti a quella data. Tra questi c’è la storia di Ivan Astashin, attivista per i diritti umani che per anni si è battuto contro gli abusi in divisa e contro le condizioni disumane imposte nelle carceri russe. Nel 2009, Ivan lanciò una molotov contro una stazione dell’FSB, il servizio di sicurezza federale russo. Il gesto, più simbolico che realmente tattico, non causò vittime né feriti, né danni sensibili agli uffici: si limitò a rompere una finestra. Ciononostante, Ivan fu accusato di terrorismo e condannato a tredici anni di carcere. Anche in virtù della propria esperienza, Ivan si è impegnato nell’attivismo a tutela dei diritti umani, e a raccontare la tragica situazione delle carceri russe, in cui gli abusi in divisa sono all’ordine del giorno e i diritti dei detenuti sono sistematicamente lesi.

Ivan Astashin è uno dei protagonisti di La Russia che si ribella. Repressione e opposizione nel Paese di Putin (Altreconomia) , libro scritto a quattro mani insieme a Federico Varese. Astashin è uno dei cinque oppositori del regime di Putin di cui abbiamo raccontato le vicende: i protagonisti del libro sono persone reali, che si sono raccontate in lunghe interviste ripetute a distanza di mesi, così da coprire un arco temporale vasto e sensibile ai cambiamenti che la Russia ha attraversato dal lancio dell’invasione su larga scala scala dell’Ucraina, il 24 febbraio 2022. Ogni storia svela un aspetto specifico della società russa, e soprattutto di cosa vuol dire essere dissidenti nel Paese di Putin. 

Apriamo il volume con la storia di Ljudmila, una blokadnica (dal russo blokada, “assedio”), vale a dire una sopravvissuta all’assedio di Leningrado (1941-1944). In risposta all’invasione dell’Ucraina, Ljudmila è scesa in strada a manifestare contro la guerra, ed è stata arrestata nonostante l’età avanzata. Ljudmila racconta degli scambi che ha avuto con i giovani soldati. Lei che la guerra l’ha vissuta davvero e ne ha sofferto gli orrori sulla propria pelle ha spiegato, con comprensione e umanità, come la retorica bellicista di Putin, fondata sulla mitizzazione della vittoria sovietica nella Seconda guerra mondiale, sia un dispositivo per giustificare altrettanti orrori, anziché per rendere omaggio agli eroi del passato.

La seconda storia del volume ci porta invece in periferia, nelle campagne moscovite, dove padre Ioann, un pope ortodosso, è stato arrestato per aver denunciato i crimini russi in Ucraina durante un’omelia a una platea di dodici persone. La storia di Ioann rivela come la Chiesa ortodossa russa sia un importante alleato politico del Cremlino, sposandone le politiche violente e imperialiste e diffondendo propaganda bellicista tra i fedeli. L’assurda storia di Ioann, però, ci ricorda anche come sia sempre più difficile trovare spazi sicuri nella Russia di oggi: i delatori possono nascondersi anche fra una platea di una manciata di persone in un villaggio di campagna.

Grigorij Judin è la terza figura chiave del libro. Ricercatore e docente, con lui svisceriamo le difficoltà di sondare l’opinione pubblica nella Russia di Putin e, in generale, in contesti non democratici. Numerosi studi dimostrano come i sondaggi possano essere influenzati molte variabili, che in contesti non democratici acquisiscono peso maggiore: la formulazione delle domande, il luogo e il momento in cui vengono poste, la familiarità dei partecipanti con l’argomento in questione, la misura in cui essi si sentono liberi di esprimere la propria opinione in sicurezza, l’ente che conduce il sondaggio, e così via. In questo scenario fumoso è difficile misurare il consenso popolare di un regime, e quindi rispondere a una domanda che dal lancio dell’invasione su larga scala ha impensierito molte persone in Russia e non: quanto di quello che sta succedendo in Ucraina è colpa di ciascun cittadino russo? La questione chiama in causa i concetti di colpa e di responsabilità collettiva, e la relazione di accountability che lega governanti e governati, ossia il vincolo di responsabilità bidirezionale degli uni verso gli altri. 

A chiudere il volume c’è la storia di DOXA, rivista indipendente nata in seno alla Higher School of Economics, ateneo moscovita di fama liberale, raccontata da Katja, redattrice. La parabola di DOXA e del collettivo di ragazze e ragazzi che la animano mostra il tentativo da parte delle autorità russe di soffocare il dibattito politico all’interno delle università, ma anche di imporre un modello di giornalismo “neutrale”, che in questo contesto significa non critico nei confronti del potere. Di erodere, dunque, spazi che storicamente sono stati culle di dibattiti, cambiamenti e rivoluzioni.

Il filo rosso che lega le storie di Ljudmila, Grigorij, Ioann, Ivan e Katja sono le tattiche di resistenza quotidiane di chi si trova a lottare in un paese in cui fare opposizione è pressoché impossibile. Il processo storico che ha attraversato la Russia dal crollo dell’URSS ai giorni nostri, infatti, ha fatto sì che il paese si ritrovi ad oggi privo di infrastrutture che possano canalizzare il dissenso entro un fronte coeso, e fare opposizione sistematica al Cremlino. Questa situazione non è dettata dal caso, ma dalla combinazione di circostanze preesistenti l’ascesa di Putin, e dalla precisa volontà di Putin di esacerbare una situazione non favorevole allo sviluppo democratico della società civile sin dal suo primo mandato presidenziale. Analizziamo nel dettaglio la questione in un saggio conclusivo, a cui seguono poi due appendici. Nella Cronologia elenchiamo nel dettaglii i momenti fondamentali della dialettica fra opposizione e repressione dal duemila ad oggi. Nel Glossario della resistenza, invece, illustriamo metodi alternativi che cittadini e cittadine russe hanno escogitato per continuare a esprimere il loro dissenso in un contesto così soffocante.

Con La Russia che si ribella ci siamo posti l’obiettivo di mostrare dinamiche interne alla Russia di Putin che spesso rimangono lontano dalle cronache giornalistiche. Attraverso le voci dei nostri intervistati, abbiamo voluto mostrare le difficoltà e le sfide che attendono quella parte di popolazione che non si trova d’accordo con le politiche del Cremlino, e le soluzioni che sono state trovate per farvi fronte. Osservando da vicino le esperienze molto diverse fra loro di cinque dissidenti, il volume rivela passo passo i nodi e i dilemmi fondamentali della popolazione contraria al regime di Putin, facendo luce sul volto di una Russia che difficilmente si riesce a scorgere oltre le maglie della repressione putiniana.

Valigia Blu Live #IJF24 > Russia e Ucraina due anni dopo

Il panel dell'evento Russia e Ucraina due anni dopo

Nell'ambito dell'iniziativa Valigia Blu Live, Claudia Bettiol (corrispondente dall'Ucraina per Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa), Andrea Braschayko (giornalista tra gli autori del libro 'Ucraina. Alle radici della guerra', Maria Chiara Franceschelli (Scuola Normale Superiore di Pisa, co-autrice, con il professor Federico Varese, del saggio 'La Russia che si ribella'), Giovanni Savino (storico, si occupa di Russia e nazionalismi nell’età contemporanea presso l'Università Federico II di Napoli) interverranno il 21 aprile al Festival Internazionale del Giornalismo di Perugia nell’evento "Russia e Ucraina due anni dopo"

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Il rapporto di Mario Draghi e la svolta necessaria per l’Europa

20 Aprile 2024 11 min lettura

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Il rapporto di Mario Draghi e la svolta necessaria per l’Europa

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Sono ormai passati cinque anni dal 2019, anno delle ultime elezioni europee, eppure il mondo appare profondamente cambiato. La pandemia di Covid-19 è stata un evento spartiacque, in grado di separare il passato dal presente. Si è cominciato a parlare con più forza della transizione digitale, della crisi climatica, a non relegare il populismo a incidente della storia pronto a scomparire a ogni elezione. È poi giunta l’invasione su larga scala dell’Ucraina da parte della Russia, e ora anche la situazione in Palestina e nel Medio Oriente desta preoccupazione. A tutto ciò vanno aggiunte altre questioni con cui gli Stati si trovano a che fare, come il declino demografico e il ripensamento delle catene di approvvigionamento in un contesto di “post globalizzazione”. Una situazione talmente complessa, nel vero senso della parola, che l’economista e storico Adam Tooze l’ha descritto come il tempo della policrisi: varie crisi che, intersecandosi, sono più della somma delle parti, influenzandosi vicendevolmente. 

L’Europa di ieri non era abbastanza

A questo appuntamento con la storia l’Europa non arriva di certo preparata. La crisi che ha colpito l’economia mondiale tra il 2008 e il 2009, le varie crisi del debito sovrano che si sono susseguite e l’emergere di forze estremiste con intenti spesso isolazionisti hanno minato le sue basi. I paesi europei non sono certo scevri da colpe: basti pensare, per rimanere sul piano economico, alla fissazione sul debito e i vincoli di bilancio contenuti nel Patto di Stabilità, una visione miope criticata al tempo già da economisti come Olivier Blanchard, che ricopriva la carica di capo economista al Fondo Monetario Internazionale (IMF). Secondo Blanchard, quello di cui avevano bisogno molte economie avanzate non era un “cappio fiscale” nell’immediato, ma un piano di rientro del debito sul medio lungo termine. Questo, secondo l’IMF, passa anche attraverso investimenti pubblici per stimolare la crescita. 

Non solo: le politiche di consolidamento fiscale, in alcuni casi necessarie, hanno portato a un aumento delle disuguaglianze, come fanno notare sempre i ricercatori dell’IMF. Al contrario di quanto sostenevano invece i fautori dell’austerità espansiva, secondo cui un ridimensionamento dello Stato avrebbe stimolato il privato e generato una maggior crescita e occupazione, le politiche di consolidamento si sono rivelate scarsamente efficaci anche sotto questo aspetto. Uno studio ha infatti stimato che un consolidamento dell’uno per cento del debito PIL porta a un aumento della disoccupazione sul lungo periodo dello 0,6 per cento. Il detto dell’economista inglese John Maynard Keynes sembra valere ancora oggi: “È in periodi di crescita il tempo per l'austerity al tesoro, non durante le recessioni”.

Questo approccio non ha solo minato le basi della crescita in Europa, ma il modello stesso di un’Europa più solidale e socialdemocratica rispetto, ad esempio, agli Stati Uniti d’America. L’aumento delle disuguaglianze, i tagli al welfare e la disoccupazione hanno contribuito all’ascesa dei partiti di destra radicale, come mostrano le ricerche empiriche più aggiornate sul tema. 

La pandemia sembrava aver aperto uno spiraglio di cambiamento in Europa, sia dal punto di vista della politica fiscale sia per quella monetaria. Certo, nelle prime fasi della pandemia l’Europa sembrava essere restia a mobilitare le risorse necessarie per far fronte alle chiusure imposte dal dilagare dei contagi. Due sono gli esempi paradigmatici in merito: le dichiarazioni della presidente della Banca Centrale Europea (ECB), Christine Lagarde, secondo cui il compito della BCE non era quello di ridurre gli spread; le perplessità da parte di vari paesi europei nei confronti dell’emissione di debito comune sotto forma di Eurobond da parte dell’Europa che aveva portato vari politici italiani a recriminare la miopia di paesi frugali come la Germania. 

Proprio in quel periodo apparve sulle colonne del Financial Times un articolo dell’ex presidente della Banca Centrale Europea, Mario Draghi. Secondo Draghi, la pandemia era un’emergenza paragonabile a una guerra: richiedeva un intervento deciso degli Stati per supportare i lavoratori e il sistema economico, al fine di evitarne il collasso. Questo avrebbe comportato un aumento consistente del debito pubblico, ma si trattava di un pegno dovuto se l’alternativa era l’annientamento delle economie degli Stati europei. 

La risposta delle istituzioni europee, una volta compreso il rischio che la pandemia poneva, non si fece attendere: l’erogazione di SURE per contrastare la disoccupazione, l’ombrello della Banca Centrale Europea con il Pandemic Emergency Purchase Programme (PEPP) che dava ossigeno agli Stati nel mobilitare le risorse finanziarie necessarie. E infine il Next Generation European Union (NGEU), ottenuto dopo varie contrattazioni, la cui versione italiana prende il nome di Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), un piano per gettare le basi di un’Europa più competitiva. 

Anche al netto di quanto fatto durante la pandemia, l’Europa è rimasta indietro rispetto agli Stati Uniti. Anche la Cina si è ormai imposta come player di grande importanza nel panorama economico internazionale. Sul fronte tecnologico, l’Europa non ha poli paragonabili alla Silicon Valley e anche l’importanza del settore automobilistico è stata recentemente minacciata dalla Cina che si sta espandendo al di fuori dei confini nazionali. Anche lo studio commissionato all’ex Presidente del Consiglio e Segretario del PD Enrico Letta fa notare la distanza abissale che si è ormai consolidata tra l’Europa e gli Stati Uniti d’America. 

Proprio per indagare su questi ritardi, la commissione europea ha incaricato Mario Draghi di redigere un rapporto sulla competitività dell’Europa nel mezzo delle trasformazioni economiche e geopolitiche che stanno attraversando il nostro tempo. 

Che cosa ha detto Draghi

Durante un incontro all’High-level Conference on the European Pillar of Social Rights Draghi ha esposto le linee guida del rapporto che verrà presentato dopo le elezioni europee sulla competitività. Draghi ha cominciato sottolineando come, per molti, la questione competitività resta controversa: secondo alcuni è più corretto concentrarsi sulla produttività, che va invece a beneficio di tutti. 

Per Draghi non è di per sé il concetto di competitività a essere sbagliato. Il problema è stato nella sua implementazione da parte dell’Europa nel corso degli anni: una strategia che si è infatti basata sulla compressione salariale per competere tra Stati membri, assieme a una politica pro-ciclica che ha danneggiato la domanda interna. Vedendo gli altri paesi membri e non il resto del mondo come competitor si è quindi finiti a danneggiarsi l’un l’altro. Questo facendo affidamento su un contesto internazionale favorevole che, come dice Draghi, ora è cambiato. I due esempi citati da Draghi sono appunto quelli di Cina e Stati Uniti. 

La prima punta a internalizzare le catene di approvvigionamento e la produzione riguardante le tecnologie verdi e avanzate. Non a caso, il commentatore economico Noah Smith ha fatto notare come la Cina, rispetto ai paesi europei e agli Stati Uniti, veda la rivoluzione tecnologica più nella componentistica che nell’aspetto dei servizi. In questo modo, riesce a catturare un’enorme fetta di mercato rendendo dipendenti dalla sua produzione gli altri paesi. 

Gli Stati Uniti invece puntano su una politica industriale in grado di potenziare le loro imprese e attrarre la capacità produttiva di altri paesi, varando poi misure protezionistiche per difendersi dalla concorrenza. Non è un caso che, non solo sull’automotive con i provvedimenti voluti da Trump, ma anche con Biden vi siano state delle frizioni con l’Europa, ad esempio sull’Inflation Reduction Act. 

All’Europa, secondo Draghi, manca una strategia su vari settori che rischiano di essere danneggiati dalla concorrenza esterna. Un caso emblematico è quello della transizione verde: l’Europa sta via via approvando provvedimenti più ambiziosi per far fronte alla crisi climatica, ma sono i concorrenti, a partire dalla Cina, che controllano le risorse necessarie per la transizione verde. Questo necessita di un piano per mettere al sicuro le proprie catene di approvvigionamento Si tratta di una questione già nota: per esempio, in maniera quasi paradossale, la strategia energetica europea ha dovuto adattarsi per via della sua dipendenza dal gas russo. Per anni i rapporti sono stati più o meno pacifici, ma dopo l’invasione dell’Ucraina, il modello di sviluppo che si basava su gas a basso costo proveniente dalla Russia è venuto meno, richiedendo una diversificazione delle fonti estemporanea per far fronte alla situazione. 

Secondo Draghi la risposta alle sfide poste dal mondo di oggi dell’Europa è stata deludente perché adatta a un mondo che non c’è più: a un mondo pre-Covid, pre-invasione dell’Ucraina, pre-ritorno delle ostilità tra le potenze. Serve quindi un radicale cambio di passo. Per quanto ogni settore richieda una strategia a sé stante, Draghi ha individuato tre fili conduttori che dovranno guidare le policy

Il primo è sfruttare le economie di scala. Come detto prima, altri paesi come Cina e Stati Uniti stanno sfruttando la loro dimensione per diminuire i prezzi unitari, aumentare gli investimenti e catturare quote di mercato, mentre in Europa il meccanismo è di concorrenza tra paesi che spesso hanno interessi contrastanti: basti pensare al caso già trattato di Francia e Germania riguardo i rapporti con la Cina sull’auto elettrica. L’Europa deve quindi abbandonare questa visione concorrenziale interna per poter sfruttare la sua dimensione continentale e poter fungere da competitor con le altre potenze. 

Anche qui Draghi cita degli esempi. Due su tutti sono di cruciale importanza. Il primo riguarda il tema della difesa: la mancanza di economie di scala ostacola la creazione di un’industria della difesa europea. Un tema che non riguarda soltanto l’eventuale utilizzo della forza militare: sembra ormai esserci evidenza che gli investimenti in difesa abbiano delle ricadute positive sulla produttività. L’Europa invece si concentra prevalentemente sull’esportazione. Il secondo riguarda invece le imprese più giovani che potrebbero avere idee innovative. È un fatto noto che, nonostante l’Europa produca ottima ricerca di base, questa non abbia poi applicazioni di mercato così importanti come succede negli Stati Uniti. Questo perché le imprese più giovani, per crescere, hanno bisogno di un mercato interno in grado di assorbire le nuove idee che l’Europa, unita, potrebbe avere. Inoltre il ruolo sempre più predominante dell’AI richiede una stretta cooperazione sui dati che, provenendo da più paesi, garantirebbe a queste aziende una maggior capacità concorrenziale con l’esterno. 

Un altro punto importante riguarda l’erogazione di beni pubblici. Si tratta di quei beni di cui beneficiano tutti, come ad esempio le infrastrutture, ma che non hanno incentivi per essere finanziati. Draghi cita ad esempio la rete pubblica di computer ad alte prestazioni: anche in questo caso, pur essendo dotati di un’ottima infrastruttura, le ricadute sul settore privato sono limitate. Questa rete potrebbe essere di vitale importanza per le imprese innovative, soprattutto quelle che si servono dell’AI, e in cambio le ricadute monetarie potrebbero in parte andare a finanziare l’estensione del cloud in Europa e la stessa infrastruttura di super computer. 

C’è poi l’approvvigionamento di risorse e input essenziali. Qui è interessante notare come Draghi faccia riferimento, oltre alle materie prime necessarie per la transizione ecologica e digitale, alla forza lavoro qualificata. Secondo quanto detto dall’ex presidente del Consiglio, tre quarti delle imprese europee segnala difficoltà a reperire figure specializzate, in un contesto già di invecchiamento della popolazione e di posizioni meno favorevoli in materia migratoria. Per questo motivo sarà necessario puntare di più sulla formazione e sul miglioramento delle competenze necessarie per un mercato del lavoro in rapido cambiamento. 

Il discorso si è concluso evidenziando come i nostri competitor sono avvantaggiati perché paesi unici. Secondo Draghi anche l’Europa può puntare diventarlo, con una coesione maggiore seguendo lo spirito della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA) che gettò le basi per l’Europa odierna. 

Le critiche e i limiti del discorso di Draghi

Sia in Italia che all’estero il discorso di Draghi sta ricevendo molte attenzioni, soprattutto dagli addetti ai lavori. Più che i consensi, può essere utile concentrarsi sulle critiche che il discorso sta ricevendo. 

Tra i critici c’è l’economista di Harvard Dani Rodrik. Secondo Rodrik, l’impostazione europea di concentrarsi sulla competitività lascia a desiderare. Il vero problema sarebbe invece la produttività. In particolare, Rodrik sottolinea da tempo, assieme ad altri economisti come Daron Acemoglu del MIT, la dipendenza della produttiva dalla creazione di buoni lavori (good jobs). La nozione di competitività, al contrario, si concentra più sulle competenze dei lavoratori che sulla loro remunerazione e sui loro diritti.

La seconda critica più importante arriva invece dalle colonne del Fatto Quotidiano. Il coordinatore del Forum Uguaglianza e Diversità nonché ex ministro del Governo Monti Fabrizio Barca fa notare come la soluzione adottata da Draghi sia di fatto un’Europa che copia gli Stati Uniti d’America. Una delle criticità sottolineate da Barca è l’eccessiva attenzione dedicata da Draghi nei confronti del settore della difesa. Questa critica, per quanto in parte condivisibile, deve appunto tenere conto degli spillover che il settore della difesa ha poi sull’intera economia, come dimostra l’agenzia federale americana DARPA. Anche l’idea della scalabilità, in analogia con gli Stati Uniti, non convince Barca, secondo cui sarebbe solo un modo per creare una maggior concentrazione economica, ignorando invece la discussione odierna proprio sugli impatti che la concentrazione di mercato ha sulla democrazia. 

La critica più interessante rivolta da Barca al discorso di Draghi è sul lavoro, a partire dalle parole utilizzate: Draghi intende i lavoratori come uno degli input della funzione di produzione, da formare adeguatamente e immettere nel mercato per garantire profitti per le aziende. Ma proprio la formazione rischia di essere un tasto dolente: la rapidità dei cambiamenti a cui stiamo assistendo lascia poco spazio a figure altamente specializzate, data anche l’estrema eterogeneità che contraddistingue la produzione aziendale. Servirebbe invece una preparazione di base in grado di garantire adattabilità e libertà ai lavoratori. 

Il rapporto di Draghi rappresenta sicuramente un passo avanti rispetto all’Europa di oggi. Si prende infatti atto di politiche e strategie che si sono rivelate fallimentari, che hanno danneggiato i lavoratori e quindi la democrazia, screditando quindi l’Europa. E di certo i tre filoni individuati da Draghi rappresentano delle sfide che l’Europa dovrà affrontare per potersi porre come partner strategico. Quello che però viene a mancare è proprio ciò che differenzia il modello statunitense da quello europeo: non c’è, nella visione di Draghi, un ritorno a un’Europa più solidale, seguendo il modello che aveva contraddistinto il periodo del consenso keynesiano. Anche sull’aspetto della concentrazione di mercato sottolineato da Barca è necessario porre l’attenzione. Negli Stati Uniti e nel mondo accademico vi è oggi una maggior attenzione a questi temi che rischiano invece di essere esacerbati dalle proposte di Draghi. 

Il rischio in cui incorre il report è quindi non stabilire il sempre più evidente legame tra la crescita e la disuguaglianza, soprattutto nel contesto dell’Europa. Come dicevamo in apertura, proprio perché si sono sentiti abbandonati in preda alla globalizzazione, i cittadini hanno cominciato sempre di più a votare per partiti populisti e di destra radicale. Questo ha senza dubbio indebolito la reputazione dell’Europa. Per questo motivo l’attenzione per la crescita va integrata con una visione inclusiva. In questo modo l’Europa potrebbe proporsi come terzo polo tra gli Stati Uniti e la Cina, come potenza sì economica, ma in grado di garantire uguaglianza e pari opportunità ai suoi cittadini. 

Immagine in anteprima via flickr.com

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Le elezioni in India: in gioco il futuro della democrazia

19 Aprile 2024 12 min lettura

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Le elezioni in India: in gioco il futuro della democrazia

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Il 19 aprile l’India comincia a votare per le elezioni politiche generali, un esercizio che dura quasi due mesi e secondo ogni previsione darà la terza vittoria consecutiva all’attuale primo ministro, Narendra Modi, leader del Bharatiya Janata Party (BJP, Partito nazionale indiano): una longevità di governo senza precedenti nella storia dell’India indipendente. 

Modi è un leader controverso. È spesso descritto come un modernizzatore che ha favorito una rapida crescita dell’economia e portato l’India alla ribalta mondiale. È anche un governante autoritario e accentratore, accusato di svuotare le istituzioni democratiche e di promuovere un progetto identitario che minaccia la natura plurale della società indiana. 

Eppure resta un leader molto popolare, ha un carisma indiscutibile, e nel decennio trascorso al potere ha per molti aspetti trasformato l’India. Vediamo come, e cosa è in gioco in questa tornata elettorale.

Grandi numeri

Portare alle urne un paese immenso come l’India non è cosa da poco. Hanno diritto al voto 970 milioni di cittadini, ovvero 150 milioni più dell’ultima consultazione generale nel 2019. Sono chiamati a rieleggere i 543 deputati del parlamento nazionale, il Lok Sabha (l’India è un’Unione di 28 Stati e 8 territori federali).

969 milioni di aventi diritto al voto; 2.600 partiti che hanno presentato candidati in almeno alcuni collegi; 1 milione di sezioni di voto; 543 seggi nel Lok Sabha (la camera bassa del parlamento dell’Unione); 48% la percentuale di donne tra i votanti.

969 milioni di aventi diritto al voto; 2.600 partiti che hanno presentato candidati in almeno alcuni collegi; 1 milione di sezioni di voto; 543 seggi nel Lok Sabha (la camera bassa del parlamento dell’Unione); 48% la percentuale di donne tra i votanti.

Il voto è elettronico, le schede sono scritte in 12 lingue. La logistica è tale che le elezioni si svolgono in sette date tra il 19 aprile e il primo giugno. Il conteggio si svolgerà alla fine e i risultati sono attesi il 4 giugno. 

L’India comprende 28 Stati e 8 Territori dell’Unione, e 543 seggi elettorali per altrettanti seggi del Lok Sabha, o parlamento dell’Unione. Ma sarebbe difficile far votare tutti lo stesso giorno: le elezioni si svolgono in sette giornate (fasi), come illustra questa mappa. Il conteggio avverrà il 4 giugno. (fonte: Electoral Commission of India)
L’India comprende 28 Stati e 8 Territori dell’Unione, e 543 seggi elettorali per altrettanti seggi del Lok Sabha, o parlamento dell’Unione. Ma sarebbe difficile far votare tutti lo stesso giorno: le elezioni si svolgono in sette giornate (fasi), come illustra questa mappa. Il conteggio avverrà il 4 giugno. (fonte: Electoral Commission of India)

L’India vota secondo un sistema proporzionale semplice: il leader del partito che avrà sommato più seggi avrà l’incarico di formare un governo. L’esito pare scontato, la sola incognita è se Modi manterrà la maggioranza record dell’ultima legislatura (44% dei seggi al solo partito BJP, 55% con la coalizione di destra nazionalista chiamata Alleanza Nazionale Democratica, Nda). O invece se sarà scalfita dal partito del Congress, principale avversario politico su scala nazionale, con la coalizione chiamata India (Alleanza nazionale indiana per lo sviluppo). 

Un’altra incognita è se il BJP, tradizionalmente radicato nell’India settentrionale, riuscirà a fare breccia negli Stati del sud, oggi governati da partiti con forte presenza e radicamento regionale, indipendenti dai due schieramenti anche se di volta in volta alleati con uno o l’altro. La frattura tra nord e sud è visibile in termini demografici, economici, e politici, ed è uno dei trend da tenere d’occhio. 

In gioco però è molto più che un’alternanza tra schieramenti. In dieci anni Modi ha cambiato la stessa cultura politica dell’India. Per capirlo, guardiamo alcune istantanee della campagna elettorale.  

Gigantografia del leader

Gigantografie di Narendra Modi sono comparse nelle ultime settimane in tutta l’India: presso i monumenti più popolari, le università, ovunque si raccolgano folle, così tutti possano farsi un selfie con il primo ministro. Un esempio di presenzialismo sfrenato (era stato Modi a usare gli ologrammi, nelle sue prime campagne elettorali: così anche nei comizi da remoto sembra presente, un leader ubiquo). Al limite del culto della personalità. Il mondo intero ne ha avuto un assaggio durante l’ultimo vertice del G20, in India in settembre, gestito con coreografia grandiosa: come quando Modi solo al centro della scena riceve uno a uno i governanti stranieri, quasi fossero li per rendergli omaggio. Verso il mondo era una rivendicazione di orgoglio nazionale; per l’audience interna la prova che l’India è ormai una potenza rispettata e il suo premier un “vishwa guru”, maestro del mondo. 

Il successo dell’India nell’economia e sulla scena mondiale è un cardine della campagna elettorale del primo ministro. Quando ha vinto il suo primo mandato nazionale, dieci anni fa, Narendra Modi si presentava promettendo sviluppo e benessere. Era stato per dieci anni il chief minister (capo del governo statale) del Gujarat, stato dell’India nord-occidentale tra i più benestanti e industrializzati della nazione. Il “modello Gujarat” è stato celebrato perfino oltre misura (era uno stato industrioso anche prima del governo di Modi), ma certo era una carta convincente: la promessa di promuovere investimenti, nuove industrie, infrastrutture, città moderne, e creare occupazione per un paese dove ogni anno tra 10 e 12 milioni di giovani entrano nel mercato del lavoro. 

Di origine sociale umile e di casta bassa, Narendra Modi “si è fatto da solo”. Ha avuto buon gioco a dipingere il suo principale avversario politico, il leader del Congress Rahul Gandhi, come un esempio della tradizione dinastica così radicata nella politica indiana: un privilegiato, senza esperienze di governo, e il nome come unica credenziale – l’ultimo rampollo della casata che comincia con il bisnonno, Nehru, la nonna Indira Gandhi, i genitori Rajiv (scomparso ex primo ministro) e Sonia.

Modi “ha capitalizzato sull’insofferenza diffusa verso il Congress, percepito come partito dinastico, corrotto, inefficiente, vecchio”, fa notare Anant Nath, direttore di The Caravan, importante magazine indipendente in India: “Inoltre capitalizza sulla sua immagine di leader forte e ha giocato la carta hindu”.

Il “modello Gujarat” infatti ha un altro aspetto, molto più oscuro: un’ondata di violenza religioso-identitaria contro la popolazione musulmana, che ha fatto oltre un migliaio di vittime nel 2002 e 2003, quando Modi si era appena insediato al governo dello Stato. Diverse indagini ufficiali in seguito accusarono il chief minister di aver permesso se non istigato quelle violenze (Modi non fu mai condannato, ma lo furono persone a lui molto vicine). Ciò non gli ha impedito di diventare il beniamino della grande industria e costruirsi l’aura di buon governo che l’ha portato alla guida della nazione. Sui pogrom antimusulmani è calato il silenzio. Ne ha fatto le spese la BBC, che ha prodotto un documentario sul ruolo di Modi nelle violenze (India: The Modi Question): è andato in onda nel febbraio 2023 solo nel Regno Unito (in India è stato vietato); poco dopo gli uffici dell’emittente a New Delhi e Mumbai sono stati perquisiti e da allora la BBC è nel mirino di indagini per presunte irregolarità fiscali. 

La “nazione hindu”

Altre immagini vengono da Ayodhya, piccola città al centro della pianura del Gange, non lontano da Varanasi (Benares), cuore della “cintura hindi”. Qui, alla fine di gennaio, Narendra Modi ha solennemente inaugurato un tempio a Rama, un dio hindu. Sembrava un evento di Stato: ministri, personalità politiche e grandi imprenditori, oltre a star di Bollywood, giornalisti di grido e perfino alti militari (cosa inusitata in India, dove non c’è mai stata commistione tra forze armate e politica). Quel giorno il premier ha annunciato che il nuovo tempio segna “l’inizio di una nuova era”. È stato il vero avvio della campagna elettorale. 

Ayodhya ha un forte significato simbolico per Modi e il suo partito, che ha cominciato la sua ascesa politica negli anni ’80 proprio con la campagna per costruire quel tempio. Una campagna violenta. Sul sito prescelto c’era allora una secolare moschea intitolata a Babar, il primo dei regnanti Moghul che governarono in India; la moschea fu distrutta nel 1992 da una folla di fanatici hindu guidati dagli allora leader del BJP; ne seguì un’ondata di violenze in tutto il paese con oltre duemila morti, quasi tutti musulmani. Fu un evento spartiacque per l’India che aveva appena avviato la sua liberalizzazione economica. Le fortune elettorali del BJP cominciarono allora. 

Other Backward Classes (Obc, o “altre classi arretrate”) è il termine ufficiale che indica le caste o gruppi di popolazione svantaggiati per status socio-economico o educativo, a cui lo stato riconosce quote riservate negli impieghi pubblici e nel sistema educativo o altri vantaggi. In alcuni stati arriva a includere oltre metà della popolazione, e ormai si usa distinguere tra Obc “alte” e “basse”. Per il Bjp, che tradizionalmente rappresenta gli hindu di casta alta, conquistare il voto delle caste più basse è una scommessa importante. Questa tabella mostra che il Bjp è in effetti riuscito a raccogliere quote crescenti di voto tra le Obc. [In blu: BJP; in verde: Partito del Congresso; in grigio: partiti regionali) – Fonte della tabella: Rahul Verma, in Times of India, 14 ottobre 2023. Ripreso da Carnegie Endowment for International Peace]
Other Backward Classes (Obc, o “altre classi arretrate”) è il termine ufficiale che indica le caste o gruppi di popolazione svantaggiati per status socio-economico o educativo, a cui lo stato riconosce quote riservate negli impieghi pubblici e nel sistema educativo o altri vantaggi. In alcuni stati arriva a includere oltre metà della popolazione, e ormai si usa distinguere tra Obc “alte” e “basse”. Per il Bjp, che tradizionalmente rappresenta gli hindu di casta alta, conquistare il voto delle caste più basse è una scommessa importante. Questa tabella mostra che il Bjp è in effetti riuscito a raccogliere quote crescenti di voto tra le Obc. [In blu: BJP; in verde: Partito del Congresso; in grigio: partiti regionali) – Fonte della tabella: Rahul Verma, in Times of India, 14 ottobre 2023. Ripreso da Carnegie Endowment for International Peace]

Il BJP è l’espressione politica di uno schieramento di forze religiose e sociali che si richiama all’ideologia chiamata hindutva e ha un programma preciso: fare dell’India una “nazione hindu”, dove la maggioranza esercita la sua “naturale” supremazia in ogni aspetto della vita sociale, politica e culturale. 

È un progetto che sovverte l’India come l’abbiamo conosciuta. Circa l’80% dei cittadini indiani in effetti si dichiara hindu. Ma poi ci sono 200 milioni di musulmani (il 14% della popolazione), oltre a cristiani, buddisti e altre minoranze religiose. Nella storia dell’India indipendente la difesa di un paese secolare, plurale e inclusivo è stata la prima “discriminante democratica”. Per i fautori della “nazione hindu” invece la maggioranza deve dettare legge (nel vocabolario politico è entrata la parola “majoritarianism”, governo della maggioranza).

Quel tempio dunque segna un punto di arrivo: oggi l’idea della “nazione hindu” è saldamente nel mainstream politico. E a incarnarla è Narendra Modi, la figura più estrema del Bjp e anche quella che ha accentrato un potere senza precedenti.

Un assaggio della “nazione hindu” è la Legge sulla cittadinanza (Citizenship Amendment Act) entrata in vigore in marzo. Stabilisce che avranno un canale preferenziale per l’acquisizione della cittadinanza indiana i migranti e rifugiati arrivati dai paesi vicini se sono hindu, parsi, sikh, buddisti, jain o cristiani. Ovvero, non se sono musulmani. 

Voluta dal governo Modi e approvata dal parlamento nel dicembre 2019 senza una vera discussione, la legge sulla cittadinanza ha suscitato grandi critiche: una legge considerata incostituzionale, contraria ai principi di eguaglianza. Era nato un movimento di protesta, con un presidio permanente in un parco di New Delhi, Shaheen Bagh, proseguito per mesi con comizi e assemblee pubbliche nonostante migliaia di arresti e un centinaio di morti in raid di estremisti hindu o cariche di polizia – infine è stato smobilitato solo dalla pandemia di Covid-19 e il lockdown del marzo 2020.

Una democrazia svuotata

Secondo molti critici, quella legge approvata senza discussione è anche il segno di un parlamento svuotato di ruolo. Non si contano i casi di deputati dell’opposizione sospesi, a cominciare da Rahul Gandhi medesimo, colpiti da “provvedimenti disciplinari”, per aver rivolto interrogazioni critiche al primo ministro.

Non solo: “In dieci anni, le istituzioni fondamentali di una democrazia sono state indebolite o messe sotto controllo dal governo”, dice ancora Anant Nath. “Si tratta delle istituzioni di garanzia, quelle che dovrebbero garantire i contrappesi al potere esecutivo”, spiega: la magistratura, il Central Bureau of Investigation (l’ente federale di indagine), la Banca Centrale, gli enti di indagine sui reati economici, fino alla Commissione elettorale (i cui vertici sono stati sostituiti d’improvviso nelle prime settimane dell’anno, alla vigilia del voto). I grandi media sono allineati al governo; le testate indipendenti sono sottoposte a continue angherie. Gli enti di indagine fiscale sono stati usati per perseguire organizzazioni della società civile, media indipendenti, ONG. O esponenti politici: il caso più clamoroso è l’arresto di Arvind Kejrival, leader del partito Aam Aadmi e attuale chief minister dello stato di New Delhi, fermato il 22 marzo con accuse di malversazione che non sono ancora state motivate. 

“La democrazia indiana non è mai stata così debole”, commenta Nath. “L’unico paragone è con l’Emergenza dichiarata nel 1975 da Indira Gandhi, quando il parlamento fu sospeso e tutte le istituzioni di cui stiamo parlando furono o soppresse, o ridotte a collaborare con il governo”. La differenza, dice, “è che quella era un’Emergenza formale. Oggi è un’emergenza non dichiarata, una progressiva erosione del diritto nel consenso generale”. 

Perfino la Corte suprema “ha fatto poco per fermare l’attacco alle libertà democratiche”, scrive Ramachandra Guha, illustre storico dell’India moderna i cui commenti sono pubblicati sulla stampa indiana e internazionale. Cita ad esempio la legge “per la prevenzione delle attività illegali” (Unlawful Activities Prevention Act, Uapa), emendata nel 2019 per permettere di designare una persona come “terrorista” senza bisogno di formalità giudiziarie. È usata per perseguire attivisti sociali, studenteschi o difensori dei diritti umani: basta l’accusa di “attentare alla sicurezza dello stato” per restare in carcere anni con accuse mai provate.

Bond elettorali: la corruzione della macchina politica

In almeno un caso però la Corte Suprema ha messo un freno allo strapotere del governo. In febbraio la Corte ha dichiarato incostituzionale i “Bond elettorali”, peculiare sistema di finanziamento dei partiti varato nel 2018 dal governo Modi. Si tratta di titoli emessi dalla Reserve Bank of India, la banca centrale. Chiunque, privati cittadini o imprese, può comprare bond per somme che vanno da mille rupie (12 dollari) a decine di milioni e regalarli a un partito. Ma, mentre le donazioni dirette a un partito sopra una certa cifra (240 dollari) vanno dichiarate, i bond garantiscono anonimato (in teoria: ma la banca centrale è controllata dal governo). 

Il sistema dei bond elettorali dice molto sul finanziamento della macchina politica costruito dal governo Modi. Dal 2018 al marzo 2022 risulta che siano stati acquistati bond per l’equivalente di quasi due miliardi di dollari, che sono andati per il 57% al BJP (il secondo partito, il Congress, ne ha ricevuti per 115 milioni). Non solo. Quando la Corte Suprema ha dichiarato i bond illegittimi ha anche intimato alla Reserve Bank di pubblicare i nomi dei donatori. Così ora emergono “strane” coincidenze, ad esempio che importanti commesse e contratti pubblici sono stati assegnati a questo o quel grande gruppo industriale, guarda caso dopo consistenti acquisti di bond destinati al BJP. Il sistema dei bond elettorali ha “facilitato il capitalismo clientelare e distorto il mercato in un modo che amplifica le diseguaglianze”, scrive il magazine Frontline

Il welfare elettorale

“L’ironia è che intanto l’economia va alla grande”, commenta Anant Nath. “Grandi somme vengono investite in infrastrutture, autostrade, grandi centri commerciali. Così, chi viene in India vede un’economia fiorente, e non vede una democrazia indebolita”. 

Già, la promessa di “sviluppo e benessere”. L’economia senza dubbio cresce, anche se i dati vanno presi con cautela. L’Ufficio nazionale di statistica stima che il Prodotto Interno Lordo sia cresciuto del 7,3% nell’anno fiscale concluso in marzo; il Fondo monetario internazionale fa una stima del 6,3%. In ogni caso è una crescita più rapida della Cina, per non parlare dei paesi europei. Il trend per la verità data dai primi anni del secolo (se stiamo ai dati ufficiali, la crescita media nel primo decennio è stata intorno al 7% annuo; tra il 2014 e il 2022 è stata del 5,6%), ma il premier Modi è maestro nel controllare il discorso pubblico: è passata l’idea che il precedente governo del Congress avesse portato l’India alla stagnazione e lui l’abbia salvata.

Nella retorica ufficiale l’India decolla: ha superato il Regno Unito, ormai è la quinta economia mondiale dopo Usa, Cina, Germania e Giappone, secondo il Fondo Monetario Internazionale. Per rimettere le cose in prospettiva, la Cina ha un PIL annuo di 18.500 miliardi di dollari; l’India supera appena i 4.100 miliardi. 

Le cifre poi mascherano altri fatti. I salari stagnano. La disoccupazione resta costante. Gran parte del paese sopravvive a malapena. In campagna elettorale il governo ha moltiplicato sussidi e versamenti diretti. In novembre il primo ministro ha personalmente annunciato che 800 milioni di indiani riceveranno 5 chili di riso gratuiti al mese: ha detto che per uno come lui, cresciuto in povertà, è un dovere occuparsi dei poveri. Quasi fosse un suo regalo, e non quanto già previsto da una legge nazionale “sulla sicurezza alimentare” (approvata dal precedente governo del Congress). Qualcuno l’ha chiamato “welfare elettorale”.

Dietro le pretese di successo, dice Ramachandra Guha (professore alla Krea University e autore del saggio 'India After Gandhi: The History of the World’s Largest Democracy'), la realtà è diversa: perché “la fonte della sopravvivenza dell’India come un paese democratico, e del suo recente successo economico, sono il suo pluralismo politico e culturale, proprio le qualità che il primo ministro e il suo partito cercano di sopprimere”.

Immagine in anteprima: frame video Abc News In Depth via YouTube

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L’estrema destra continua a lavorare per il controllo dell’informazione

19 Aprile 2024 8 min lettura

L’estrema destra continua a lavorare per il controllo dell’informazione

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Varie scosse hanno colpito il mondo dell’informazione e il servizio pubblico, negli ultimi tempi. Nell’impossibilità di misurarle su una scala a rigore di scienza, procediamo comunque a passarle in rassegna, poiché indicative di come l’attuale maggioranza, in vista delle europee e guardando ai mesi successivi, stia alzando il livello dello scontro politico avendo in mente obiettivi ben precisi. Non c’è bisogno di avere chissà quali doti divinatorie per arrivare a capirlo, né dei vaticini di intellettuali profeti: basta l’osservazione di quanto applicato in altri paesi, seguendo modelli ormai consolidati. 

La par condicio “qualitativa” della maggioranza e il “cambio di narrazione” nella Rai

Partiamo dagli emendamenti approvati alla bozza di regolamento AgCom sulla par condicio. “Servizio pubblico ridotto a megafono del governo”, “si ritorna all’Istituto Luce”: così viene bollato dall’USiGRai, il sindacato dei giornalisti Rai, con tanto di comunicato letto durante le edizioni del telegiornale. 

Gli emendamenti, approvati il 9 aprile dalla maggioranza in commissione Vigilanza Rai, così dispone all’articolo 4, comma 6:

Nel periodo disciplinato dalla presente delibera i programmi di approfondimento informativo, qualora in essi assuma carattere rilevante l’esposizione di opinioni e valutazioni politico elettorali, sono tenuti a garantire la più ampia possibilità di espressione ai diversi soggetti politici, facendo in ogni caso salvo il principio e la necessità di garantire ai cittadini una puntuale informazione sulle attività istituzionali e governative

Nella parte finale del comma si celerebbe l’inghippo, come spiegato tra gli altri da Carlo Canepa (Pagella Politica) e Vitalba Azzollini (Domani). Spiega infatti quest’ultima, parlando apertamente di “zona franca” a favore della maggioranza: 

Si potrà, quindi, parlare con particolare ampiezza delle attività svolte dall’esecutivo, con conseguente maggiore visibilità dei suoi componenti, a scapito degli spazi che residuano per gli altri politici, nonché in deroga alla parità di condizioni che vale per questi ultimi. Se si considera che esponenti del governo sono candidati alle elezioni europee, si comprendono i motivi dell’emendamento e i risultati attesi.

Un altro aspetto controverso degli emendamenti è il comma 4 dell’articolo 4, per il quale i rappresentanti delle istituzioni candidati devono rispettare le regole stabilite per tutti gli altri, “salvo intervengano su materie inerenti all’esclusivo esercizio delle funzioni istituzionali svolte”. Tra i programmi di informazione, come rileva Canepa, “sono compresi i telegiornali, i giornali radio, i notiziari, le rassegne stampa e ‘ogni altro programma di contenuto informativo, a rilevante presentazione giornalistica’”. Con la scusa di dover informare i cittadini sulle attività di governo, quindi, esponenti della maggioranza avranno molto più spazio degli altri candidati alle prossime elezioni europee.

Gli emendamenti, messi così, sono una variazione furbesca di quanto chiesto dall’AgCom. L’Autorità garante per le comunicazione, infatti, a luglio aveva segnalato la necessità di integrare le norme sulla par condicio con criteri che non fossero solo quantitativi, ossia relativi al tempo concesso alle varie forze politiche, ma anche qualitativi, ossia relativi alle fasce orarie. Questo perché dieci minuti in prima serata sono ovviamente diversi da dieci minuti trasmessi a notte inoltrata. 

L’AgCom e la commissione di Vigilanza sarebbero in teoria chiamate a dialogare tra loro, nei rispettivi ruoli, per arrivare a regole condivise. Tuttavia l’AgCom, dopo la segnalazione di luglio, ha provveduto per l’appunto a stilare prima una bozza e poi un regolamento che non ha tenuto conto degli emendamenti della maggioranza, e che sarà applicato per le reti pubbliche e private. Nonostante ciò, il commissario AgCom Antonello Giacomelli ha dichiarato che il testo “è perfettamente sovrapponibile con la delibera adottata dalla commissione di Vigilanza”. 

A nostro avviso pareri come quello di Giacomelli sono un po’ troppo ottimisti. Prima di tutto, perché fuori dai confini italiani hanno iniziato a preoccuparsi, con i Verdi che al Parlamento Europeo hanno invitato la Commissione Europea a indagare sul nuovo regolamento. Inoltre, Giacomelli sembra partire dal presupposto che chi ha stilato le regole, le ha approvate ed è chiamato in prima persona a rispettarle abbia davvero l’intenzione di garantire una corretta informazione. E che quindi da un anno a questa parte non ci sia in atto, da parte dell’attuale maggioranza, una vera e propria operazione di conquista della Rai, come faceva notare lo scorso anno Francesca De Benedetti. Operazione resa possibile, tra l’altro, anche da una legge approvata dal governo Renzi nel 2015, che ha aumentato l’influenza governativa a Viale Mazzini. A dimostrazione che il problema riguarda la politica ad ampio spettro.

La situazione attuale della Rai va ben oltre la semplice lottizzazione, pratica di per sé deprecabile e purtroppo strutturale nei rapporti tra politica e media in Italia. Ricorda piuttosto la presa del servizio pubblico polacco da parte del partito di estrema destra Diritto e Giustizia (Prawo i Sprawiedliwość). Là la trasformazione del servizio pubblico in megafono del governo fu motivato dal bisogno di bilanciare l’informazione privata. Da noi invece Meloni ha parlato più volte del bisogno di “cambiare narrazione”, una sottovariante del vittimismo del potere. Del resto parliamo di una maggioranza e di una commissione di Vigilanza che a luglio ha cancellato un programma televisivo per rappresaglia politica, come successo a Roberto Saviano.

Da questo punto di vista, il comunicato e la presa di posizione dell’USiGRai è stato un sussulto di dignità. Purtroppo è arrivato da una categoria professionale che negli anni ha lavorato per minare la fiducia del pubblico, e lo stesso servizio pubblico non è esente da colpe. Tuttavia, è anche per questo motivo che il campanello d’allarme dell’USiGRai dovrebbe fissarsi ai nostri timpani: vuol dire che la misura è oltremodo colma, nonostante il recipiente sembri enorme. 

Ci sono stati nei mesi scorsi proteste dei comitati di redazione del TGR e di Rai News per “ingerenze politiche”. Ma questo tipo di mobilitazioni smuovono più che altro gli addetti, le associazioni e i sindacati di categoria, come se l’informazione non fosse un diritto essenziale che ci riguarda tutti; da questo punto di vista il problema è culturale ancora prima di essere politico. 

Questo “cambio di narrazione” ha avuto finora conseguenze sugli interi palinsesti. A voler essere il più generosi possibile, si potrebbe dire che la dipartita di volti storici del servizio pubblico come Annunziata, Fazio, Augias e, da ultimo, Amadeus (senza contare le voci su Federica Sciarelli e Sigfrido Ranucci tra addii e “blindature”) non sarebbe di per sé un fosco presagio. Il punto, però, è che finora questo ricambio è stato accompagnato da un rinnovamento mediocre, con programmi strombazzati che hanno chiuso dopo poche puntate. Sono però rimasti i nomi discutibili piazzati nei posti chiave, come il direttore del Tg1 Gian Marco Chiocci. Nel 2017 il quotidiano Il Tempo, allora diretto proprio da Chiocci, proclamò “uomo dell’anno” Benito Mussolini, e non perché vi fosse scarsità di candidati vivi. E questo solo per rendere l'idea.

Ne ha tratto giovamento prima di tutto Mediaset, che ha festeggiato nel 2023 il sorpasso di ascolti sulla Rai. Sorpasso che è stato oggetto di un botta e risposta persino tra Fiorello, che l’ha ammesso in diretta su Radio 2, e l’ad Rai Roberto Sergio, che ha parlato di “fake news”.  L’impressione è che quando seguiremo il Festival di Sanremo 2025, e ascolteremo le battute del comico filogovernativo di turno, col senno di poi ripenseremo a Fiorello come se fosse stato Bill Hicks.

Il livello dello scontro si sta alzando (e non ne sentivamo il bisogno)

Negli stessi giorni in cui si consumava lo scontro tra maggioranza, opposizione e USiGRai sul regolamento per la par condicio, ha fatto discutere l’emendamento del senatore Gianni Berrino (Fratelli d’Italia) al ddl Diffamazione. L’emendamento prevedeva il carcere fino a 6 anni e mezzo e una multa fino a 120mila euro. Sono arrivate reazioni allarmate da parte della Federazione Nazionale della Stampa, di associazioni di categoria e da vari giornalisti. L’emendamento è stato in seguito ritirato da Berrino, pare per evitare conflitti con la sua stessa maggioranza. 

A conti fatti, però, più che far litigare la compagine di governo l’emendamento ha avuto una sua efficacia. Ha permesso di deviare l’attenzione da altri punti più problematici della maggioranza. Lo stesso regolamento par condicio, ad esempio, ma anche l’approvazione di un DEF che, nella sua natura, è un testo complesso, non facile da comunicare nei suoi punti critici. Un DEF molto fumoso, per un argomento, l’economia, che è forse il principale tallone d’Achille del governo. 

Emendamenti di questo tipo hanno anche un valore contrattuale. Prima di tutto, perché qualunque altra proposta sulla diffamazione sembrerà più “moderata” e ragionevole”, come nella più classica applicazione della strategia “porta in faccia”. Ma tra le righe arriva il messaggio che, volendo, c’è una parte della coalizione pronta ad alzare il tiro senza troppi problemi; qualcuno può pensare che tanto vale scendere a patti con la componente "più moderata". Ma come in ogni drammaturgia che si rispetti, quando una pistola compare l’aspettativa è che prima o poi sparerà.

Poco importa l'eventuale applicabilità di un "emendamento Berrino". Questa destra, la cultura politica che esprime, punta a mettere in crisi lo Stato di diritto, esautorare i presidi democratici, fomentare il caos per porsi come custodi della legge e dell’ordine. 

A costo di ripetersi o sgolarsi a vuoto: se nel 2024 c’è gente convinta che il fascismo dei Trump, dei Bolsonaro o degli Orbán sia la reazione a una sinistra troppo “[riempire con parola vuota a piacere]”, e che se la sinistra fosse un po’ più di destra allora la destra non sarebbe costretta a radicalizzarsi, c’è tutta una letteratura sul concetto di “negazione” da recuperare. Il bullo è tale per motivi che esulano dalle caratteristiche del bullizzato. Le caratteristiche del bullizzato, al limite, spiegano perché venga scelto come bersaglio dal bullo.

Ecco perché lo scenario di una legge inapplicabile, o destinata a essere bombardata da ricorsi sulla sua costituzionalità o sulla conformità o meno alla Convenzione europea sui diritti dell’uomo è una strategia che non inficia questa agenda, anzi. Parliamo pur sempre di un paese in cui la classe politica, quando viene condannata sul mancato rispetto dei diritti umani, tende a fregarsene e andar dritta per la propria strada. Oppure, come nel caso del decreto Piantedosi, pensa bene di andare all’assalto di pesi e contrappesi democratici, come la magistratura che fa il suo lavoro.

Sotto questo aspetto c’è tutto un lavoro di alfabetizzazione giuridica basilare che manca, e che nessuna sembra intenzionato a caricarsi sulle spalle, e che rende quindi i cittadini meno attenti, meno consapevoli delle implicazioni. E questa è naturalmente l’altra metà del problema: perché si tratta di un lavoro fondamentale che non può essere lasciato ai bravi giuristi, o ad avvocati ed attivisti. Ci si abitua alle pessime leggi fintanto che toccano agli altri - o siamo convinti che sia così. Ci si abitua alla pessima informazione dimenticando che una Rai controllata dai partiti (o nel peggiore dei casi uno solo) è già una ferita che viene inferta, giorno dopo giorno, fascia oraria per fascia oraria, e nessuno sembra intenzionata a curarla.

Immagine in anteprima via La Stampa

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Crisi climatica: come diventare una città a impatto climatico zero

18 Aprile 2024 8 min lettura

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Crisi climatica: come diventare una città a impatto climatico zero

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La trasformazione delle città è essenziale per rispondere alla crisi climatica, e questo non solo perché nelle città vive la metà dell’umanità (3,5 miliardi di persone) ed entro il 2030 diverrà il 60%, ma anche perché gli insediamenti urbani sono importanti centri di produzione di emissioni climalteranti. Le città occupano appena il 3% del territorio terrestre ma sono responsabili del 60-80% del consumo energetico e del 75% delle emissioni di CO2, nonché del 70% delle emissioni di gas a effetto serra. Se vogliamo realizzare una reale transizione energetica, molte cose dovranno cambiare.

A partire da queste considerazioni, all’interno di Horizon Europe è stata definita la missione: raggiungere il numero di 100 città a impatto climatico zero entro il 2030. Le città coinvolte, selezionate tra 377 candidate, dovranno anticipare di 20 anni l’obiettivo globale di neutralità climatica al 2050. Tra i centri urbani selezionati figurano 9 capoluoghi italiani: Bergamo, Bologna, Firenze, Milano, Padova, Parma, Prato, Roma, Torino.

La missione coinvolgerà anche città esterne all’Unione Europea, in particolare Elbasan in Albania, Sarajevo in Bosnia Erzegovina, Reykjavík in Islanda, Eilat in Israele, Podgorica in Montenegro, Oslo, Stavenger e Trondheim in Norvegia, Istanbul e Izmir in Turchia, Bristol e Glasgow nel Regno Unito. 

Ognuna di esse dovrà sottoscrivere un “Climate City Contract”, un documento che tenga conto del contesto territoriale di riferimento e sia prodotto a partire da un processo aperto. Con questo contratto, le città si impegneranno per tre componenti specifiche: impegni strategici, azioni e investimenti. Per ognuno di questi il percorso prevede processi condivisi con gli attori locali, regionali e nazionali; analisi delle strategie attualmente al vaglio; definizione di piani di investimento, con valutazione costi e benefici, per capire come dirottare i finanziamenti pubblici da un lato, attrarre capitali privati dall’altro. 

Le città individuate porteranno avanti il proprio percorso beneficiando della consulenza comunitaria, attraverso la piattaforma NetZeroCities, oltre che di una serie di sovvenzioni e finanziamenti ad hoc. 

In Italia non ci sono Net Zero Cities a sud di Roma

Guardando all’elenco delle città italiane coinvolte salta immediatamente all’occhio la composizione geografica: sono quasi tutte al Nord e, in ogni caso, quella più a Sud è Roma. 

A incidere sulla selezione la scelta di puntare su città di grandi dimensioni e che avevano già avviato una pianificazione territoriale, anche se non necessariamente ad avanzati livelli di esecuzione. Come spiega infatti Francesco Luca Basile, docente dell’Università di Bologna e curatore, insieme ad Andrea Tilche e Michele Torsello, del libro 'Le città a impatto climatico zero. Strategie e politiche':

“Sicuramente la Commissione ha favorito le grandi città per rendere evidente che la sfida poteva essere raccolta anche da città complesse, con impatti significativi. Dobbiamo tener conto del fatto che nel 2050 il 75% della popolazione mondiale vivrà in ambito urbano, per cui se riusciamo a decarbonizzare le città, soprattutto le grandi città, dove vivranno più persone, la sfida climatica sarà più facile da affrontare”. 

Inoltre, poche città del sud hanno presentato la propria candidatura nonostante i grandi centri del Meridione avrebbero potuto candidarsi: appena 10 su 43. Spiega ancora Basile:

“Città come Napoli o Taranto avrebbero potuto farcela, anche perché la Commissione cercava adesioni di luoghi simbolici, città che presentano elementi caratteristici su cui sarebbe stato interessante immaginare un percorso pilota. Probabilmente se avessero fatto domanda sarebbero state selezionate. Sarebbe potuta essere una buona occasione, anche perché il percorso avrebbe riguardato gli ambiti urbani su cui le città hanno la possibilità di intervenire. Faccio un esempio: se Taranto avesse aderito, non si sarebbe richiesto al Comune di decarbonizzare l’ILVA, ma di intervenire nei capitoli per i quali c’erano margini per le amministrazione di attuare politiche di decarbonizzazione”. 

Non solo inadeguatezza di una serie di piani, dunque, ma anche mancanza di ambizione: i principali centri urbani del Sud Italia avrebbero potuto avere l’occasione di partecipare a percorsi che avrebbero messo la cosa pubblica al servizio della transizione ecologica, coinvolgendo cittadini, istituzioni e gruppi di interesse in una sperimentazione innovativa, ma non è accaduto. 

Non tutto è perduto però: “Stiamo chiedendo alla Commissione di riaprire le candidature - aggiunge Basile - c’è la possibilità che accada, con obiettivi temporali diversi, al 2035. Questa potrebbe essere l’occasione di includere ulteriori centri, magari al Sud, per immaginare lo sviluppo di pratiche politiche con nuovi obiettivi e approcci”.

Del resto la Commissione sta già lavorando a forme di sostegno per le 277 città non selezionate, attraverso il programma Horizon Europe. 

Come si diventa una città a impatto climatico zero?

Nel loro libro Basile, Tilche e Torsello suggeriscono alcune strategie e politiche di cui dovrebbero dotarsi delle città che ambiscono a essere a impatto climatico zero. “Per il nostro libro abbiamo volutamente scelto un titolo ambivalente - spiega Basile a Valigia Blu - scegliendo di parlare di impatto climatico zero: parliamo non solo di città che non impattano, ma anche che non vengono impattate”. L’intenzione del testo è infatti essere uno strumento al servizio sia del governo centrale, sia delle amministrazioni. Commissionato dal Ministro delle Infrastrutture e della Mobilità Sostenibile del Governo Draghi Giovannini, il testo serviva a conoscere il punto da cui partivano le città candidate alla Mission UE per mettere in campo i corretti percorsi di decarbonizzazione. 

Lo studio è un insieme di diversi contributi, in particolare su mobilità urbana ed efficientamento energetico degli edifici, principali fattori di impatto da parte delle città, e analizza una serie di questioni correlate alla mission, come quali potrebbero essere gli elementi che stimolano comportamenti virtuosi, quali sono i bias psicologici che portano a resistere all’innovazione o come ragionare e pianificare insieme adattamento e mitigazione sviluppando Natural Based Solutions. Anche se il riferimento è alle città candidate, le indicazioni possono essere valide per ogni città.

“Abbiamo provato ad avere un approccio a metà tra politico e tecnico - prosegue Basile - immaginando potesse essere utile far dialogare i due ambiti in fase di strutturazione di un Ufficio Clima, un luogo in cui si coordinino le politiche climatiche dei diversi settori e si sviluppi un dialogo tra amministratori e tecnici.  Ogni capitolo è corredato da un box con suggerimenti per le amministrazioni locali, ma l’idea in generale è sviluppare nelle città soluzioni innovative utili alla decarbonizzazione e le migliori pratiche sviluppate a livello europeo”. 

Nel libro vengono individuati tre grandi ambiti: decarbonizzazione degli edifici e mobilità; energia, verde e acqua: un impiego efficiente (e comunitario) delle risorse; gli investimenti necessari per essere città a impatto climatico zero.

  • Decarbonizzazione degli edifici e mobilità

Le soluzioni indagate riguardano innanzitutto la decarbonizzazione degli edifici, in un'ottica di efficientamento che riguarda sia le strutture e i materiali utilizzati per la loro costruzione (acciaio, calcestruzzo, legno e simili), sia i sistemi impiantistici. Gli edifici presi in considerazione sono quelli civili, che siano essi esistenti, in ristrutturazione o nuove costruzioni.

Ampia attenzione è poi dedicata alla decarbonizzazione della mobilità, nel nostro paese ancora caratterizzata da un’incidenza eccessiva dell’utilizzo delle auto private. Le politiche di decarbonizzazione di questo settore sono ad esempio l’aumento dei mezzi a zero emissioni ed elettrici e l’incentivazione di sistemi di mobilità dolce e di trasporto pubblico. Uno spazio è dedicato anche ai sistemi di mobilità non afferenti direttamente alle città come porti e aeroporti, ma l’attenzione si concentra soprattutto sull’analisi dell’efficacia di strumenti come ztl e strade a 30 chilometri orari. Da questo punto di vista il testo è stato precursore del dibattito che, in questi mesi, ha animato alcune città e ha portato Bologna a una trasformazione urbana profonda, con oltre il 70% di strade a 30km\h. 

  • Energia, verde e acqua: un impiego efficiente (e comunitario) delle risorse

In generale, la decarbonizzazione del sistema energetico è un passaggio essenziale e passa anche dall’elettrificazione dei consumi e da smart energy system come le smart grid, reti di informazione e distribuzione di energia elettrica che consentono di ottimizzare produzione e distribuzione. Ma per costruire le città di domani serviranno anche l’inclusione e la partecipazione della cittadinanza alla produzione energetica, con i positive energy district e le comunità energetiche. Queste ultime soluzioni, sottolinea Basile, sono virtuose non solo per la produzione di energia pulita e in ottica di decarbonizzazione ma anche perché hanno una dimensione sociale molto profonda. 

Una parte importante del percorso di decarbonizzazione delle città dovrà passare dalle Nature Based Solutions: innovazioni come aumentare il verde e i boschi urbani e sviluppare tetti verdi possono essere infatti utili all’efficientamento energetico, aiutando la mitigazione dei cambiamenti climatici, ma anche a migliorare le performance di adattamento come ad esempio la mitigazione delle isole di calore nella gestione delle ondate di calore. Senza considerare che incentivare la diffusione del verde nelle nostre città ha effetti di riduzione dell’inquinamento atmosferico.

Stesso discorso vale per la gestione sostenibile delle risorse idriche, che vede come primo passo fondamentale proprio l’efficientamento delle infrastrutture oltre, naturalmente, alla riduzione dei consumi. 

Uno strumento in sviluppo in diverse città, anche grazie ai fondi del PNRR, è il digital twin, la creazione virtuale di gemelli digitali di risorse fisiche, per poterne studiare proprietà, caratteristiche e capacità. 

Il piano su cui bisogna maggiormente insistere, secondo i ricercatori, è quello dei consumi degli edifici: serve sviluppare strumenti ad hoc e percorsi che facilitino la decarbonizzazione di edifici ad uso civile a partire da una revisione dei regolamenti urbanistici che facilitino una diffusione maggiore di pannelli fotovoltaici.

  • Investimenti, non costi

Per fare tutto questo servono innanzitutto risorse per investimenti importanti. In questa prospettiva, occorre sviluppare meccanismi che incentivino e supportino gli investimenti dei cittadini che saranno ampiamente ripagati mediante un ritorno o in termini di risparmio sulla spesa energetica (con il meccanismo delle esco: energy saving company) o con produzione di energie rinnovabili. 

Meccanismi del genere sono il fiore all’occhiello delle politiche climatiche dell’amministrazione comunale di Grenoble, che ha sviluppato un sistema di produzione energetica gestita da un ente in house del Comune che ha contribuito a fargli assegnare il premio come Green City Europea. 

“Penso che l’obiettivo della mission di avere al 2030, 100 città con impatto zero sia sfidante  ma - ha spiegato Basile - senza aspettare la fine del decennio, abbiamo già ottenuto importanti passi avanti. Quasi tutte le città coinvolte hanno già costituito il proprio ufficio clima, sottoscrivendo un contratto tra soggetti pubblici e privati per portare avanti progetti concreti di riduzione delle emissioni e di produzione di energia rinnovabile. In diverse città si sono sviluppati percorsi di partecipazione anche nella forma di assemblee per il clima per definire piani e azioni concrete.  Nelle città della Mission sempre più, le politiche di decarbonizzazione, non sono più più a margine della pianificazione urbana ma ne sono invece dei pilastri portanti che via via coinvolgono tutti gli attori in gioco con ricadute potenzialmente rilevanti sul taglio delle emissioni”.

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“Se non ci fossimo arruolati, in Ucraina la sinistra avrebbe smesso di esistere”: intervista allo storico e saggista Taras Bilous

17 Aprile 2024 17 min lettura

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“Se non ci fossimo arruolati, in Ucraina la sinistra avrebbe smesso di esistere”: intervista allo storico e saggista Taras Bilous

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di Polina Davydenko e Lukáš Dobeš 

Taras Bilous, storico e saggista che sta prestando servizio nell’esercito ucraino dall’inizio dell’invasione russa su larga scala, è uno dei rappresentanti più visibili della sinistra ucraina, ed è membro del gruppo Movimento sociale (Sociaľnyj ruch) e redattore del sito Commons (Spiľne). È conosciuto all'estero soprattutto per i suoi articoli "Lettera alla sinistra occidentale da Kyiv" e "Sono un socialista ucraino. Ecco perché resisto all'invasione russa". Pubblichiamo su Valigia Blu la traduzione dall’inglese dell’intervista concessa al sito ceco Alarm. La traduzione dal ceco all’inglese è stata pubblicata sul sito Europe Solidaire Sans Frontières ed è di Adam Novak.

All'inizio di febbraio, siamo andati nell'Ucraina orientale per incontrare Taras Bilous, storico e militante socialista. Bilous presta servizio nell'esercito ucraino dall'inizio dell'invasione su larga scala iniziata dall'esercito russo nel febbraio 2022. Attualmente si trova a poche decine di chilometri dalla linea del fronte.

L'intervista è stata condotta come parte di una prossima pubblicazione sulla scena anti-autoritaria ucraina.

Ci siamo incontrati fuori dalla base militare. Parlare di politica tra soldati è un problema?
Il comando non censura le opinioni dei soldati. Tuttavia, so per esperienza personale che quando i subordinati parlano con i media, soprattutto di argomenti politici, gli ufficiali di grado inferiore possono innervosirsi. Mi è capitato che un comandante avesse paura di prendersi una tirata d'orecchi per un'intervista, anche se realisticamente non c'era questa minaccia.

In ogni caso, cerco di evitare discussioni inutili. Non grido ai quattro venti le mie idee politiche o il fatto che sono uno storico, preferisco risparmiare le energie. Altrimenti, arriva subito qualcuno a chiedermi di parlare della Rus' di Kyiv o saltano  fuori domande provocatorie. Se mi sembra che in futuro possa nascere con quella persona una collaborazione nel campo dell'attivismo, allora inizio a parlarle.

Quanto è impegnativo lavorare con persone che hanno opinioni diverse?
Le opinioni non mi infastidiscono in un contesto simile. Qui le persone sono davvero diverse. In effetti, raramente si discute di politica in generale. Mentre sulle questioni che riguardano direttamente la nostra vita e il servizio militare, come la leadership di alto livello, troviamo abbastanza facilmente un terreno comune.

Un problema molto più rilevante nell'esercito è il fattore umano. Alcuni ufficiali danno ordini stupidi che fanno morire inutilmente le persone. Qualsiasi soldato che abbia prestato servizio per almeno sei mesi può raccontare più di una storia del genere.

Per quanto riguarda le truppe, nei primi mesi dell'invasione ci siamo fatti forza, ma ora, dopo due anni, la stanchezza si è fatta sentire. In Occidente, molti si aspettano che la stanchezza affievolisca gradualmente la nostra volontà di combattere. Ma l'essere stanchi non significa che continuare a resistere abbia perso importanza.

Ma come ho detto, le persone sono diverse quando combattono una guerra. Alcuni, nonostante le azioni degli ufficiali, capiscono che dobbiamo continuare a lavorare e a insistere. E altri... Una volta ho prestato servizio con un soldato di un'altra compagnia e abbiamo passato quattro giorni in una trincea che stava cedendo. Ho iniziato a ripararla e il soldato mi ha detto: "Che cazzo fai? Lascia che il comandante venga di persona a sistemarla".

Nonostante la comune determinazione nel continuare a resistere all'aggressione russa, tutti si chiedono: "Perché dovrei essere io a sacrificarmi?". Se i vertici hanno sbagliato i calcoli su qualcosa, perché i soldati dovrebbero pagarne le conseguenze con le loro vite? E questo include i civili, la cui disponibilità ad arruolarsi è in calo. Anche alcuni dei miei amici che hanno provato ad arruolarsi nel 2022 senza riuscirci stanno ora cercando di sfuggire alla mobilitazione. Non si tratta tanto di paura quanto di certe pratiche insensate che sono comuni nell'esercito: tutti le conoscono. Avrebbero potuto cambiarle molto tempo fa, ma a parte qualche eccezione in alcune unità separate, non l'hanno fatto.

Nel 2022 hai deciso di arruolarti nell'esercito pur non avendo avuto esperienza nel combattimento dopo il 2014. Queste due fasi della guerra sono diverse per te?
Nel 2014 è stata una guerra per il territorio. Alcune persone volevano davvero unirsi alla Russia, anche se erano una minoranza. Un numero abbastanza significativo di persone con opinioni filorusse voleva rimanere in Ucraina, ma con maggiore autonomia per Donec'k e Luhans'k. Naturalmente si può discutere a lungo su quale percentuale di popolazione del Donbas sostenga queste opinioni, e ciò che la gente pensa è cambiato nel tempo.

Alla vigilia dell'intervento delle truppe russe nel 2022, un sondaggio nel Donbas ha mostrato che per la maggior parte delle persone il benessere era più importante dello Stato in cui avrebbero vissuto - Ucraina o Russia. Questo vale per le persone che vivono su entrambi i lati del fronte. Naturalmente, il divario di opinione tra le due parti del Donbas si è ampliato nel corso degli anni. Si tratta di persone che si sono abituate a una doppia identità, per così dire. Quando vanno a Lviv, sono considerati filo-Mosca e quando sono a Mosca, la gente li chiama "khokhols" [termine dispregiativo russo per indicare gli ucraina, NdA].

Nel 2014, un russo, Igor Girkin, ha iniziato la guerra [conosciuto anche come Igor Ivanovich Strelkov, Girgkin è stato comandante militare della Repubblica Popolare di Donec'k, NdA], e più tardi nello stesso anno le truppe russe hanno invaso il territorio. Ma certamente molti locali, per varie ragioni, decisero di unirsi alla lotta contro l'esercito ucraino.

A quel tempo la guerra ebbe un effetto completamente diverso su di me, stroncando qualsiasi nazionalismo. Ma nel 2022 ci siamo trovati di fronte a un'invasione diretta, anche in zone come Kyiv, dove nessuno ha mai accolto l'esercito russo. Un'invasione del sud, delle regioni di Cherson e Zaporižžja, dove la maggior parte delle persone vuole tornare in Ucraina. Da questo punto di vista, ora è un tipo diverso di guerra, ed è tutto molto più semplice.

Credi che questa "doppia identità" influenzi direttamente i tuoi commilitoni?
Le opinioni differiscono ovunque, anche qui nella compagnia. Ad esempio, il mio attuale comandante di compagnia sembra aver sostenuto il movimento anti-Maidan nella primavera del 2014. Ho un rapporto teso con lui, quindi deduco di più da come discute nelle conversazioni con gli altri ufficiali. Secondo lui, alla popolazione dell'Ucraina orientale non piaceva la rivoluzione di Maidan, quindi chiedeva la federalizzazione, ma il governo non era disposto ad accettare i negoziati. Tuttavia, da quando il gruppo di Girkin [separatisti sostenuti da militari russi, NdA] ha conquistato la città di Slov"jans'k  nel 2014, sostiene che si tratti di un'operazione dell'intelligence russa. Non gli piacciono nemmeno gli attivisti che vogliono imporre a tutti la lingua ucraina. La maggior parte della mia unità proviene dalle regioni orientali e da quello che ho sentito non amano i nazionalisti. Alcuni dei miei conoscenti hanno prestato servizio in unità con ex membri della berkut - la polizia antisommossa - che hanno difeso il regime di Yanukovych durante Maidan e non hanno cambiato le loro opinioni da allora. Allo stesso tempo, difendono l'Ucraina dall'aggressione russa.

Quale posizione ricopri nell'esercito?
Durante i primi due anni dell'invasione su larga scala, ho prestato servizio principalmente come trasmettitore. In pratica, si trattava di un lavoro piuttosto vario: a volte stavo al computer, a volte sistemavo le radio e stendevo i cavi di comunicazione. Il più delle volte si sta in una trincea a diversi chilometri di distanza dalla linea di contatto. Forniamo un canale di comunicazione di riserva per chi sta là. Se, ad esempio, il canale di comunicazione generale si interrompe o il segnale non arriva, noi siamo lì per fornire un back-up.

Recentemente il mio lavoro è cambiato, sono in servizio in un battaglione di ricognizione, ma cosa faccio esattamente preferirei non dirlo pubblicamente.

Negli ambienti della sinistra ceca, la solidarietà con i civili e i rifugiati ucraini è forte, ma c'è ancora poca consapevolezza verso la resistenza armata, una certa incomprensione sull'ingresso volontario degli ucraini nell'esercito, mentre viene chiesto all'Occidente di fermare la fornitura di armi. Cosa ne pensi?
Vivere l'invasione in prima persona ti cambia. Come ha detto uno dei nostri redattori, è molto più facile stabilire le priorità in momenti così critici. Nella vita di tutti i giorni ci sono molte cose importanti per noi. Ma quando c'è in gioco la tua vita, questa diventa la priorità e tutto il resto è secondario. Allora la mente si libera un po'.

Nei primi giorni dell'invasione, ho capito che il futuro della sinistra in Ucraina dipendeva dalla nostra partecipazione attiva o meno alla guerra. Siamo tutti ampiamente giudicati dalle nostre azioni in momenti così critici. Noi di sinistra siamo già poco influenti in questo paese, e se non fossimo andati a combattere in quel momento tutto sarebbe crollato. La sinistra avrebbe smesso di esistere come entità di qualsiasi tipo in Ucraina. Per alcune ragioni, ero e sono ancora uno dei rappresentanti più visibili del movimento di sinistra che ora presta servizio nelle forze armate, e quindi ho una responsabilità non solo per me stesso, ma anche per gli altri. È stato anche più facile per me: non sono sposato, non ho nemmeno figli.

Per usare un eufemismo, non ero sicuro di essere un buon soldato. E questo è uno dei motivi per cui non mi sono preparato. Ho sempre pensato che sarei stato più utile in altri modi, ad esempio scrivendo articoli. A dirla tutta, non sono ancora un buon soldato [ride]. Ma sto imparando gradualmente, vedremo poi. Ho ancora almeno un anno intero davanti a me.

Dall'inizio dell'aggressione russa su larga scala, hai scritto due articoli molto influenti: "Lettera alla sinistra occidentale da Kyiv " e Sono un socialista ucraino. Ecco perché resisto all'invasione russa, che sono stati tradotti in diverse lingue. È possibile continuare a scrivere in condizioni di guerra?
Dall'inizio dell'invasione, sono riuscito a scrivere solo nei primi mesi, quando ne avevo la forza. C'era più tempo. In quei primi mesi la mia adrenalina era completamente fuori controllo. Non ho mai trovato così facile scrivere in vita mia. Di solito mi tormento nel formulare ogni frase, ma in quel periodo mi sono seduto e ho scritto un articolo in mezza giornata. Ora non più. Non ho l'energia o la sicurezza. Ora sono più critico e i pensieri si rigirano in testa.

In un'intervista hai detto che non sei certo di cosa accadrà alla popolazione filorussa delle regioni di Donec'k e Luhans'k e della Crimea, una volta liberati questi territori. Quale sarà il rapporto con questa parte della società? Cosa succederà?
Abbiamo già delle zone liberate, quindi abbiamo casi pratici da analizzare. Ad esempio, un mio amico, giornalista ed ex attivista di sinistra fuggito dalla Crimea nel 2014 per raggiungere l'Ucraina, si occupa ora della questione collaborazionismo a Lyman. Lì le persone vengono spesso processate ingiustamente. Ci sono, ovviamente, casi di persone che hanno partecipato attivamente alla repressione e che vanno certamente condannate. Tuttavia, ci sono anche casi in cui l'Ucraina sta chiaramente giudicando ingiustamente, ad esempio un elettricista del servizio tecnico che ha mantenuto le condizioni di vita della gente comune a Lyman durante l'occupazione.

Esiste un'ampia zona grigia in cui la situazione non è così chiara. Il termine "Stato di diritto" non è del tutto applicabile all'Ucraina, visti i numerosi problemi del sistema giudiziario. Nonostante ciò, il livello di repressione e il rispetto dei diritti umani nei territori occupati dalla Russia e nel resto dell'Ucraina non sono lontanamente comparabili.

Anche la narrazione del mainstream ucraino sulle regioni orientali è in qualche modo dissociata, quando si parla della popolazione locale. Da un lato, la gente le vede come "nostre", dall'altro le vede tutte come "separatiste". Non esiste una narrazione coerente di ciò che è accaduto nel 2014. Inoltre, se nel descrivere quegli eventi si supera una certa linea, si viene bollati come separatisti. Da questo punto di vista, non mi piace affatto il modo in cui vanno le cose in Ucraina.

Hai scritto che il governo Zelensky sta attuando politiche neoliberiste durante la guerra. Allo stesso tempo, lo hai descritto come il candidato più centrista, o almeno il più lontano dall'estrema destra. Vorremmo sapere come è cambiata la situazione negli ultimi due anni. Come lo percepisce l'elettorato? Ci sono cambiamenti a questo livello?
Sì, ci sono stati cambiamenti. All'epoca intendevo dire che tra i politici che hanno la possibilità di diventare presidente dell'Ucraina, Zelensky è il più moderato in termini di nazionalismo. Finora non ci sono stati cambiamenti in questo senso. Tuttavia, il consenso generale si è spostato verso un nazionalismo più forte. E anche Zelensky si è mosso in questa direzione. Si possono trovare anche politici più aperti di lui verso la popolazione russofona, ma non hanno alcuna possibilità di vincere le elezioni presidenziali. Mi sembra anche che alcuni esponenti della sinistra occidentale non capiscano che una posizione aperta sulle questioni linguistiche non significa un programma generalmente progressista. Dal mio punto di vista, questa è spesso solo una strategia dei populisti per conquistare gli ex elettori dei partiti filorussi.

Zelensky ha trascorso il primo anno e mezzo del suo mandato cercando di raggiungere la pace nel Donbas, e i tirapiedi di Poroshenko gliene fanno ancora una colpa. Nei primi mesi dell'invasione, nei suoi discorsi si è rivolto nuovamente al pubblico russo. Come molti ucraini, sperava che la popolazione della Federazione Russa alla fine si sarebbe sollevata. A un certo punto ha cambiato posizione, sostenendo la richiesta di non rilasciare visti ai russi e di vietare loro l'ingresso in Europa.

Nell'autunno del 2022, Putin dichiarò una mobilitazione e Zelensky parlò di nuovo ai russi nella loro lingua. A quel punto, il mainstream ucraino si era spostato abbastanza da superare la linea consentita. In momenti del genere, è evidente che la politica di Zelensky è sempre più inclusiva rispetto al mainstream politico ucraino. Quindi, sì, siamo davvero fortunati che le cose siano andate in questo modo.

Ma allo stesso tempo, questo non nega il fatto che Zelensky si stia comportando da stronzo su molte questioni. Di recente, per esempio, nel modo in cui ha affrontato la questione palestinese. Come risponde alle critiche, come compete con i politici rivali e come concentra il potere dei media. Lui e i suoi più stretti collaboratori sono persone di spettacolo e adottano un approccio molto professionale e tecnico per intercettare l'umore del pubblico. Ad esempio, nei primi giorni dell'invasione russa hanno unito le notizie televisive di tutti i canali in una maratone televisiva. All'epoca era una scelta adeguata alla situazione; nessuno poteva fornire da solo una tale copertura degli eventi attuali. Ma oggi possiamo dire che quel format comune avrebbe dovuto essere abolito da tempo, perché limita la libertà di parola. Ma Zelensky non lo fa . È circondato da stronzi e imbecilli. Potremmo fare un lungo elenco delle loro politiche totalmente inadeguate.

E la partecipazione della sinistra a Maidan? Tu non facevi parte dei movimenti di sinistra all'epoca. Potresti descrivere il contesto di allora?
Ho un rapporto contraddittorio con quel periodo. Ero presente a Maidan, ma non mi piace il pathos che c'era intorno. Ero un attivista prima di Maidan. Qualche mese prima abbiamo cercato di organizzare una protesta sull'istruzione. Abbiamo distribuito volantini nel campus, ma la gente era molto passiva. Ma non appena sono iniziate le manifestazioni, le stesse persone che qualche mese prima dicevano che non c'era motivo di protestare, o qualcosa di altrettanto cinico, all'improvviso si sono appassionate alla causa e hanno fatto discorsi così rivoluzionari che sono rimasto lì a fissarli [ride]. All'epoca non avevo capito che le persone cambiano improvvisamente in caso di grandi rivolte.

Maidan è una storia di resistenza allo Stato, all'apparato repressivo e anche di solidarietà. Ma quando la protesta è passata a una fase violenta, la partecipazione a quella violenza ha cambiato le persone, il che mi ha messo a disagio. Io sono di Luhans'k, quindi fin dal primo giorno ho osservato ciò che stava accadendo lì. Questo è stato uno dei motivi per cui ho vissuto Maidan in modo diverso dai miei compagni di classe e amici di Kyiv. Fin dall'inizio ho temuto che tutto si sarebbe trasformato in qualcosa di negativo nel Donbas. Purtroppo il mio timore si è avverato.

Sono diventato un uomo di sinistra in mezzo a tutto questo, nel 2014, quando la sinistra occidentale non si è mostrata sotto una buona luce. In effetti, all'epoca la sinistra ucraina era in decadenza per gli stessi problemi che oggi imputiamo all'Occidente.

La reazione della sinistra occidentale è generalmente migliore oggi rispetto al 2014, anche perché ora è chiaro chi è l'aggressore. Tuttavia, nei primi giorni dell'invasione del 2022, ho ritenuto necessario fornire un aiuto da qui per spiegare cosa e come, in modo da porre subito fine alle reazioni sbagliate. Pensavo, a modo mio esagerando, che la gente dell'Occidente si sarebbe svegliata. Ora mi rendo conto di quanto fossi ingenuo e di come avessi sottovalutato la portata del problema. Allo stesso tempo, avevo già avuto l'esperienza del 2014, sufficiente per non essere troppo sorpreso dalla reazione della sinistra occidentale. Ma abbiamo anche membri più giovani che sono entrati nel movimento di sinistra negli ultimi anni prima dell'invasione, e per alcuni di loro è stato uno shock.

In uno dei tuoi articoli hai affrontato il tema del diritto all'autodeterminazione e la critica alle argomentazioni secondo cui l'invasione dell'Ucraina sarebbe una semplice guerra per procura. Per te una parte della sinistra radicale assume addirittura una posizione più "imperialista" su questo tema, rispetto per esempio ai funzionari statunitensi. Come si manifesta questo atteggiamento e dove pensi che abbia le sue radici?
Una parte della sinistra occidentale si è lasciata andare a pregiudizi contro l'Ucraina, a percezioni acritiche della Russia e così via. Cosa vogliono in realtà molti esponenti della sinistra contraria alla guerra, oltre alla sospensione delle spedizioni di armi? Vogliono che gli Stati Uniti e la Russia facciano un accordo senza tenere conto del punto di vista di chi vive qui. Queste soluzioni non hanno nulla a che fare con i valori della sinistra. Questo approccio implica una certa accettazione del "realismo" nelle relazioni internazionali.

La sinistra non ha sviluppato un approccio comune e consensuale a simili questioni. L'unico consenso è probabilmente quello sul diritto all'autodeterminazione dei popoli, ma nel caso dell'Ucraina questo è stato improvvisamente dimenticato da una parte della sinistra. Quando si passa a una situazione critica, persone altrimenti ragionevoli scrivono improvvisamente stronzate.

In questo caso particolare, gli Stati Uniti stanno sostanzialmente dicendo che l'Ucraina può decidere quando e a quali condizioni porre fine alla sua resistenza. Tuttavia, nel caso di molti altri conflitti armati nel mondo, gli Stati Uniti assumono una posizione molto diversa per quanto riguarda il sostegno al diritto all'autodeterminazione. Almeno nei Paesi del Sud Globale.

Al momento la sinistra occidentale sostiene la Palestina e gli Stati Uniti sostengono Israele. Anche noi ucraini abbiamo pubblicato una lettera di solidarietà ai palestinesi. Tuttavia, la sinistra occidentale sostiene la Palestina in diversi modi. Mi colpisce il fatto che spesso gli stessi esponenti della sinistra occidentale che nell'ultimo anno e mezzo hanno gridato più forte contro l'estrema destra ucraina ora sostengono acriticamente Hamas. Perciò non riesco più a prendere sul serio nessuna delle loro dichiarazioni sull'ipocrisia dei governi occidentali.

Non c’è un certo moralismo in questa posizione?
Sì. Questo malgrado negli ultimi decenni ci siano state molte critiche da parte delle femministe che giustamente condannano il declassamento delle donne a esseri emotivi e incapaci di oggettività. Nel caso della guerra, questa "emotività" è proiettata su noi ucraini. Anche se in teoria non ci sarebbe nulla di sbagliato, perché il contrario dell'emotività non è la razionalità, ma l'indifferenza. Ma quando poi entrano in ballo le decisioni difficili la sinistra in qualche modo dimentica tutto questo.

Il problema principale mi sembra evidente: la confusione tra antimperialismo e antiamericanismo. Tutti i conflitti sono visti in termini di opposizione agli Stati Uniti.

Un'altra cosa che mi sorprende ancora è la confusione tra Federazione Russa e Unione Sovietica. Sebbene si possa discutere dell'Unione Sovietica e di quale debba essere la sua corretta valutazione, la Russia di Putin non è in alcun modo l'Unione Sovietica. Oggi è uno Stato completamente reazionario. Non si può fare a meno di notare che molti scrittori di sinistra inseriscono nei loro testi commenti e argomenti rivelatori di come vedono ancora la Russia come l'Unione Sovietica. Questo anche se razionalmente riconoscono che il regime di Putin è reazionario, conservatore, neoliberista e così via. E poi di colpo sbottano, dicendo che il sostegno degli Stati Uniti all'Ucraina è una sorta di vendetta contro la Russia per la rivoluzione bolscevica. Quante stronzate! [Ride].

Che consiglio daresti alla sinistra occidentale?
Una parte significativa della sinistra ha assunto una posizione assolutamente inadeguata. Quelli che dedicano il loro tempo a sostenere l'Ucraina, in fin dei conti, stanno facendo la cosa giusta. La sinistra è in crisi ovunque. In alcune parti del mondo è completamente incasinata, come qui, e in altre se la passa meglio, come in Occidente. Se dovessi dare un consiglio generale, raccomanderei di prestare meno attenzione a quale posizione astratta sia corretta e di concentrarsi di più su azioni pratiche che ci aiutino a uscire dal buco in cui ci troviamo.

Anche nella nostra organizzazione, fino al 2022, abbiamo assunto posizioni diverse sulla guerra nel Donbas. A volte è stato difficile conciliare queste sensibilità. Per non aggravare la situazione, spesso ci siamo autocensurati. Uno dei miei argomenti è: non discutiamo di cose che non possiamo influenzare. Le persone di sinistra si sentono spesso accondiscendenti, si considerano le uniche dotate di ragionevolezza e spirito critico. Eppure basta esaminare dall'interno quanto di tutto ciò sia una frase fatta. Ad esempio, il modo in cui alcuni esponenti della sinistra articolano la loro posizione e la loro strategia nei dibattiti. Invece di analizzare le condizioni specifiche, spesso si limitano a ripetere schemi presi da un contesto e da un'epoca completamente diversi, che non si adattano affatto alla situazione. Dobbiamo allontanarci da questi modelli. Il marxismo non è un dogma, ma per qualche motivo troppi marxisti nella pratica riducono il marxismo a una mera ripetizione di dogmi consolidati. "Nessuna guerra tranne quella di classe" e così via.

Una situazione emblematica si è verificata la scorsa primavera, quando è arrivata la delegazione tedesca di Die Linke del Parlamento tedesco. Fino ad allora, la loro posizione sulla fornitura di armi era stata completamente negativa. Quando sono partiti, il presidente del gruppo ha detto che avevano riconsiderato alcune delle loro posizioni dopo l'esperienza a Kyiv. Ad esempio, per lui ora gli ucraini avevano chiaramente bisogno di una difesa missilistica. La stessa difesa missilistica che il suo partito aveva rifiutato di fornire fino a quel momento, in realtà li stava proteggendo a Kyiv! E così, più di un anno dopo l'invasione, si sono resi conto di quanto fosse necessaria. Ci è voluto molto tempo per arrivare a questa comprensione, e ci sono ancora molte cose che devono capire [ride]. Ma questo almeno è il minimo indispensabile.

C'è qualcosa che vorrebbe dire alla sinistra ceca, per esempio in relazione al pacifismo estremo di cui ha parlato?
La sinistra ceca sul piano storico può contare sull'esperienza di come sia stata soppressa la Primavera di Praga, quindi non capisco perché non trovi maggiore sensibilità verso la nostra ribellione. Forse è a causa di un'eccessiva dipendenza dalla teoria della sinistra occidentale. Sinceramente, da noi era esattamente la stessa cosa e, per certi aspetti, lo è ancora oggi. Dopo il 1989 la sinistra ucraina era molto depressa e noi guardavamo ancora di più agli autori occidentali. Alla rivista Commons ci occupiamo anche di traduzioni. Ma a un certo livello si capisce e si sente che abbiamo bisogno di una sorta di decolonizzazione di noi stessi. Il 24 febbraio 2022, giorno dell'invasione russa, è diventato per noi anche un momento di emancipazione intellettuale. È necessario essere più critici nei confronti di ciò che scrivono gli autori occidentali, dai quali abbiamo imparato molto e lo ammettiamo apertamente, ma abbiamo un contesto un po' diverso. Non dobbiamo avere paura di guardare da una prospettiva locale. E questo include lo sviluppo di un'analisi locale delle idee degli autori occidentali di sinistra.

Nell'ambiente della sinistra locale, molte volte, a nostro discapito, ci siamo limitati a ripetere le idee della sinistra occidentale. Le due piaghe della politica di sinistra contemporanea sono la ricostruzione storica e l'adozione di tendenze. Si leggono autori centenari e ci si proclama marxisti o femministe in base a quei testi classici. Il mondo è cambiato molto e la gente legge i classici troppo alla lettera, anche quando non si adattano più alle condizioni attuali. In secondo luogo, la sinistra non riesce a smettere di adottare le guerre culturali o le sottoculture occidentali di tendenza. Nel 2016, due attivisti di sinistra, durante un evento in Ucraina, hanno deciso di scandire lo slogan "Soldi per l'istruzione, non per la guerra". Solo che lo hanno portato da un contesto completamente diverso, dall'Italia, che è stata coinvolta nell'aggressione imperialista. Nel nostro caso, l'Ucraina è innanzitutto vittima dell'aggressione di un altro Stato. In breve: è stato un disastro. Le conseguenze per la sinistra locale sono state semplicemente terribili. Eravamo già in una situazione difficile dopo il 2014, e questa azione, questo slogan, ha peggiorato notevolmente le cose. Quindi sì, abbiamo commesso molti errori. È vero che alcuni di noi hanno tratto conclusioni sbagliate. Abbiamo anche molto da imparare. Ma allo stesso tempo, abbiamo imparato alcune cose dalla nostra amara esperienza ucraina.

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Dopo il genocidio: cosa hanno imparato gli scienziati dal Ruanda

15 Aprile 2024 7 min lettura

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Dopo il genocidio: cosa hanno imparato gli scienziati dal Ruanda

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Gli eventi catastrofici, proprio a causa della loro eccezionalità, sono anche poco studiati. Per esempio, la maggior parte di quello che sappiamo sugli effetti dell'esposizione a livelli altissimi di radiazioni ionizzanti lo sapevamo essenzialmente dalle esplosioni nucleari di Hiroshima e Nagasaki e ora anche dall'incidente di Chernobyl. Eventi che nessuno si auspicherebbe mai di nuovo. Ma dal momento che si sono verificati, è essenziale ricavarne tutte le informazioni possibili perché ovviamente non potranno mai essere ripetuti in condizioni controllate.

Conoscere un fenomeno estremo, capirne le cause, i fattori scatenanti, quelli concomitanti, capirne gli effetti e le conseguenze, è importante per prevedere, se possibile prevenire, gestire, rimediare. Questo vale anche per eventi estremi di altro tipo, come i genocidi. A 30 anni esatti dal genocidio del Ruanda un'articolo pubblicato su Nature ci spinge a ricordare per imparare qualcosa dalla storia passata, invece di dimenticarla pensando che sia un orrore non ci riguardi. 

Fino al 1994 il riferimento per eccellenza  per il termine "genocidio" era l'olocausto portato avanti dalla Germania nazista. Anche se ci sono stati altri eventi definibili o definiti come genocidio, come quello degli armeni ad opera dei turchi nel 1915, mentre dai primi anni del '900 fino al collasso dell'Unione Sovietica armeni e azeri si sono scambiati in diverse occasioni il ruolo di carnefici e vittime (leggere Tempo di seconda mano, di Svetlana Aleksievic). C'è stato l'Holodomor in Ucraina, più recentemente abbiamo di nuovo visto in azione le follie del genocidio e della pulizia etnica nel corso delle guerre balcaniche dell'ex Jugoslavia. E oggi si discute se quello che sta succedendo in Ucraina e a Gaza sia genocidio.

Da ognuno di questi eventi, che hanno molti elementi in comune, potremmo imparare qualcosa. Ma evidentemente non lo facciamo, perché periodicamente si ripetono.

Il genocidio in Ruanda nel 1994, è stato un caso unico per come la violenza esplose e si consumò in un breve arco di tempo: in soli 100 giorni ci furono circa 800 mila morti, con stime che arrivano al milione, mentre 250 mila donne vennero stuprate (ma probabilmente furono molte di più) e spesso poi uccise. 

Solo diversi anni dopo divenne un caso di studio. Anche perché per studiare qualcosa bisogna conoscere il contesto in cui si verifica. E chi conosceva bene il contesto non c'era più.

Citando dall'articolo su Nature:

“Una delle lezioni che emergono dal Ruanda è l’importanza di coinvolgere – e sostenere – i ricercatori locali, il cui lavoro, competenze linguistiche e accesso alle comunità traumatizzate possono essere essenziali per comprendere le radici della violenza e le migliori tecniche di riconciliazione. Ciò può essere difficile, nel caso del Ruanda perché il genocidio ha spazzato via quasi tutta la sua comunità accademica”

Oltre a conoscere il contesto sociale, politico, economico, etnico e religioso (il terreno in cui cresce un genocidio), è importante capire se un genocidio è stato una reazione incontrollabile a una situazione storica preesistente, o se è stato preparato. Per esempio in Ruanda i media per mesi fecero con accanimento opera di disumanizzazione dei Tutsi, esasperando la retorica del "noi" e "loro" basata su una appartenenza etnica creata artificialmente dai colonizzatori e lasciata in eredità assieme all'odio che alla fine sarebbe esploso. 

La disumanizzazione è un meccanismo fondamentale del genocidio, è quello che consente di torturare, stuprare e uccidere senza un motivo e senza vincoli morali. Non è qualcosa che esplode all'improvviso, ma è pianificata e preparata. Secondo alcuni esperti, la violenza stessa che genera a sua volta favorisce la disumanizzazione, in pratica innescando una spirale che si autoalimenta.

Ma oltre a studiarne le origini, se possibile per riconoscerne i caratteri distintivi in altre situazioni e provare a prevenire, è importante capire gli effetti che la violenza di un genocidio ha su di noi, sul nostro organismo, sulla nostra mente. Cosa succede nella mente di chi subisce per mesi una strategia di disumanizzazione dell’altro, che alla fine si sente giustificato a uccidere anche se era il suo vicino di casa?  E, soprattutto, cosa succede nella mente di chi sopravvive a quella violenza? Che tipo di disturbi, come affrontarli, come evolveranno? Chi saranno i sopravvissuti che dovranno ricostruire il proprio mondo distrutto dalle violenze? Chi saranno quelli che sono riusciti ad uccidere e stuprare ed ora dovranno tornare  far parte di una società civile? Come crescerà chi è nato dopo un genocidio? Quanto si porterà dentro di una violenza che non ha visto direttamente? Qualcosa si sa da situazioni precedenti come l'Holodomor in Ucraina.

Negli anni scorsi c'è stato un fiorire di studi su questo argomento (questo è l'aspetto che interessa in modo particolare un biologo molecolare come me, a seguire ci sono alcuni link a pubblicazioni scientifiche in cui si riferisce di quello che racconto). Si sta scoprendo l'impatto che eventi traumatici eccezionali hanno avuto sui sopravvissuti a vario livello, non solo mentale. Analogamente ad alcune sostanze chimiche come farmaci o contaminanti ambientali, molecole prodotte dal nostro organismo a seguito di questi eventi avrebbero la capacità di indurre alterazioni biochimiche del DNA (metilazione delle citosina) che influenzano la struttura e la funzionalità di regioni specifiche del nostro genoma, deregolando il controllo epigenetico di quelle regioni, determinando alterazioni a lungo termine a livello metabolico, immunitario, ormonale, psichico che, in alcuni casi, ci si chiede se possano essere adattative/compensative, in altri sono solo il modo in cui il trauma esercita effetti a lungo termine sul nostro organismo.

Abbiamo già dati sulle alterazioni epigenetiche con effetti  persistenti sia a livello metabolico che mentale in chi aveva sofferto, o era stato concepito e cresciuto in tempo di forti carestie, fenomeno tutt'oggi intensamente studiato col sospetto che sia associabile a effetti anche a distanza di molto tempo, anche sulla psiche.

E ormai ci sono diversi studi a sostegno dell'ipotesi che gli effetti del trauma da denutrizione possano essere trasmessi sotto forma di alterazioni epigenetiche anche alla discendenza per una o anche per due generazioni. Sono stati studiati sia casi di denutrizione sofferta in utero o in età prepuberale dalle future madri ma anche da maschi adulti (prigionieri di guerra, o reduci dell'assedio di Leningrado) che alla discendenza hanno fornito solo il DNA nei loro spermatozoi. Gli effetti osservati nella discendenza sono molto variabili e a volte apparentemente in contrasto tra di loro a seconda dello studio e del campione. Questo dipende dalla complessità del fenomeno studiato, da fattori come l'età in cui si è subito il trauma, il genere del soggetto sopravvissuto e quello della discendenza (alcuni effetti sembrano legati al sesso), dal contesto passato e quello successivo. A dimostrazione del fatto che i fattori coinvolti sono molti. È una scienza ancora relativamente nuova e c'è ancora molto da capire.

Analogamente alle carestie, c'è l'ipotesi che anche nel caso dei traumi da guerra, e ovviamente  quelli da genocidio, si possano verificare alterazioni molecolari persistenti con effetti a vario livello, e che queste possano essere trasmesse alle generazioni successive. 

Sul primo aspetto, ormai sono stati fatti diversi studi, anche recenti e molto complessi, su veterani reduci delle guerre del golfo con diagnosi di Stress Post traumatico (Post Traumatic Stress Disorder, PTSD) da cui risultano variazioni persistenti  nella regolazione di molti geni, diversi dei quali coinvolti nella risposta immunitaria ed infiammatoria. L'infiammazione cronica è una caratteristica del PTSD, e le variazioni corrispondenti a livello della regolazione epigenetica di quei geni sono coerenti con la persistenza della condizione anche a distanza di tanti anni. Non è invece ancora molto chiaro se queste variazioni possano essere anche transgenerazionali, ovvero se vengano trasmesse alla discendenza. 

E, prevedibilmente, iniziano a essere pubblicati studi analoghi anche per i sopravvissuti del genocidio del Ruanda da cui si evincono effetti a livello epigenetico sia nelle madri con una gravidanza in corso nel periodo in cui esplosero le violenze, sia nella prole di quelle madri. Non ci sono associazioni funzionali con alcune delle conseguenze note del genocidio (a 25 anni dalla fine più del 28% della popolazione adulta soffriva di PTSD, il 41% se ristretto alle donne). Ma è una storia ancora tutta da scrivere. 

E se qualcuno si chiede se anche le conseguenze di quello che sta succedendo oggi a Gaza le studieremo tra qualche anno, la risposta è sì, se qualcuno lo farà.

Per questo è importante studiare i genocidi, perché sono delle situazioni che non si risolvono con la fine politica della crisi ma durano per decenni, forse per generazioni. Anche se in Ruanda, a differenza di quello che è successo e succede in altri scenari di genocidio, è stato fatto molto per cercare, da un lato, di fare giustizia, dall'altro di rimettere insieme i pezzi, di favorire la riconciliazione tra perpetrators e survivors, non si può pensare che tanto orrore non lasci tracce a lungo termine nella popolazione, che basti aspettare e dimenticare. Nel 1996  Human Rights Watch ha pubblicato un documento che raccoglie racconti di donne vittime di violenza sessuale durante il genocidio in Ruanda. Le stesse storie si possono leggere in  un documento analogo con le testimonianze delle donne vittime di violenza sessuale in Bosnia. Stessi racconti, stesse dinamiche, stesso orrore. Ruanda e Bosnia, Africa ed Europa sono molto più vicine di quanto possiamo pensare.

Immagine in anteprima: Gil Serpereau, CC BY-NC-ND 2.0 DEED, via Flickr.com

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Dune, l’universo che ha rivoluzionato la fantascienza

14 Aprile 2024 8 min lettura

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Dune, l’universo che ha rivoluzionato la fantascienza

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Ogni volta che penso a Dune più che immaginare un libro mi viene in mente l’immagine di una di quelle centrifughe che trovi nei laboratori di chimica. Oppure un forno, un prisma, un disco di Petri, insomma uno spazio dove normalmente avvengono delle trasformazioni, dei processi a volte palesi a volte meno che prendono la materia e la trasformano in qualcos’altro.

Solo che al posto della materia qua abbiamo concetti storici, lingue, religioni, controcultura, ecologia, politica che vengono frullati assieme creando un libro che all’epoca nessuno voleva leggere, tanto che fu pubblicato per la prima volta dalla Chilton Books, una casa editrice che stampava prevalentemente manuali, e fu rivalutato solo anni dopo grazie alla controcultura delle università americane.

Eppure, oggi quel libro che nessuno voleva leggere è forse uno dei più importanti crocevia della cultura popolare mondiale. Non solo un’opera che ha attinto ovunque ma che ha stuzzicato la fantasia di tantissimi altri autori che hanno attinto in modo più o meno evidente al prodotto che Herbert aveva “trasformato” nel suo libro-centrifuga. 

E se nessuno lo voleva leggere, ancora meno erano quelli che volevano farne un film. Per anni la densità di concetti, la scala dei conflitti e forse anche le suggestioni visive di Dune sono state ritenute impossibili da gestire in una trasposizione cinematografica. E infatti tutte, da quella controversa di Lynch al rigore formale di Villeneuve, passando per le miniserie degli anni Zero e il progetto incompiuto di Jodorowsky, hanno dovuto in qualche maniera gestire questa complessità, con risultati quasi sempre interessanti, anche quando si è trattato di fallimenti epocali.

Ma quello che forse affascina ancora di più è che tutto questo è stato messo in moto nel 1957 da un semplicissimo viaggio a Florence, Oregon, dove Herbert vede il fenomeno delle dune locali, che col vento giusto sono capaci di ricoprire di sabbia interi paesini. Normalmente gli ingranaggi vengono bloccati dai granelli di sabbia, ma in questo caso furono il lubrificante di un pensiero che stava unendo vari interessi: il misticismo, l’ecologia, il feudalesimo, le figure messianiche, il fascino per personaggi come Thomas Edward Lawrence, ovvero Lawrence D’arabia, le sperimentazioni con i funghi allucinogeni e le sostanze psicotrope.

Dune si trova perfettamente al centro di un crocevia culturale e di un periodo che guardava al passato attraverso il filtro di due guerre mondiali, e al futuro con un forte ottimismo e un grandissimo interesse. Ma è anche un’opera che si pone in quel crocevia a modo suo.

Una delle particolarità più interessanti del libro infatti è la scelta di andare in una direzione opposta rispetto alla fantascienza. Fino a quel momento aveva tracciato una rotta fatta di tecnologia, computer e robot che in qualche modo vedeva in Asimov la sua pietra angolare, spaziando anche in territoripiù pulp, fatti di raggi laser e mostri in stile Flash Gordon.

Dune fugge da tutto questo, posizionando a monte del romanzo degli eventi accaduti ben prima delle vicende narrate, e che conosciamo in modo parziale solo attraverso la menzione che ne fanno i personaggi. Un classico espediente letterario per la costruzione di una mitologia interna. Pensate alla lotta contro Sauron accennata ne Il Signore degli Anelli o la distruzione di Valyria ne Le Cronache del Ghiaccio e del Fuoco.

Il rapporto con la tecnologia all’interno di Dune è legato al Jihad Butleriano, un evento politico religioso avvenuto molti anni prima che ha proibito del tutto l’uso di calcolatori e che allontana il lettore dalla concezione classica di moderno per tornare a una connotazione magica e religiosa della scienza. Non essendoci più i computer, il sapere è immagazzinato nella mente dell’uomo, in particolare in quella dei mentat, esseri umani che grazie all’uso della spezia e un allenamento rigoroso sono diventati veri e propri computer umani.

La spezia stessa è ben più di una semplice allegoria del potere che il nostro mondo ha attribuito al petrolio e alla sua estrazione. Una sostanza psicotropa creata dal ciclo vitale vermi delle sabbie, che per questo assumono una valenza divina, tanto da essere chiamati “I Creatori”, il cui funzionamento ci è sconosciuto, ma che  permette di aprire le porte della percezione, modificare il corpo umano e viaggiare nello spazio, ma anche come strumento di divinazione o semplice divertimento. La sua esistenza è perennemente in bilico tra il mistico e lo scientifico.

D’altronde sono scienza, ma anche religione i riti delle Bene Gesserit, la potentissima casta di sacerdotesse e cortigiane (probabilmente ispirate alla potenza dell’Ordine Gesuita) dotate di poteri fisici e mentali sovrumani che da centinaia di anni tramano gestendo le nascite delle varie casate alla ricerca del prescelto, il Kwisatz Haderach. Così come sono un misto di scienza sociale e religione ciò che viene fatto dall’azione della Missionaria Protectiva, una sezione delle Bene Gesserit che passa la sua esistenza andando in giro per i pianeti a diffondere miti e leggende per condizionare i popoli e facilitare l’opera di chi arrivera anche molti secoli dopo di lei. Sono scienza e religione i cicli e i riti della Spezia, ma anche il recupero delle acque dei morti dei Fremen, che mescolano il misticismo del culto funebre con la necessità di gestire i fluidi in un pianeta desertico. E lo stesso vale per le loro tute distillanti. Tecnologie avanzatissime profondamente legate a conoscenze tribali.

È un momento iniziatico ma anche scientifico il gesto di cavalcare un verme, queste gigantesche e assurde creature dall’aura divina che sono uno degli elementi più riconoscibili e affascinanti della saga e che rappresentano benissimo il suo stare sempre con un piede nella scienza e uno nella religione. Cavalcare un verme rappresenta il modo in cui si dimostra la propria maturità nel mondo dei fremen, nonché una delle varie prove a cui è soggetto il protagonista. Ma dietro la natura rituale del gesto si nasconde un preciso contesto scientifico. Il verme è dotato di placche che lo proteggono dall’abrasione con la sabbia e può essere manovrato spostandole con degli uncini, così da esporre la carne più sensibile alla sabbia e costringendolo alla rotazione.

E quindi a volte si fatica a dire che Dune è un romanzo di fantascienza, perché il ruolo che sottrae alla tecnologia, come ci si aspetterebbe nella fantascienza, lo rende profondamente intriso di medievalismo. L’intero impero galattico vive un'età dove la scienza e il progresso sono miscelati all'alchimia, alla religione, alle credenze e alle profezie. Herbert supera il classico tema della science-fiction del rapporto tra uomo e macchina per tornare a quello tra uomo e un altro uomo.

Profondamente medievalista è tutto il tessuto politico di Dune, che si colloca ipoteticamente nel 211° secolo ma presenta gli stessi tratti del medioevo fantasy di cui riprende il vocabolario: ci sono duchi, baroni, conti, gilde, feudi, casate. Non mancano duelli valorosi, tradimenti, matrimoni combinati, stregoneria (le già citate Bene Gesserit) e menestrelli guerrieri. Al di là del pianeta Arrakis, i rapporti di potere tra le casate - di fatto dei principi-elettori in stile Sacro Romano Impero - e l’Imperatore sono le tipiche scaramucce politiche del medioevo europeo e della sua età moderna, così come lo strapotere delle gilde commerciali e di chi sa effettivamente navigare.

Casate, Imperatore, Gilda dei navigatori e CHOAM, ovvero la corporazione del commercio, sono legate da una serie di rapporti di interdipendenza complicatissimi che ricordano molto da vicino quelli tra regnanti europei, clero e ricchi commercianti del nostro passato. Gli stessi Sardaukar temibili pretoriani dell’imperatore Padishah, corpo scelto composto da orfani rapiti e addestrati in condizioni durissime, altro non sono che i giannizzeri che rappresentavano la spina dorsale dell’impero ottomano.

Tutti questi elementi fanno parte struttura rigidissima, pensata per non crollare, ma che ovviamente crollerà, come sono crollati tutti gli imperi, grazie anche alle spinte di liberazione degli oppressi.

Come non parlare infatti di tutto ciò che confluisce all’interno della figura dei fremen, che mescolano elementi anche contrastanti tra di loro. Potremmo interpretarli icome un’allegoria del popolo ebraico, ma organizzati e concentrati sulla propria sopravvivenza, e allo stesso modo fieri e guerrieri come le tribù arabe, che conoscono la propria terra, e sanno sfruttarla per combattere. Sono pieni di parole derivate dall’arabo. Sunnah, jihad, fedaykin, ma soprattutto Mahdi, ovvero “Il ben guidato”, colui che nella religione araba arriverà a svelare le risorse segrete della terra, esattamente come fa Paul Muad’dib. 

Un popolo che vorrebbe poter accedere all’acqua, che però è letale per i vermi e quindi per la produzione di speziai quindi, bisogna mantenere lo status quo inospitale. Il tutto ovviamente senza dimenticare l’evidente tema del “white savior”, ovvero l’idea che ci voglia sempre e comunque un bianco a risolvere le cose. Anzi, forse uno degli elementi su cui spesso si sorvola analizzando Dune è proprio il messaggio di non idolatrare le figure messianiche, di non sottovalutare il potere e la sua capacità di corrompere e distorcere anche la più nobile delle cause. Non bisogna mai dimenticare che gli oppressi possono diventare oppressori e che il potere, e soprattutto il suo mantenimento, è una forza disgregatrice in grado di erodere anche un semidio col dono della preveggenza.

L’equilibrio di forze che c’è tra i fremen e le forze di colonizzazione è esattamente quello che è andato avanti per anni tra Medio Oriente e le colonizzazioni occidentali. Con i primi visti come poco più di selvaggi seduti su una ricchezza infinita Un pianeta come Dune (il nome fremen di Arrakis) non verrebbe ricordato da nessuno se non fosse per la spezia, così come nessuno si interesserebbe al controllo di molte zone arabe se non fosse per i bacini petroliferi.

Viste le stratificazioni di Dune era impossibile che tutto questo non finisse per contaminare ciò che è venuto successivamente. Come un sasso lanciato nello stagno della narrazione, il suo impatto ha generato onde su onde nelle opere a venire con un peso che forse solo Il Signore degli Anelli può superare.

Una delle principali gemmazioni di Dune è senza dubbio la saga di Guerre Stellari: il pianeta desertico, il salvatore messianico, esseri umani dotati di incredibili poteri mentali. Il tutto è diluito con ampie dosi di Flash Gordon, influenze giapponesi e ammiccamenti al western. 

Ma la traccia è evidente ed è forse una delle più chiare in molte opere che in qualche modo si sono interrogate sugli stessi temi negli anni successivi, come 2001: Odissea nello Spazio.

Uno dei prodotti che più di tutti ha subito l’influenza di Dune, e per certi versi l’influenza di qualsiasi prodotto culturale degli ultimi 60 anni, è il mondo di Warhammer 40.000. Un gioco da tavolo complesso e ricco di sfumature narrative che vive da sempre a metà tra la nicchia e il fenomeno mondiale. Nato in Inghilterra alla fine degli anni ’80, il mondo di Warhammer 40.000 è ricco di tratti comuni con l’opera di Herbert: un imperatore praticamente onnisciente, ma che ha fallito nel suo compito di unificazione planetaria, gilde di navigatori, guerrieri geneticamente modificati, il rifiuto di computer e IA, teocrazie oppressive, macchinazioni che vanno avanti per millenni.

Tremors, Stargate, Mad Max, sono tutte opera che in qualche modo hanno un debito con Dune o con alcune sue parti. Se poi consideriamo anche i tentativi di farne un film, il già citato fallimento del Dune di Jodorowsky ci ha dato Alien, che ha poi permesso a Ridley Scott di lavorare a Blade Runner. In questa convergenza di opportunità, intrecci e ispirazioni trovo anche molto affascinante la chiusura di un cerchio tra Dune e Blade Runner. Con Villeneuve che prima riesce a toccare la sacralità di Blade Runner girandone il seguito e poi rende Dune nuovamente un successo mondiale.

Forse la più grande influenza di Dune è stato farci capire che nel grande calderone dell’intrattenimento c’era spazio per celebrare anche una fantascienza diversa, particolare, ricca di idee e rimandi anche più politici del solito. E con l’adattamento del terzo libro dato ormai quasi per scontato sarà interessante capire cosa ne verrà fuori.

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Denunce e silenzi: le molestie sessuali nell’ambiente universitario italiano

13 Aprile 2024 7 min lettura

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Denunce e silenzi: le molestie sessuali nell’ambiente universitario italiano

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Richieste di posizioni fisiche innaturali, palpeggiamenti durante l’orario delle lezioni, confidenze inappropriate. Sono le molestie che avrebbero subito alcune studentesse dell’università di Pavia da un primario del policlinico San Matteo, all’epoca (2020) direttore della scuola di specialità. Le testimonianze, riportate in un questionario anonimo distribuito alla fine del corso, hanno fatto scattare le indagini, e il docente ora rischia il rinvio a giudizio per violenza sessuale. Ma all’epoca dei fatti l’ateneo, dopo l’avvio di un procedimento disciplinare, archiviò le accuse. 

La vicenda ha riaperto il dibattito sulla gestione delle molestie sessuali all’interno degli spazi universitari.

Anche a seguito dei presunti casi di molestie a danno di alcune studentesse dell’Università di Torino, tra atenei e studenti si è aperto un terreno di scontro sul tema della violenza di genere. Docenti e rettori sono stati travolti da un’ondata di indignazione, mobilitazioni, sondaggi e proteste da parte degli studenti, che hanno iniziato a considerare le università come luoghi non sicuri, in cui è ancora presente una logica patriarcale e di subordinazione del potere maschile rispetto alla figura femminile. 

A Torino ‘Non una di Meno’ ha contestato il rettore, facendo irruzione nell'aula magna dell’UniTo mentre si stava tenendo un incontro proprio sulle molestie sessuali. A Roma, invece, la rettrice della Sapienza Antonella Polimeni è stata criticata dopo il suo intervento in Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio. Polimeni ha infatti spiegato che nel corso del 2023 ci sono stati 13 casi di molestie e abusi di potere, formalmente certificati dal Report della Consigliera di fiducia. Numeri che però sono stati fortemente messi in dubbio dagli studenti: secondo il sindacato Sinistra Universitaria Sapienza, infatti, le molestie sarebbero molte di più: 160. Per questo, nei giorni successivi all’audizione, Polimeni è stata contestata durante un evento pubblico, e in occasione di un sit-in del movimento Cambiare Rotta una foto con la sua immagine è stata imbrattata con della vernice rossa. Molti atenei, però, tra cui la stessa Sapienza, stanno portando avanti iniziative mirate per contrastare la violenza di genere. Il paradosso che si è creato, quindi, è che studenti e università si stanno scontrando su un tema considerato prioritario da entrambi.

I dati dell'UDU: il 34% degli studenti ha sentito parlare di casi di molestie in ateneo

Ma quali sono i numeri reali dei casi di molestie negli atenei italiani? Il sindacato studentesco Udu (Unione degli Universitari) ha realizzato un report sul fenomeno, un tema diventato ancora più sensibile dopo il femminicidio di Giulia Cecchettin. Presentato nella Sala stampa della Camera dei Deputati l’8 marzo, in occasione della Giornata Internazionale della Donna, il sondaggio ‘La tua voce conta’ ha raccolto circa 1500 risposte arrivate tra l’11 febbraio 2024 e il 3 marzo 2024. Per il 20,5% degli studenti, gli atenei italiani non sono spazi sicuri, e il 34,5% “ha sentito parlare di casi di molestia o violenza all’interno degli spazi universitari”.

Tra i luoghi meno sicuri ci sono gli studi dei docenti (37%), i luoghi di tirocinio (34,7%), gli studentati (32%), le aule dove si frequentano le lezioni (17,4%) le biblioteche (12,4%). E poi altri luoghi (17,4%) come aule studio, spazi esterni all’ateneo, bar, bagni e così via. E tra i più inclini a perpetuare molestie ci sono proprio i docenti (per il 48%), i compagni di corso per il 47%, i compagni di studentato per il 32% e il personale tecnico amministrativo per il 20%.

Per l’UDU, quindi, i casi di molestie non sono singoli episodi. Si tratta invece “di un problema sistemico", commenta Camilla Piredda, coordinatrice nazionale UDU. "È un tema che denunciamo da sempre ma che non ha mai avuto ascolto. Abbiamo ricevuto storie di violenza e molestia da chi l’università l’ha fatta negli anni ’80: oggi finalmente il problema sta emergendo, grazie anche alle parole di Elena Cecchettin che hanno smosso le coscienze e acceso qualcosa. Purtroppo i dati emersi non ci hanno stupito, dimostrano ciò che sapevamo. Le università non sono sicure. Nella maggioranza dei casi le studentesse devono scegliere tra il loro percorso accademico e il diritto di denunciare. Sanno che le denunce non porteranno a nulla, che l’ateneo si preoccuperà sempre più della propria immagine piuttosto che della sicurezza delle studentesse. C’è piuttosto chi si vede costretta ad abbandonare il percorso o cambiare ateneo per la propria serenità. Tutto questo non è normale e lede il diritto allo studio universitario”.

Al termine del questionario, è stato poi lasciato uno spazio libero per raccontare la propria esperienza. “E le segnalazioni arrivate risultano essere tutte estremamente gravi sia per tipo di molestia/violenza subita, che per autori”, spiega l’UDU. Episodi diversi tra di loro ma che “condividono tutti lo stesso risultato: la sensazione di disagio e paura generata nella persona abusata dentro un contesto formativo”. 

“Sono stata più volte toccata dal mio relatore di tesi durante le correzioni del testo”, ha scritto una studentessa. “Un uomo appartenente al personale dell’università ha allungato le mani sul mio sedere (più di una volta) durante un giro dell’università”, racconta un’altra. E ancora: “Con quel visino può fare la escort, ci pensi. Guadagnerebbe anche bene”. 

Anche il sindacato Sinistra Universitaria Sapienza ha realizzato un report sulle molestie registrate all’interno dell’ateneo romano. I numeri del rapporto parlano appunto di 160 le persone che hanno affermato di aver subito una molestia all’interno dell’università, mentre 50 persone (il 4,9% del campione) hanno dichiarato di essersi sentite violentate, sessualmente o psicologicamente. Il 30% delle persone intervistate non si sente sicuro all’interno dell’ateneo. Realizzato tra il 15 novembre 2023 e il 6 marzo di quest’anno, i dati sono frutto di 1300 risposte che provengono da un campione randomico di tutte le 11 facoltà dell’ateneo, raggiunto tramite social, volantinaggi e interventi in aula. I numeri, però, non sono riconosciuti dall’ateneo. Intervistata a margine di un evento, la rettrice della Sapienza Antonella Polimeni ha detto che “contano solo i dati ufficiali”, e ha invitato le studentesse a segnalare gli abusi, perché “gli strumenti ci sono”.

La Consigliera di fiducia della Sapienza: "Con gli studenti abbiamo intenti comuni"

Tra gli strumenti introdotti dalla Sapienza c’è appunto la Consigliera di fiducia, Giorgia Ortu La Barbera, che “in base al Codice di condotta nella lotta contro le molestie sessuali di Sapienza, ha il compito di fornire consulenza e assistenza alle vittime e di contribuire alla soluzione dei casi che le vengono sottoposti, per prevenire e fronteggiare possibili situazioni di molestie legate al genere che possono verificarsi nelle relazioni di studio e di lavoro”. 

Le persone che subiscono molestie in ateneo, quindi, si rivolgono alla Consigliera per un primo colloquio. “Insieme alla persona si cerca di capire se vuole essere tutelata. Se vuole esporsi o meno. La persona viene sempre creduta, ma raccogliamo anche altre segnalazioni, perché la sua testimonianza possa essere più forte", spiega La Barbera a Valigia Blu. "Se il caso è episodico e riguarda una sola persona, ad esempio una battuta fatta durante un esame, si applica una procedura informale. Casi come questo sono gravi e da sanzionare, ma non sono supportati da elementi forti, e non possiamo fare molto di più di una convocazione per il docente, che viene invitato a non adottare più quella condotta. La procedura informale resta privata tra me e il docente, ma io ne tengo traccia. Quando si attiva una procedura formale, invece, parte un procedimento disciplinare”. La Barbera spiega che, delle 13 segnalazioni registrate nel corso del 2023, cinque erano condotte inopportune agite in strutture esterne, nell’ambito di tirocini convenzionati che sono stati poi interrotti. Ci sono stati poi una denuncia formale, due provvedimenti disciplinari nei confronti di cocenti e un ultimo caso è ancora in fase di valutazione. 

Ma se la procedura è valida e garantisce tutele e anonimato, perché i casi registrati dagli studenti sono molti di più? Per la Consigliera, “la prospettiva di studenti e studentesse è diversa. Per me i dati registrati dagli studenti sono reali, ma io devo basarmi sulle segnalazioni che arrivano a me”. 

Ma il vero tema è quello della comunicazione: mentre i sondaggi dei sindacati studenteschi viaggiano su pagine social e mailing list molto frequentate dagli studenti, la maggior parte degli studenti non conosce neanche la figura della consigliera di fiducia. A dirlo sono gli stessi studenti di Sinistra Universitaria: secondo il loro questionario una persona su dieci non è a conoscenza dei servizi che offre l’ateneo e il 90% delle persone intervistate risponde che non sa cosa sia la Consigliera di fiducia. In aggiunta, più del 60% delle persone non è a conoscenza del fatto che esiste un centro antiviolenza in Sapienza. 

Anche quando ci sono, quindi, i servizi non vengono comunicati adeguatamente. Ma su questo la Consigliera di fiducia ammonisce gli stessi studenti: “La comunità studentesca potrebbe fare da megafono. Io stessa avevo chiesto di organizzare insieme incontri con le associazioni studentesche, ma non ho mai ricevuto risposta. Talvolta mi sembra che il desiderio di mantenere viva l’attenzione su questi temi sia più forte dell’impegno nel trovare soluzioni concrete”.  

La Barbera sottolinea anche che Sapienza è dotata di un centro antiviolenza e di un Commissariato i cui operatori sono “formati e sensibili su questo tema”. “Mi piacerebbe incontrare gli studenti che hanno realizzato il sondaggio, spiegargli il mio ruolo e la procedura che seguo, ma non c'è stato uno spazio di confronto - conclude - il mio rammarico è legato al fatto che i nostri intenti, in realtà, sono gli stessi”.

Immagine in anteprima: frame video TG3 via Facebook

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Tra incompetenza e mosse politiche: il DEF del governo Meloni è una scatola vuota

12 Aprile 2024 9 min lettura

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Tra incompetenza e mosse politiche: il DEF del governo Meloni è una scatola vuota

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Nei giorni scorsi il ministro dell’Economia e delle Finanze Giancarlo Giorgetti ha presentato il Documento di Economia e Finanza per l’anno corrente. Questo documento dovrebbe, in linea teorica, contenere le stime tendenziali, ovvero le previsioni degli indicatori macroeconomici dei prossimi anni (come l’andamento del PIL, quello del tasso di disoccupazione e dell’inflazione), ma dovrebbe anche prospettare che cosa intende fare il governo in carica nel corso dell’anno. Quest’ultima parte - ovvero le linee di tendenza - si limita a poche pagine, con alcuni classici della politica italiana, come il recupero dell’evasione fiscale. 

Anche altri governi si sono a volte lanciati in DEF vaghi dove la parte sulle programmazione è carente: in particolare il governo Monti nel 2012 e il governo Gentiloni nel 2018 avevano presentato un DEF privo degli obiettivi programmatici. Ma lì si trattava di governi dimissionari. Il governo Meloni, invece, è ancora in carica e appena a metà mandato.

Il documento presentato dal governo è talmente fumoso che non vi è alcuna indicazione su quale tipo di manovra presenterà il governo in autunno. Dal governo fanno sapere che si tratta di una naturale conseguenza della riforma del Patto di stabilità, le cui linee guida arriveranno solo in estate. 

A contribuire c'è anche l’elevata incertezza economica che rende necessario navigare a vista. Tuttavia molti degli interventi previsti dal governo Meloni con la precedente legge di bilancio, si pensi soltanto all’accorpamento degli scaglioni IRPEF, erano stati programmati per un solo anno e finanziati a debito, prendendo tempo mentre si cercavano le coperture: se questi interventi saranno riconfermati come riportano le interviste e le dichiarazioni, da dove si prenderanno le risorse?

Inoltre, l’aspetto meramente economico si mischia in questo caso con quello politico: a breve infatti vi saranno le elezioni europee con una destra in netta ascesa in tutta Europa, anche se difficilmente riuscirà a cambiare gli equilibri di Bruxelles. 

Che cosa prevede il governo Meloni per l’economia italiana

Partiamo appunto dalle stime tendenziali che offrono un quadro di quella che, al netto degli interventi del governo e di shock economici notevoli, dovrebbe essere la situazione del paese dal punto di vista macroeconomico. Rispetto alla Nota di Aggiornamento del Documento di Economia e Finanza (NADEF) che il governo presentò in autunno, peggiorano le stime della crescita del PIL e di conseguenza quelle riguardanti il rapporto debito PIL. 

Per quanto riguarda il PIL, come si legge nel documento, se la NADEF stimava una crescita del PIL all’1,2 per cento, le nuove previsioni vedono una contrazione, con una crescita prevista per il 2024 all’uno per cento. Questa contrazione, si legge nel documento, è legata ad una scelta prudenziale, dato l’incerto contesto internazionale. A trainare questa crescita sarebbe la domanda interna, mentre le esportazioni darebbero un impatto nullo sulla crescita del PIL. Per quel che riguarda il lato offerta, il governo nota una situazione migliore per il settore manifatturiero, dopo anni di stagnazione, mentre a rallentare sarà il settore delle costruzioni dopo gli anni degli incentivi abitativi- su cui torneremo dopo. 

Non tutti però sono convinti delle stime di crescita pubblicate dal governo italiano. Già l’Europa, con le previsioni di qualche mese fa, aveva prospettato una crescita ben più flebile, allo 0,7 per cento, dietro a Francia e Spagna, ma davanti alla Germania. Anche le stime di Bankitalia segnalano un certo ottimismo in Via XX Settembre: secondo gli studi di Bankitalia quest’anno il PIL vedrà una crescita dello 0,6 per cento, più contenuta anche rispetto alle previsioni europee. 

Anche per via delle ricadute europee, si è discusso in particolare delle stime riguardanti il debito pubblico. Già in passato avevamo sottolineato come la manovra del governo Meloni avrebbe perso il cosiddetto effetto “palla di neve dovuto all’inflazione, che avrebbe così aiutato il governo a ridurre il debito in maniera più morbida rispetto a tagli o aumenti delle tasse. Il governo aveva invece varato una manovra che finanziava i principali provvedimenti a debito, in particolare l’accorpamento degli scaglioni IRPEF e il taglio del cuneo fiscale. Questo, in un paese in cui il debito pubblico è già particolarmente alto e in passato ha causato non pochi problemi in fasi di recessione, pone di per sé dei problemi, perché diminuisce la resilienza del paese agli shock economici. Con un debito elevato, infatti, è più difficile fare politiche espansive qualora il quadro macroeconomico dovesse peggiorare. 

Se questa era la situazione di partenza, le stime del DEF e gli aggiornamenti dell’Istat offrono una panoramica più complessa. Questo perché, a differenza di quanto preventivato nella NADEF dell’autunno scorso, il rapporto debito PIL nel 2023 non si è assestato al 140 per cento, come si aspettava il governo, ma al 137 percento come ha invece rilevato l’ISTAT. Tecnicamente, questo prospettava una situazione più ottimista, ma proprio i dati contenuti nel DEF offrono un quadro ancora diverso. Al netto dei dati del 2023, le previsioni autunnali lasciavano intravedere un piano di rientro del debito nei prossimi anni, mentre il DEF rileva come il debito andrà aumentando nei prossimi anni per poi cominciare a calare soltanto dal 2027. Questo significa che, nonostante l’aiuto dell’inflazione, il debito stimato nella traiettoria discendente della NADEF e in quella crescente del DEF si ritroverà più o meno allo stesso livello nel 2026. Proprio questa inversione di rotta preoccupa la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni: nelle prossime settimane è infatti previsto il verdetto di Standard & Poor’s sul debito italiano. Secondo le indiscrezioni di Monica Guerzoni pubblicate sul Corriere della Sera, la Presidente del Consiglio sarebbe preoccupata proprio di un giudizio negativo da parte delle agenzie di rating per la gestione dei conti pubblici italiani. 

La situazione non è del tutto negativa per il governo Meloni. Il mercato del lavoro italiano infatti continuerà la sua performance eccellente e contro tutte le attese: le stime prevedono un calo del tasso di disoccupazione, dal 7,7 per cento del 2023 fino al 6,8 per cento del 2027. È tuttavia necessario fare attenzione: queste sono stime, non dicono nulla sui fenomeni che ne stanno alla base. Per questo il governo Meloni può portare a casa solo una mezza vittoria, visto che la performance positiva del mercato del lavoro continua da vari governi, è trasversale ai paesi occidentali e soprattutto l’Italia rimane uno dei paesi OECD con il più elevato tasso di disoccupazione, specie se si tiene conto dei disoccupati di lungo corso e del fenomeno della disoccupazione giovanile. 

I problemi del governo Meloni e la programmazione di Giorgetti

La situazione appena descritta pone degli interrogativi sulle strategie che il governo intenderà seguire nel corso delle successive manovre di bilancio. Nonostante il governo giustifichi la vaghezza del documento con le nuove regole del Patto di Stabilità, che entreranno in vigore solo in estate, resta la necessità di capire dove saranno reperite le risorse. Innanzitutto i 6 miliardi che servono per rientrare all’interno dei nuovi parametri del Patto di Stabilità stesso. E soprattutto servirà trovare circa 15 miliardi per il rinnovo delle misure che il governo Meloni ha varato in via sperimentale per il solo 2024, come appunto il rinnovo del taglio del cuneo fiscale e l’accorpamento degli scaglioni IRPEF.

Questi provvedimenti, spiega Andrea Brandolini, vice capo del Dipartimento Economia e Statistica della Banca d’Italia, potrebbero aver avuto un impatto sul reddito disponibile delle famiglie: utilizzando il modello di microsimulazione di Banca d’Italia, gli interventi comportano in media un aumento dell’1,5 percento del reddito disponibile delle famiglie o, per dirla in maniera più comprensibile, 600 euro annui. Gli interventi andrebbero anche a diminuire, seppur debolmente, l’indice di Gini sulla disuguaglianza del reddito. 

Se il governo non è in grado di ragionare in termini di pochi mesi, visto che questi soldi vanno trovati entro l’autunno, sarà ancora più difficile ragionare sulla strada da seguire con il Patto di Stabilità. Si tratta infatti di una programmazione su un orizzonte temporale di almeno quattro anni, come sottolinea su La Voce Giuseppe Pisauro, ex presidente dell’Ufficio Parlamentare di Bilancio. Proprio Pisauro, però, fa notare come in qualche modo degli indirizzi programmatici ce li abbia offerti quello che ha chiamato il “DEF orale”, ovvero la conferenza stampa di Giorgetti dopo la presentazione del documento. A detta del ministro dell’Economia e delle Finanze i provvedimenti saranno riconfermati anche per quest’anno. Sulle coperture però la questione è più fumosa. Il ministro Giorgetti ha sposato l’idea, proposta da Milano Finanza, di vendere gli immobili di proprietà statale per ripagare il debito, aggiungendo tuttavia che  la parte più remunerativa del patrimonio pubblico è già stata venduta in un altro frangente storico. 

C’è poi da tenere in considerazione, ed è forse l’aspetto più importante sotto questo frangente, l’impatto che il Superbonus sta avendo sui conti pubblici. La misura, approvata dal governo Conte II dopo la fine del primo lockdown per rilanciare l’economia italiana, sta avendo un impatto considerevole sul bilancio pubblico, soprattutto a causa dell’imprevedibilità della spesa. Il rincaro delle materie prime e i continui cambiamenti sulle modalità di erogazione sulla platea dei beneficiari hanno contribuito a questa incertezza. 

A questo si aggiungono questioni di natura contabile su come calcolare la spesa per lo stato del superbonus. Se in precedenza le spese venivano spalmate nel corso degli anni necessari per il rimborso crediti, oggi la spesa per intervento viene contabilizzata nell’anno corrente. Se le risorse spese restano, di fatto, le stesse, quello che cambia sono i margini di manovra per la politica di bilancio dell’anno corrente che si ritrova così il fardello di tutti gli interventi avviati: questo sta facendo schizzare il deficit. Come spiegato su Il Post, lo scorso anno fornisce un esempio paradigmatico: il deficit nel DEF era stimato al 4,5 per cento del PIL, per poi salire al 5,3 nella NADEF e infine, secondo l’ISTAT, al 7,2. Tutti questi aumenti sono stati giustificati con il costo superiore alle attese dei bonus edilizi. Il governo Meloni è intervenuto sul Superbonus e bisognerà capire- e ci vorrà tempo- quanto questo influirà  

C’è da considerare infine l’aspetto politico già menzionato. Come scritto dall’economista ed ex senatore Carlo Cottarelli, la fumosità del DEF è in realtà una mossa elettorale. A breve infatti vi saranno le elezioni europee e il governo Meloni non vuole svelare le carte di quanti sacrifici dovrà fare il nostro paese per rientrare all’interno dei parametri voluti dalle nuove regole europee di bilancio. La speranza di Meloni è che, dopo le elezioni europee, emerga una maggioranza più favorevole alle sue politiche, a partire dalle modifiche al PNRR. Come visto in precedenza, la performance del PIL è sotto le attese, e in parte la colpa è da addossare all’incapacità da parte del governo italiano (anche se non è l’unico in Europa) a spendere i soldi del PNRR entro i termini prestabiliti. 

La scadenza del piano è fissata per il 2026, e l’Italia ha accumulato vari ritardi, soprattutto al ministero delle Infrastrutture presieduto da Matteo Salvini. Nonostante la mancanza di dati trasparenti, un’analisi di Openpolis sottolinea come il 78 per cento dei fondi sarebbero ancora da spendere. La speranza di Meloni quindi è che la prossima commissione sia più aperta a una revisione del piano per allungare i termini, mentre gli odierni commissari Gentiloni e Dombrovskis rifiutano l’idea. 

Il DEF “snello e leggero” mostra la scarsa lungimiranza del governo Meloni

Non si possono addossare al governo tutte le colpe per i danni passati, come quelli riguardanti il Superbonus. Ma questo DEF atipico, definito invece “snello e leggero” dalla Presidente del Consiglio, è sintomatico della scarsa lungimiranza e dell’incompetenza che aleggia sulla compagine di governo. Il governo è a caccia di risorse, ma il vincolo è di non toccare gli interessi che rappresenta e di chi potrebbe votare per i partiti di governo alle prossime elezioni. Questo lascia poco spazio di manovra al governo, che andrà all’incasso con qualche cessione di patrimonio pubblico: una strategia meno conveniente sul lungo periodo, ma che permette di avere risorse nell’immediato. Non manca poi la scarsa considerazione di piani più strutturati al fine di salvaguardare il reddito delle famiglie: dal salario minimo a una politica industriale più ragionata. 

Ma questo significherebbe avere un orizzonte politico che va oltre le prossime elezioni europee. La speranza del governo è una nuova commissione (magari ancora a guida Von Der Leyen) che guardi con maggior apertura all’Italia, vista come uno dei paesi principali della rivoluzione reazionaria che si sta diffondendo in Europa. Questa speranza sembra vana. Stando ai sondaggi, il prossimo parlamento europeo continuerà ad avere una maggioranza “di larghe intese”. Ma anche considerando un cambio di maggioranza, questo comporterebbe un’alleanza tra il Partito Popolare, Renew Europe e l’Alleanza dei Riformisti e Conservatori di cui fa parte proprio il partito di Meloni. Eppure questi partiti non possono essere di certo definiti meno inclini a politiche di bilancio stringenti, semmai il contrario.

L’ipotesi più probabile però è che, anche tenendo in considerazione maggiori margini lasciati dalla commissione, il governo Meloni si troverà a dover prendere decisioni che potrebbero scontentare gli italiani. Anche se, come abbiamo visto con il caso carburanti, la propaganda governativa è molto efficace.

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