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Cannabis: effetti sulla salute, legalizzazione e dibattito politico

8 Marzo 2017 10 min lettura

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Cannabis: effetti sulla salute, legalizzazione e dibattito politico

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In queste ultime settimane si è riacceso il dibattito politico sulla legalizzazione delle cosiddette “droghe leggere”, in particolare della cannabis (cioè dell’hashish e della marijuana, ottenute dalla pianta del genere Cannabis), dopo il drammatico caso di cronaca che ha visto protagonista un ragazzo di 16 anni, suicidatosi nella propria abitazione durante una perquisizione della Guardia di Finanza.

Nella discussione che vede contrapposti proibizionismo e antiproibizionismo finiscono, naturalmente, per essere dibattuti anche gli aspetti scientifici e medici del problema. La cannabis è senz'altro la "droga leggera" più dibattuta, anche perché è la più diffusa nella popolazione.

Fonte: Osservatorio europeo delle droghe e delle tossicodipendenze

La Relazione europea sulla droga del 2016, pubblicata dall'Osservatorio europeo delle droghe e delle tossicodipendenze, riporta che il 16,4% degli europei tra i 15 e i 24 anni ha fatto uso di cannabis nell'anno precedente. La percentuale di diffusione tra i 15 e i 34 anni varia tra i diversi paesi:

Fonte: Osservatorio europeo delle droghe e delle tossicodipendenze

Ci sono paesi in cui dal 2000 a oggi il consumo rimane sostanzialmente stabile o è in diminuzione:

Fonte: Osservatorio europeo delle droghe e delle tossicodipendenze

E altri, tra cui l'Italia, in cui si registra un aumento:

Fonte: Osservatorio europeo delle droghe e delle tossicodipendenze

Il documento afferma che il numero di pazienti sottoposti a trattamento per la prima volta per problemi legati alla cannabis è salito da 45mila nel 2006 a 69mila nel 2014. Può essere perciò utile capire cosa dicono gli studi in questo campo (almeno su alcuni degli aspetti medici più dibattuti), al di là della discussione su quale debba essere lo status legale di queste sostanze.

Per farlo è necessario analizzare numerose ricerche pubblicate in un certo arco di tempo. È quello che hanno fatto gli autori di un rapporto dello scorso gennaio a cura delle National Academies of Sciences, Engineering and Medicine, una delle principali organizzazioni scientifiche degli Stati Uniti.  Il documento esamina le conclusioni di numerosi studi – più di 10mila – che sono stati pubblicati dal 1999 a oggi e che hanno come oggetto gli effetti sulla salute della cannabis e dei cannabinoidi, come il tetraidrocannabinolo (THC), la principale molecola psicoattiva contenuta nella cannabis. Questi studi hanno indagato la correlazione tra l’assunzione di cannabis e diverse patologie. Gli autori hanno quindi valutato le evidenze che, su ogni tema, emergono dalle ricerche e le hanno classificate sulla base di cinque livelli crescenti di solidità: evidenza assente o insufficiente, limitata, moderata, sostanziale, conclusiva.

L'utilizzo terapeutico della cannabis

In questo rapporto sono stati presi in esame anche gli effetti terapeutici della cannabis, un tema centrale nel dibattito sulla legalizzazione. Secondo gli autori c’è una evidenza sostanziale (quindi non ancora conclusiva) che la cannabis sia efficace nel trattamento del dolore cronico, provocato da diverse malattie come le neuropatie o il cancro.

L’efficacia e gli effetti collaterali dipendono però anche dalla forma in cui vengono assunti i principi attivi, dalle dosi e dalle modalità di somministrazione. Ci sono pazienti che assumono la cannabis attraverso estratti che vengono fumati o vaporizzati e poi inalati, ma anche usando preparati per uso topico (cioè che si applicano localmente, per esempio sulla pelle). Ci sono poi i farmaci che contengono cannabinoidi come principio attivo. Tra questi il nabiximol, che contiene THC estratto della pianta, o il nabilone, che è un derivato sintetico della stessa molecola.

C’è una evidenza conclusiva che i cannabinoidi orali possano essere usati efficacemente per contrastare sintomi come vomito e nausea in pazienti sottoposti a chemioterapia. E c’è una evidenza sostanziale che possano prevenire la spasticità in pazienti che soffrono di sclerosi multipla. Per molte altre patologie (come il trattamento di alcuni tumori o dei sintomi della malattia di Parkinson) i dati a supporto sembrano al momento assenti o non sufficienti per trarre conclusioni.

In ogni caso l’uso medico della cannabis o dei suoi derivati non sembra essere un tema particolarmente controverso dal punto di vista politico. In Italia, come riporta il ministero della Salute, già dal 2006 i medici possono prescrivere farmaci o preparazioni a base di cannabis. Nel 2016 inoltre il Ministero ha avviato un progetto pilota per la produzione di preparati di estratti di cannabis presso lo Stabilimento chimico farmaceutico militare di Firenze, allo scopo tra l’altro di "evitare il ricorso a prodotti non autorizzati, contraffatti o illegali".

Gli effetti sulla salute

La cannabis, nella sua modalità di consumo più diffusa, viene fumata tramite sigarette, come avviene con il tabacco. Diversi studi hanno perciò indagato il possibile legame tra fumo di cannabis e tumori tipici di fumatori come quello al polmone. Quando fumata però la cannabis viene spesso mescolata con tabacco e gli stessi fumatori di cannabis possono essere anche fumatori di tabacco. Questi sono due fattori confondenti che rendono complesso individuare nella popolazione una correlazione tra fumo di cannabis, di per sé, e cancro al polmone. Ci sono stati studi che hanno rilevato un aumento del rischio, altri che non hanno trovato correlazioni significative.

L'associazione col tumore al polmone non sembra essere significativa. Tuttavia come scrive uno studio, sono necessarie ulteriori indagini, che tengano in maggior conto l’uso del tabacco come fattore confondente e che comprendano un numero sufficiente di fumatori abituali di cannabis. Per molti altri tumori (per esempio: tumore alla prostata, linfomi, leucemie) non ci sono evidenze per stabilire una qualche correlazione.

Sono state poi considerate numerose altre patologie come l’infarto, per il quale c’è una evidenza limitata di correlazione con l’uso di cannabis. Il ruolo della cannabis come fattore scatenante di infarti del miocardio è plausibile dati i suoi effetti sul sistema cardiovascolare, soprattutto in persone già a rischio. Al momento però gli studi non sono di sufficiente qualità e completezza per poter fornire risposte certe.

La cannabis provoca la schizofrenia?

Una delle correlazioni più studiate è quella con alcune patologie mentali. Sono state svolte numerose ricerche sull’associazione tra l’uso di cannabis e l’insorgenza di schizofrenia e altri disturbi psicotici. Specialmente tra chi inizia a farne uso già nell’adolescenza. Questa ipotesi è oggetto tuttora di dibattito, anche per l’allarme sociale che suscita la diffusione della cannabis tra i più giovani.

Nell’affrontare questo tema il rapporto delle National Academies of Sciences, sulla base di dati che riguardano la popolazione americana, premette che non è così raro che si registri l’uso di sostanze stupefacenti tra le persone che soffrono di disturbi mentali o che tra le persone che sviluppano dipendenza si riscontrino soggetti in cui è possibile diagnosticare sintomi di disordini mentali. È l’abuso di stupefacenti a essere un fattore rischio di malattie mentali? O sono i disturbi mentali a predisporre le persone ad assumere sostanze come la cannabis? Possono intervenire anche fattori ambientali, o di altro tipo, che fanno sì che non sia semplice determinare in che direzione vada il rapporto di causa ed effetto.

Dagli studi più recenti, comunque, sembra emergere un progressivo consenso scientifico sulla correlazione tra la cannabis e la schizofrenia, e altri disturbi mentali simili. "L’associazione tra l’uso di cannabis e lo sviluppo di disordini psicotici è supportata da dati sintetizzati in diverse revisioni sistematiche di buona qualità", scrivono gli scienziati delle National Academies of Sciences.

Una revisione pubblicata nel 2014 definisce l’associazione tra cannabis e psicosi "robusta e consistente tra diversi campioni", con una forte evidenza di una relazione dipendente dalla dose. A una conclusione simile è giunto uno studio del 2016: alti livelli di utilizzo di cannabis aumentano il rischio di sviluppare psicosi, con un effetto che dipende dalla dose.

Una ricerca molto citata, condotta in Svezia e pubblicata nel 1987 su The Lancet, ha calcolato un rischio di schizofrenia tra i consumatori frequenti di cannabis sei volte maggiore di quello dei non consumatori. In una ricerca di due anni dopo, su un campione della popolazione considerata in precedenza, è stato registrato un aumento del rischio di quattro volte. Ma il campione era molto piccolo e indagini successive hanno rilevato un rischio inferiore e variabile tra i consumatori non abituali, a conferma di un effetto che dipende dalla dose assunta e dall’intensità dell’utilizzo.

La ricerca scientifica si è concentrata sull’assunzione della cannabis durante l’adolescenza perché si tratta di un periodo critico per lo sviluppo cerebrale. Alcuni dei meccanismi neurofisiologici alla base di questi processi di maturazione del cervello coinvolgono anche il sistema dei recettori endocannabinoidi (recettori CB1 e CB2), così chiamati perché a essi si legano sia i cannabinoidi di origine vegetale come il THC che alcune molecole prodotte all’interno del cervello, chiamate appunto endocannabinoidi.

Sono proprio questi recettori infatti che mediano gran parte dell’attività psicotica che la cannabis produce nel cervello, come gli effetti che si avvertono nelle ore o giorni successivi all’assunzione. Il sistema di recettori endocannabinoidi, presente in molte aree cerebrali, modula anche alcune funzioni come la memoria e l’apprendimento. Evidenze dimostrano poi un ruolo sia dei recettori CB1 che CB2 nella schizofrenia.

Si pensa quindi che l’assunzione della cannabis durante l’adolescenza possa sovrapporsi e interferire con questo sistema in una fase delicata del suo funzionamento, in cui vengono rimodellati circuiti neurali che governano alcune importanti funzioni cognitive. Questo spiegherebbe peraltro i deficit cognitivi e di apprendimento osservati nei soggetti che hanno fatto un uso persistente di cannabis già a partire dall’adolescenza.

Questi dati sono sufficienti ad affermare che la cannabis è un fattore di rischio per la schizofrenia? Per rispondere a questa domanda bisogna tenere conto della premessa fatta dal rapporto delle National Academies of Sciences. Ovvero: stabilita con un buon grado di certezza l’associazione statistica tra cannabis e schizofrenia e altri disturbi psicotici, almeno nei consumatori frequenti, bisogna determinare se esiste un rapporto causale e quale, delle due, sia la causa dell’altra.

È un problema non semplice da risolvere perché non si conoscono ancora del tutto le cause della schizofrenia. Sono stati trovati moltissimi geni, e corrispondenti varianti, che predispongono all’insorgenza di questa malattia, con una rilevante componente familiare (tanto che il 10% delle persone che hanno un parente di primo grado affetto sviluppa la malattia, rispetto all’1% della popolazione generale).

Questo retroterra genetico interagisce con fattori ambientali, sociali o di altra natura, ed è questa complessa interazione a determinare in alcuni individui la malattia e la gravità dei sintomi. Come sintetizza uno studio, si possono fare diverse ipotesi: la cannabis è una causa della schizofrenia; la cannabis accelera la schizofrenia in persone predisposte; la cannabis aggrava i sintomi della schizofrenia; le persone affette da schizofrenia sono più predisposte a utilizzare cannabis.

Una ricerca del 2014 ha avanzato proprio una ipotesi simile a quest'ultima. Gli autori hanno selezionato all’interno della popolazione un campione di persone sane, ma con una predisposizione genetica alla malattia. Hanno poi indagato se questi soggetti fossero stati anche consumatori di cannabis. Hanno trovato che il profilo genetico di rischio si poteva associare all’uso di cannabis. Ovvero: dal primo fattore si poteva prevedere in buona misura il secondo. La loro conclusione quindi è stata che i geni che predispongono alla schizofrenia potrebbero predisporre anche all’uso di cannabis. "Ciò non significa che non ci sia nessuna relazione causale, ma almeno in parte l’associazione potrebbe essere dovuta a una relazione causale che va nella direzione opposta", spiegano gli autori.

La natura della correlazione tra cannabis e schizofrenia è quindi tutt’altro che chiara. È probabile che la sostanza possa costituire un fattore di rischio soprattutto per chi ha una predisposizione genetica e che in questa complessa relazione pesino anche la frequenza di consumo, la quantità di dosi assunte e l'età di inizio.

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Del resto è difficile spiegare perché, se in alcuni contesti il consumo di cannabis aumenta, l’incidenza della malattia rimanga stabile nello stesso periodo. Non tutti quelli che fumano cannabis si ammalano di schizofrenia. Una ricerca riporta che il consumo di cannabis nel Regno Unito è aumentato di 18 volte tra i minori di 18 anni, dagli anni '70, mentre il numero di casi di schizofrenia è rimasto stabile. Una tendenza simile è stata riscontrata anche in altri paesi come l'Australia.

Scienza e valori: due discussioni diverse

La complessità e la mancanza di risposte certe sono la norma nella scienza. Quando però si affrontano temi scientifici che diventano particolarmente controversi nella società, queste difficoltà pesano anche sulle scelte politiche e sulle valutazioni personali. Come già accennato in casi come questi la posizione che si assume va ben oltre l'aspetto scientifico. Quando discutiamo di cannabis e di legalizzazione delle droghe leggere parliamo anche della sfera dei valori individuali, degli stili di vita e della cultura. Parliamo di ciò che è socialmente accettato, o accettabile e di ciò che non lo è. E oggi l'uso ricreativo della cannabis – al di là del suo impatto sulla salute – è socialmente meno accettato di quello di altre sostanze capaci di dare dipendenza, come il tabacco e l’alcol.

È su questo livello di discussione che si colloca la controversia politica. Non è possibile separarlo completamente dalla questione scientifica medica, anche perché la politica non può che tenere conto della ricerca se si tratta di regolamentare per l'uso personale una sostanza come la cannabis. Si può però provare a tenere distinti questi livelli. Per esempio evitando di utilizzare singoli studi per sostenere la tesi proibizionista o quella antiproibizionista, soprattutto quando non è possibile trarre conclusioni certe. Se i due piani diventano confusi è inevitabile che le evidenze scientifiche, anche se vengono invocate per sostenere il proprio punto di vista, finiscano di fatto per rimanere sullo sfondo di un dibattito che riguarda altro.

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